Il “palio” di San Primiano

PALII DI S. PRIMIANO

Cattedrale di Larino

(1985)

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uale sia l’idea che si ha dei “palii” di San Primiano, lo si desume dalla recente Guida della città di Larino, che li presenta come «lunghe aste di legno sulla cui sommità sono posti drappi multicolori e multiformi, per indicare il trionfo della fede ottenuto con  il sacrificio della  vita»

 
 

(Città di Larino, p. 61; vd. anche G. Mammarella, I Santi Martiri Larinesi, p. 23).

 

Non condivisibile credo sia l’idea dello Stelluti (Larino. Carri & Carrieri di San Pardo 1990/91, p. 13), il quale definisce il “palio” di San Primiano come «palma, panno, drappo, manto o premio che viene dato a chi vince una gara specialmente equestre (come a Siena) nel nostro caso dei carri trainati dai buoi». Questa definizione non ha infatti alcuna relazione con «lu Salvatore cu lu pallio mmano», di cui parla la cosiddetta Carrese di S. Pardo (I,20), il quale credo non avesse in animo di partecipare ad alcuna gara a premi, del tipo menzionato, e nemmeno credo lo brandisse a coronamento di una vittoria sportiva.

 

 Si può dire che, pur accettando in via preliminare la spiegazione fornita dalla Guida cittadina, essa non appare affatto esaustiva a comprendere il motivo per cui ogni fedele sentisse il bisogno di portare in processione un’asta con un drappo colorato. Se realmente si fosse trattato di un mero simbolo – ma nella Chiesa dei primi secoli tutto era ben più concreto –, sarebbe bastato che all’inizio del corteo processionale ci fosse stato un solo vessillifero incaricato di issarlo sopra l’asta.

 

Mi sembra chiaro, invece, che ogni fedele avvertisse il bisogno di tenere ben stretto in mano il suo proprio “simbolo”, avente un significato salvifico ben preciso, ed anzi l’asta che lo reggeva in origine altro non era che un bastone crociato da pellegrino, visto che l’uso di recarsi in pellegrinaggio sulle tombe dei martiri era diffuso pressoché ovunque, a cominciare da Roma, e il bastone crociato era di utilizzo assai frequente (G. Tancredi, Folklore Garganico, pp. 29-30; C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, I, p. 21; II, pp. 166-167).

 

 

  Pellegrinaggio a piedi al Santuario dell'Addolorata di Castelpetroso (IS), proveniente da Pietramelara (CE); vediamo i numerosi pellegrini incedere appoggiati ai loro bastoni crociati, ai quali è agganciato un "signum" della loro meta spirituale (maggio 2016)
 
   

Venendo a quella che io ritengo sia la vera origine del “palio”, vediamo come sin dal principio nel Cristianesimo si sia avvertita l’esigenza di “creare” delle reliquie. Del resto le Sacre Scritture ci riportano diversi casi di miracoli operati da Dio per mezzo di spoglie umane od oggetti inanimati, come ad es. il bastone di Mosé (Es 4,21), il serpente di bronzo (Num 21,8s), le ossa di Eliseo (2Re 13,21), la stessa veste di Cristo (Mt 9,20), l’ombra di Pietro (At 5,12-16), pezzi di stoffa appartenenti a Paolo (At 19,12).

 

Ci è inoltre noto che durante la persecuzione di Valeriano del 258, dinanzi a Cipriano, vescovo di Cartagine, sul punto di essere decapitato, i fratelli di fede gettavano linteamina… et manualia (salviette di lino e asciugamani), col proposito di farle impregnare del suo sangue (Acta Cypriani 4,2; vd. R. Grégoire, Manuale di agiologia, p. 323).

 

Lo stesso sangue del martire veniva, ove possibile, raccolto:

 

Plerique vestem linteam

Stillante lingunt sanguinem

Tutamen ut sacrum suis

Domi reservent posteris.[1]

 

 
   

Ancora, dopo la morte di Vincenzo di Saragozza, che patì  molte torture e rese l’anima a Dio in epoca coeva ai Santi Martiri Larinesi, gli astanti fecero a gara a baciarne i resti, a toccarne le ferite, a intingere nel suo sangue fazzoletti da lasciare come eredità ai posteri (R. Grégoire, op. cit., p. 323). Analogamente, a Samosata [od. Samsat, Turchia] nel 308, alcune donne corruppero le guardie per poter lavare con le spugne i corpi dei sette fratelli martiri, così da raccogliere anche gocce del loro sangue (Prud., Peristeph. V,41-45 : PL LX, col. 381; cfr. anche Monumenta Ecclesia Liturgica, I/2, p. 192, nn. 4399-4401).

 

Consideriamo poi come sia ben documentata l’usanza di mettere a contatto[2] delle tombe martiriali, attraverso la cosiddetta fenestella confessionis, oggetti vari, specialmente piccoli panni di lino – brandea – ovvero pezzi di stoffa  più grandi – palliola, cioè drappi – derivante dalla consuetudine di santificare i liquidi tramite il contatto con esse (P. Testini, Archeologia Cristiana, pp. 132-133, 146-147, 483).

 

 
   

San Gregorio Magno ce ne riporta diversi esempi (Dialog. II,38 : PL LXVI, col. 204). Quando Giustiniano richiese a papa Ormisda (519) alcune reliquie di San Lorenzo, si fece preghiera di deporre gli oggetti ad secundam cataractam (Hormisdæ papæ epist. et decr. : PL LXIII, col. 474). Sulla loro reale efficacia, ancora papa Gregorio racconta che, dubitando alcuni Greci del loro valore, papa Leone Magno praticò un taglio con le forbici et ex ipsa incisione sanguis effluxerit (Reg. Epist. IV,30 : PL LXXVII, col. 702).

 

Le reliquiæ ex contactu assumevano altri nomi ancora: sanctuaria, nomina, pignora, memoriæ, λείψανα, eulogiæ. Quest’ultimo termine deriva propriamente dall’uso che si fece di ampolline, fiale, vasi, piatti, che costituivano il corredo delle tombe cristiane, adoperati per raccogliere, dai sepolcri dei martiri, gli oli aromatici santificati, così da poterli conservare come “benedizione” – ευ̉λογία appunto – al posto delle vere reliquie.

 

 
   

L’operazione trovò una ancor più pratica agevolazione nell’articolazione delle chiese cimiteriali a partire dal VI secolo, quando si cominciò a costruire cripte semianulari intorno agli altari (P. Testini, op. cit., p. 600), costituite da un corridoio ricavato lungo la curva dell’abside, dal cui centro ne partiva uno retto, che consentiva di accedere alle reliquie del santo, sia per rendergli il dovuto culto sia per accostarvi gli oggetti da santificare.

 

La cripta così strutturata veniva poi collegata al presbiterio mediante rampe, che risalivano al livello della chiesa all’altezza dell’arco absidale. La celletta col deposito aveva quasi sempre aperture che davano sul corridoio anulare e sul presbiterio, protette da grate di ferro o transenne di marmo; talvolta venivano praticati dei fori in alto – cataractæ, umbilici – che permettevano di vedere il deposito con le reliquie nonché avvicinarvi gli oggetti da santificare (In Roma abbiamo gli esempi illustri di San Pietro in Vaticano e San Paolo f.l.m.).

 

Una descrizione piuttosto accurata di cripta semianulare ci è stata lasciata da Gregorio di Tours a proposito delle basiliche di San Pietro in Vaticano e San Giovanni di Lione (In gloria mart. 28 e 50 : PL LXXI, coll. 728-729, 752), benché si ritenga generalmente che il viaggio a Roma di Gregorio sia leggendario (cfr. BSS, VII, col. 220). Della cripta romana, ricavata nel presbiterio verso la fine del VI secolo, ricordiamo che costituì il primo esempio di questa felice soluzione architettonica e diede nuovo impulso al culto martiriale, facendo scuola sia in Occidente che in Oriente. La cripta costruita da Onorio I (625-638) nella chiesa romana di San Pancrazio seguì a breve (cfr. P. Testini, op. cit., pp. 184-185, 600-601).

 

Le stoffe e gli altri oggetti sottoposti a questo rito sacro arrivavano perciò ad assumere il significato di vere e proprie reliquiæ ex contactu, e conservarono per lungo tempo i sepolcri dei martiri da manomissioni e spoliazioni, specialmente nella parte occidentale dell’Impero, dove più si sentiva l’influenza della tradizionale riluttanza papale a violare in qualsivoglia maniera i sepolcri dei martiri romani.

 

 
[da Prandi, La tomba di S. Pietro nei pellegrinaggi dell'età medievale, Todi 1963]
[da Prandi, La tomba di S. Pietro nei pellegrinaggi dell'età medievale, Todi 1963]
Ricostruzione presbiterio e cripta semianulare S. Pietro in Vaticano
Due ricostruzioni del presbiterio rialzato e della confessio semianulare nella basilica di S. Pietro in Vaticano, al tempo di Pelagio II e Gregorio Magno (579-604) [da Testini, Archeologia cristiana, Bari 1980]
   

Di questo particolare tipo di reliquie abbiamo una sterminata documentazione, a partire da quelle che si vuole ritenere siano appartenute direttamente al Cristo, che qui omettiamo. Per quanto riguarda invece i primi secoli, ci è pervenuto che San Cipriano di Cartagine teneva in somma considerazione gli oggetti toccati dai martiri, come ad es. le catene che avevano avvinto i loro piedi conducendoli ad una gloriosa morte:

 

ornamenta sunt ista, non vincula, nec christianorum pedes ad infamiam copulant sed clarificant ad coronam. O pedes feliciter vincti, qui non a fabro sed a Domino resoluuntur.[3]

 

 Allo stesso modo papa Gregorio Magno (590-604) soleva portare al collo un reliquiario a forma di crocifisso, contenente limatura delle catene di San Pietro e della graticola di San Lorenzo (Greg. I, Reg. Epist. III,33 : PL LXXVII, col. 631).

 

Romanis consuetudo non est, quando sanctorum reliquias dant, ut quidquam tangere præsumant de corpore.[4]

 

Questa fu la risposta del grande Papa santo all’imperatrice Costantina, moglie di Maurizio, che aveva richiesto la testa o qualche reliquia del corpo di San Paolo (Reg. Epist. IV,30 : PL LXXVII, col. 702).

 

Ci è noto che un culto dei fratelli romani Proto e Giacinto, deposti sulla Salaria vetus, si localizzò all’inizio del VI secolo anche presso la Basilica Vaticana, probabilmente proprio a motivo della presenza in loco di reliquie ex contactupalliola o altro tipo–. È quanto tramanda una iscrizione di Papa Simmaco (498-514) espressamente dedicata ai due martiri, invocati come patroni, le cui spoglie simboliche, qui definite secondo l’uso del tempo con la metafora pia corpora, vennero nuovamente (rursus) deposte al di sotto di un altare, perché ai due Santi si perpetuasse per sempre una lode perenne (C. Carletti, Due fratelli campioni degni di elogio, in «L’Osservatore Romano» dell’11 settembre 2009).

 

A partire dal pontificato dell’orientale Teodoro I (642-649), si fece sentire l’influsso della concezione bizantina circa l’impossibilità di dare valore di reliquie a oggetti accostati alle vere spoglie dei martiri, infrangendo il plurisecolare obbligo di intangibilità dei loro sepolcri (L. Canetti, Frammenti di eternità cit., p. 45).

 

Vi era poi chi ingenuamente credeva che dopo l’accostamento del panno di stoffa alle reliquie di un martire, esso acquisisse un qualche incremento di peso (P.-A. Sigal, Les marcheurs de Dieu. Pèlerinages et pèlerins au Moyen-Âge, p. 26). La virtus della reliquia si traduceva pertanto in un dato fisico, sperimentalmente apprezzabile; e la radice da cui ha origine la parola ebraica kābôd, resa in latino col termine gloria Dei – tradotto nella versione greca dei Settanta con la parola δόξα –, si rifà precisamente al concetto di «peso» (F. Cardini, Reliquie e pellegrinaggi, p. 1023 e n. 114).

 

   Per il concetto di virtus nella Chiesa dei primi secoli, vediamo cosa avveniva nel caso di San Martino di Tours:

 

la virtus Martini est enfermée en une «chose» tangible ... Nous avons remarqué par ailleurs le caractère «mécaniciste» des miracles racontés: un contact établit le courant, par lequel passe la virtus Martini. La seule condition qui soit posée est la foi, entendue comme la foi en cette vertu du saint, beaucoup plus que la foi en Jésus-Christ, à laquelle il n’est fait que des allusions indirectes.[5]

 
 
   

L’attuale denominazione di “palio”, per quanto riguarda il drappo che fa memoria del culto tributato ai nostri Martiri, è chiaramente una corruzione del termine originario, facilmente documentabile confrontando le diverse versioni della cosiddetta Carrese di San Pardo: mentre quello più noto – riportato nei pieghevoli distribuiti durante la festa del Patrono (ahimé fino a qualche anno fa) – accetta l’alterazione, un altro differenzia la grafia: «E Santo Salvatore co lu palio in mano» (I,15); nella stessa lezione leggiamo infatti anche «Coll’Angeli Santi lu pallio mmano» (I,21) [in N. Stelluti, op. cit., p. 34].

 

L’usanza di far procedere in processione fanciulli e ragazzi, e non più adulti, si può agevolmente spiegare con la fine dei pellegrinaggi a piedi fino alle tombe dei Martiri, causata anche e soprattutto dal trafugamento dei loro Corpi.

 

Peraltro, che il rito del “palio” non avesse in origine alcuna relazione con le processioni di ragazzi credo lo attesti un assai significativo verso della Carrese: «lu Salvatore cu lu pallio mmano» (I,20); difatti esso sottintende che il pellegrino maturo e consapevole vedeva il Cristo raffigurato col simbolo del suo andare verso la meta.

 
 
   

È verosimile ritenere che in epoca altomedievale – quando le consuetudini lo permettevano, ma comunque prima del trafugamento dell’842 – sia invalso l’uso della solenne processione delle reliquie dei Martiri Larinesi – o parte di esse – per le strade del centro urbano nel giorno della loro festa, cui certamente avranno preso parte le grandi folle di pellegrini, coi loro bordoni crociati rivestiti del pallio.

 

Da ricordare, a proposito, quel che dice San Gregorio di Tours relativamente alle traslazioni notturne delle reliquie di altri santi minori, in occasione della grande vigilia di San Martino (De gloria confess. 39 : PL LXXI, col. 858). Nel giorno di festa vero e proprio si era poi soliti svolgere processioni per visitare i diversi santuari e le diverse memorie martiniane, tra le quali la vicina abbazia di Marmoutier [Indre-et-Loire, Francia] (De mirac. s. Martini 2,39 : PL LXXI, coll. 958-959), fondata nel 372 dal santo Vescovo, da dove era abitudine portar via dell’acqua dal pozzo da lui scavato (E. Delaruelle, loc. cit., p. 223-224).

 
 

 

 

La processione intra urbem di fanciulli con drappi colorati al seguito del simulacro ligneo del Santo più venerato starebbe perciò a rappresentare ciò che di residuo è rimasto di tutto il sacro rito. Diversamente, si può anche ipotizzare che il culto ai Santi Martiri  Larinesi abbia assunto fin dall’inizio o nel corso delle generazioni, una particolare attrazione e una ben delineata valenza, magari per miracoli e fatti prodigiosi che non conosciamo, legate alla guarigione fisica e spirituale di persone di giovane età.

 
 
 

 

Il pallio ha una significativa rilevanza anche nella storia delle origini del Santuario garganico di San Michele. Venendo infatti all’episodio della Dedicazione della Basilica garganica (29 settembre 493), quando i vescovi apuli giunsero alla mistica caverna, vi trovarono già eretto un rozzo altare coperto da un drappo vermiglio, un palliolum appunto; vi rinvennero altresì impresse nella roccia le “impronte” di San Michele; tutti contrassegni della già avvenuta consacrazione:

 

At veniunt mane cum oblationibus et magna instantia precum, intrant regiam australem, et ecce longa porticus in aquilonem porrecta atque illam attingens ianuam extra quam vestigia marmori diximus inpressa; sed priusquam huc pervenias, apparet ad orientem basylica grandis, qua per gradus ascenditur. Hæc cum ipso porticu suo quingentos fere homines capere videbatur, altare venerandum rubroque contectum palliolo prope medium parietis meridiani ostendens.[6]

 

 
   

L’episodio qui riproposto pone l’accento su un altro elemento che sembra rafforzare il legame tra il Santuario micaelico del Gargano e la città di Larino. Difatti, nella Grotta l’Arcangelo, che è liturgo per antonomasia, si limita a consacrare l’altare, su cui appare un palliolum rosso, essendogli preclusa la celebrazione del rito eucaristico, la trasformazione cioè del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo, la quale altro non è se non imitazione della sua Passione, nel rito che si compie. Lì dove si arresta l’azione, pur indispensabile, del messaggero sovrannaturale – angelus –, incaricato del rito della consacrazione dell’altare, di norma spettante al Vescovo, deve necessariamente subentrare l’azione dell’homo celebrante il rito eucaristico.

 

Nella ricostruzione del significato originale della cosiddetta Carrese di San Pardo, abbiamo visto che il palliolum della “Città del sangue” – assimilato per contatto a una reliquia ovvero al corpo del Martire –, procede, fisicamente e spiritualmente, per mano del pellegrino penitente, dalla tomba del Martire all’altare consacrato dall’Arcangelo, come deposto su di esso, a imitazione dell’azione liturgica operata dal messaggero sovrannaturale, così come è reso visibile dall’originario palliolum che lo ricopriva.

 

Il nostro pallio si pone pertanto in stretto collegamento col pane[7] e col vino dell’Eucaristia, che il sacerdote depone sull’altare, visto che il Martirio è imitazione della Passione di Cristo nei fatti (Ign. Ant., Ad Rom. 2-7), mentre, come si è detto, l’Eucaristia lo è nel rito che si celebra, che a sua volta è adempimento delle figure eucaristiche presenti nella Scrittura.

 

Risulta qui del tutto evidente come Eucaristia e Martirio siano in stretta connessione tra di loro; essi rappresentano una medesima Realtà, imitando entrambi la Passione di Cristo, benché in modi diversi (per i collegamenti tra Eucaristia e Martirio: E. Mazza, La celebrazione eucaristica. Genesi del rito e sviluppo dell’interpretazione, pp. 163-166).

 

 
   

Possiamo perciò visibilmente verificare come l’azione liturgica dell’Arcangelo Michele – il palliolum deposto sul «venerando altare» –, si presenti alla stregua di un invito alla celebrazione dell’intera vita del cristiano come Martirio. Questa concezione è del resto chiaramente espressa nel pensiero di alcuni Padri, quali ad esempio San Cipriano, per il quale il calice del Signore predispone e rende degni del calice del martirio, poiché dà la forza del combattimento spirituale e della confessione del nome di Cristo:

 

At vero nunc non infirmis sed fortibus pax necessaria est nec morientibus sed viventibus communicatio a nobis danda est, ut quos excitamus et hortamur ad prœlium non inermes et nudos relinquamus, sed protectione sanguinis et corporis Christi muniamus, et cum ad hoc fiat eucharistia ut possit accipientibus esse tutela, quos tutos esse contra adversarium volumus, munimento dominicæ saturitatis armemus.[8]

 

Per questa ragione i Cristiani ogni giorno bevono il calice del Signore, per poter a loro volta spargere il sangue per Cristo. È questo il voler essere trovati con Cristo, imitare ciò che Cristo fece e insegnò (cfr Mc 10,38s). Nella concezione ciprianea, la logica profonda del culto impone a colui che compie il sacrificio una completa identificazione col sacrificio stesso, fino ad arrivare a una totale assimilazione tra il celebrante e il Martirio di Cristo, al punto di diventare egli stesso martire:

 

Merito ille dum in sacrificio Dei talis est, ipse postmodum sacrificium Deo factus est, ut martyrium primus ostendens initiaret sanguinis sui gloria dominicam passionem qui et iustitiam Domini habuerat iet pacem.[9]

 

Il santo Vescovo confidava difatti:

 

sperabatur iam iamque carnifex veniens, qui devota sanctissimæ victimæ colla percuteret: et sic erant omnes dies illi quotidiana expectatione moriendi, ut corona singulis posset adscribi.[10]


Come è noto, questo suo desiderio venne esaudito il 14 settembre del 258.

 


   

In definitiva, vediamo come il pellegrino che si accompagna nel viaggio penitenziale col suo bordone crociato rivestito del pallio, si pone in analogia col sigillo (di sangue) del Dio vivente, impresso sulla fronte dei suoi servi (cfr Ap 7,2.3), che è prefigurazione della veste candida data loro (cfr Ap 6,11; 7,9). Egli procede in “compagnia”, ma potremmo meglio dire in “comunione”, vista l’etimologia della parola – “Compagno” ovvero companio è parola composta da cum (con) e panis (pane), vale a dire «che mangia lo stesso pane» –, ed è immagine reale della celebrazione della propria vita ad imitazione del martire Primiano e, in ultimo, di Cristo stesso; ricordiamo difatti ancora una volta che nella Carrese di San Pardo si descrive «lu Salvatore cu lu pallio mmano» (I,20).

 

Nel suo andare verso la meta, il pellegrino penitente offre in olocausto il proprio cuore[11] contrito, che desidera ardentemente Dio e presenta, con questo proposito, il proprio corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (Rm 12,1), trasformando cioè la propria vita, in comunione con quella degli altri, uniti nello stesso disegno, in sempre più perfetta imitazione della vita di Cristo, addivenendo a una completa consanguineità con Lui.

 

 
   

A un pellegrinaggio ordinato ad alcuni fratres da Oberto [Aubert], vescovo di Avranches, alla ricerca di un palliolum e di altri pignora – ovvero oggetti-reliquie – da prelevare nel Santuario garganico, si deve anche la nascita del culto micaelico in un altro famosissimo luogo sacro, quello di Mont-Saint-Michel in Normandia [dép. Manche] (708), altrimenti detto au péril de la mer, a motivo del fenomeno delle maree che rendono pericoloso il sito.

 

Le vicende che portarono alla fondazione del santuario normanno sono narrate in un’operetta della seconda metà del IX secolo, l’Apparitio sancti Michaelis in monte Tumba:

 

Quod cum post non multum tempus esset, opem ferente Deo, ædificatum, viro Dei Autberto episcopo manente anxio, proinde quia cernebat sibi deesse sancti archangeli pignora; beatus eumdem sacerdotem Michael admonuit, uti fratres celerrime usque ad locum, quo memoria venerabiliter colitur sanctissimi archangeli, dirigeret in Gargano, et eam, quam angelo patrocinante referrent benedictionem, cum summa exciperet gratulatione. Interea missi nuntii adeunt locum: qui benignissime ab abbate loci illius suscepti vestibusque mutati, ac tanti itineris fatigatione sublevati, cuncta quæ suæ contigerant regioni, simulque ad quod venerant, pandunt. Quæ verba cum ipsius loci abbas suo retulisset antistiti, uberrimas omnipotenti Deo laudes uterque retulit, qui pro lapsis naturæ fragilitate terrigenis adsistentium sibi ministrorum dignatur præbere suffragium. Hinc cum qua decebat veneratione sumtis a loco pignoribus, quo beatus archangelus sui memoriam fidelibus commendaverat, partem scilicet rubei pallioli, quod ipse memoratus archangelus in monte Gargano supra altare, quod ipse manu sua construxerat, posuit, et partem scilicet marmoris, supra quod stetis, cuius ibidem usque nunc in eodem loco superextant vestigia, iam dictis fratribus usque ad sacrum locum referenda patrocinia contradidit. [12]

 

Il motivo ricorre peraltro anche in altri racconti agiografici, specie d’Oltralpe:

 

ancora, agli inzi dell’VIII secolo è registrato il viaggio del principe Wolfando, che dalla Francia si recò sul Gargano per prelevarvi alcuni pignora, poi deposti e custoditi nel monastero di San Michele di Verdun (Chronicon in pago Virdunensi 2, 1857, pp. 79-80). Nel Chronicon Centulense, redatto nell’XI secolo da Ariulfo, si narra che Gervino, abate del monastero di San Ricario in Francia, collocò nella cripta da lui voluta diverse reliquie di santi tra le quali anche pignora… de pallio sancti Michaelis archangeli (Chronicon Centulense 18 : PL CLXXIV, col. 1330). Stessa cosa nel monastero catalano di San Michele de Cuxa, sui Pirenei orientali, dove nel X secolo furono poste alcune reliquie del santo Arcangelo, tra le quali compare il pallium di tradizione garganica: reliquiæ ipsius gloriosi arcangeli Michaelis, ex pallio scilicet eius sanctæ memoriæ (Garcia monachus Cuxasensis, Epistola ad Olivam episcopum Ausonensem : PL CXLI, col. 1447) [per questi ed altri episodi si veda I. Aulisa, Pellegrini al Monte Gargano. Le testimonianze letterarie, pp. 46-48].

 

 
   

A sostegno del significato qui proposto circa il “palio” larinese, osserviamo che nella cosiddetta “Cava delle pietre” della Grotta micaelica del Gargano si può vedere un rilievo rupestre in parte mutilo, probabilmente «una formella votiva … un ex voto» (L. Lofoco, La Capitanata e la tradizione compostellana nel Medioevo, p. 129). Dipinto in origine a colori vivaci, datato più verosimilmente al XIV secolo, raffigura un Santo che si accompagna nel suo viaggio con un bastone crociato, al quale tiene legata, mediante una cordicella, una borsa da pellegrino sulla cui ribalta è scolpita in leggero rilievo una piccola conchiglia.

 

È stato variamente identificato con San Giacomo Maggiore ovvero con un non meglio specificato Santo pellegrino che, per la originaria colorazione rossa del mantello, si qualifica come martire [C. Angelillis, op. cit., I, pp. 200-202; R. Mavelli, Madonna col bambino incoronata dagli angeli, pp. 154, 156; J. Bogacki (ed.), Guida al Santuario di San Michele sul Gargano, p. 33].

 

 
   

La figura conferma appunto che in epoca medievale si faceva uso del bastone crociato per raggiungere la Montagna garganica. Essa rappresentava plasticamente il modo in cui alcuni pellegrini – non sappiamo bene di quale provenienza e men che meno quanti – sfilavano per le strade della Città dell’Angelo fino a discendere nella Sacra Grotta, vale a dire accompagnati da un bastone crociato della foggia riprodotta nel rilievo, con un nodus al di sotto della croce, attorno al quale veniva attorcigliata una cordicella che terminava con una borsa quadrangolare piuttosto rigida, del tipo detto elemosiniera, che in origine serviva difatti a raccogliere l’obolo per le elemosine.

 

Di forma quadrata o trapezoidale, divenne oggetto indispensabile in cui si metteva tutto ciò che faceva comodo avere a portata di mano. Pendeva dalla cintura, alla quale intorno al Mille si era soliti legarla, per mezzo di un nodo scorsoio o con le stesse strisce o coi nastri che ne chiudevano la bocca (A.M. Ciaranfi, sub vocem borsa, in EI, VII, pp. 517-518).

 

Un aspetto, si vuole dire, non molto dissimile da quello mostrato tuttora nei cortei di fanciulli che incedono per le strade cittadine, coi loro“palii” multicolori, nei giorni 3 e 15 maggio, per onorare San Primiano e i suoi fratelli Martiri Larinesi, benché nel nostro caso il drappo di stoffa sostituisca la borsa da pellegrino.

 

La ricostruzione proposta appare dunque del tutto conforme all’utilizzo che si faceva dei bordoni, cui si giustapponevano solitamente i simboli del pellegrinaggio.

 

Così infatti Dante, sui pellegrini di Terra Santa:

 

voglio, anco, e se non scritto, almen dipinto,

che ’l te ne porti dentro a te per quello

che si reca il bordon di palma cinto. [13]

 

 
   

Per completezza d’informazione, vediamo come per pallio, ai giorni nostri, s’intenda qualcosa che ha un valore di portata universale. Ci si riferisce a quello indossato dal Papa e da altri particolari vescovi.

 

Pure si osserva che non pochi autori fanno giustamente derivare il sacro pallio da antiche consuetudini dei primi martiri e vescovi: in principio, difatti, la sua funzione doveva rifarsi a quanto avveniva per i malati, i vecchi e a quanti premeva di conservare la voce, i quali solevano avvolgersi intorno al collo un ampio fazzoletto, per lo più di lana (focale, maforte o palliolum appunto).

 

Uno dei principali uffici dei vescovi era quello del doctrinaæ ministerium, la cura divini verbi (passio S. Vincentii 1.4, in Th. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta, pp. 390, 391), nonché quello di prendere la parola in svariate circostanze; da qui la necessità di salvaguardare le corde vocali indossando il focale e al contempo mostrarsi con l’abito degli anziani e degli oratori, avendo indosso la penula, usata sin dal tempo di Tacito (De orat. 39) e consentita agli anziani da Alessandro Severo (222-235) [Æl. Lamprid., Alex. Sev. XVIII 27,4: pænulis intra urbem … ut senes uterentur permisit] (P. Franchi de’ Cavalieri, Intorno al testo della vita e degli atti di S. Cipriano, p. 131, n. 5).

 

Similmente, nel corso del V secolo, ecco che abbiamo il passaggio dal fazzoletto da collo (μαφόριον) all’insegna episcopale vera e propria (ω̉μοφόριον).

 

Si trattò di un lento passaggio: in una cronaca alessandrina del V secolo, vediamo i vescovi con indosso l’insegna episcopale (ω̉μοφόριον), che tuttavia si presenta ancora come semplice fazzoletto (μαφόριον) [J. Wilpert, Beiträge zur christliche Archäologie, pp. 14-15]. Per contro, il più antico testo del martirio di San Pietro d’Alessandria, anch’esso ascrivibile al V secolo, ci mostra il martire che va incontro alla morte con indosso l’ω̉μοφόριον (pallio sacro), detto in seguito μαφόριον (fazzoletto); ed egli lo porta più al modo di fazzoletto vero e proprio che di insegna, dovendo liberarsene per denudare il collo, al fine di ricevere il colpo di gladio:

 

ε̉χαύνωσεν ε̉αυτου̃ ω̉μοφόριον, καὶ γυμώσας ε̉αυτου̃ τὸν τίμιον τράχηλον, κλίνας τὸν αυ̉χένα κτέ. [14]

 

      σχήμα γὰρ ε̉φόρει ίεροπρεπὲς πάντοτε, λευκὰ ίμάτια· στιχάριν καὶ μαφόριν [15]

 

 
   

La denominazione – pallium – si diede quindi agli abiti liturgici cristiani, volendo indicare una striscia di lana bianca larga 5 centimetri, ornata di sei croci di seta nera – rosse per il Papa –, che viene portata intorno alle spalle; essa presenta tre spille gemmate, a ricordare le piaghe di Cristo: il Buon Pastore che porta la pecorella smarrita sulle spalle e, in un certo senso, tutto il genere umano, verso le acque della vita.

 

Le fonti storiche relative a questo sacro indumento affondano nei primi secoli dell’era cristiana: il Liber Pontificalis (I, pp. 202-203) nota che papa San Marco (336) conferì il pallio al vescovo suburbicario di Ostia, uno dei consacranti il Romano Pontefice. Anche se non possiamo essere sicuri del valore storico di questa informazione, per lo meno riflette la prassi del V o VI secolo, quando il Liber Pontificalis fu compilato nell’ambito della curia romana.

 

Il pallio viene tessuto con la lana di due agnelli allevati dalle religiose di Sant’Agnese e benedetti dal Pontefice il 21 gennaio (memoria della Santa[16]). La lana viene quindi lavorata dalle suore di Santa Cecilia in Trastevere; i pallii così ottenuti vengono conservati in un’urna di bronzo nella Confessio di San Pietro, a contatto con  le sue reliquie – ripetendo pertanto l’antico rituale sopradetto –, fino al 29 giugno di ogni anno, solennità dei Santi Pietro e Paolo, quando il Papa stesso li consegna ai patriarchi e agli arcivescovi metropoliti, ovvero per mezzo di delegati.

 

 
 

 

Tornando al nostro caso, vi è stato addirittura un periodo in cui nella Città si correvano «pallii». Così riporta difatti il Magliano:

 

Nelle dette fiere (scil. di maggio) vi è gran concorso et vi si corrono Pallii, il che si celebra anco il giorno di S. Gio: Batta per essere la Chiesa di S. Primiano Commenda di Malta. [17]

 

Annotiamo che in questo resoconto la parola è scritta al modo antico: «pallii», il che rafforza la ricostruzione proposta circa l’originario significato del termine.

 

La notizia della “corsa” – se di corsa si tratta – mi pare in ogni caso assai disdicevole. Ma forse chi scriveva a metà del XVII secolo, parlando di “corse” voleva semplicemente ricordare la sfilata odierna o qualcosa che le rassomigliava molto.

 

 
 

 

 Per quanto riguarda la morfologia, si osserva nelle vecchie fotografie in bianco e nero una più marcata originalità nella confezione dei “palii”; si tendeva cioè a personalizzarli maggiormente, sia mediante la varietà della forma del drappo sia con una molteplicità di decorazioni; laddove ai giorni nostri prevale l’uniformità, se non la produzione in serie con minime differenze, come ad esempio negli esemplari usati da un’intera scolaresca durante la sfilata.

 

Gli attuali cortei processionali, invero, hanno perso tutto o quasi il significato originario, e si vedono oramai sempre meno bambini per le strade cittadine col “palio” tra le mani, tanto che alla mente e al cuore si mostra poco naturale ritenerlo un simbolo di martirio, e ancor meno una vera e propria reliquia.

 

Tuttavia quel rosso purpureo svolazzante, pur sempre fissato alla Croce, non può che ricordare il prezioso sangue del martire Primiano e dei suoi Fratelli di fede.

 

Ma essi lo hanno vinto

grazie al sangue dell’Agnello

e alla parola della loro testimonianza,

e non hanno amato la loro vita

fino a morire.

(Ap 12,11)

 

 

 

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[1] Prud., Peristeph. V,341-344 : PL LX, col. 398; cfr. anche Id., Peristeph. XI : PL LX, col. 545.

[2] Possiamo trovare una non troppo lontana reminiscenza di questa pratica nel mondo romano pagano, dove il concetto di imago era strettamente correlato al corpo del defunto, per il tramite della effigie di cera – solitamente del volto – ottenuta per impronta (si trattava in realtà della forma materiale data a quella cera dopo che essa era stata staccata dal cadavere). Le imagines non presentavano dunque i connotati del semplice “ritratto”, ottenuto per somiglianza col modello originale, ma assumevano il significato di vere e proprie “reliquie per contatto”, perfetto equivalente e parte stessa del referente – il volto del defunto –, che a sua volta era rappresentazione metonimica del defunto stesso. La testa/volto stava perciò alla maschera come il sigillo stava alla sua impronta, che ne raccoglieva e ne preservava la forma corporea nella materia incorruttibile benché distruttibile della cera. Le imagines così ottenute venivano riposte negli armaria collocati negli atria delle domus aristocratiche, identificate mediante tituli, antesignani delle notulæ inventariali apposte a garanzia dell’autenticità delle reliquie custodite nelle teche-reliquiario dei tesori ecclesiastici medievali. Le imagines venivano periodicamente estratte per farle sfilare in occasione dei riti funebri di altri membri della gens patrizia, a suggello del prestigio e dell’antichità della stessa. Apposte sulle selle curuli, esse venivano infine collocate nei rostri del foro, durante lo svolgimento della laudatio funebris, venendo così a irradiare sul nuovo defunto il prestigio della casata (L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, Roma 2002, pp. 116-117).

[3] Cypr., Epist. 76,2 : CSEL III/2, p. 829; vd. anche Epist. 13,5 : ibid., p. 507.

[4] Greg. I, Reg. Epist. IV,30 : PL LXXVII, col. 702.

[5] E. Delaruelle, La spiritualité des pèlerinages à Saint-Martin de Tours du Ve au Xe Siècle, in Pellegrinaggi e culto dei Santi in Europa fino alla 1ª Crociata. Atti del IV Convegno del Centro di studi sulla spiritualità medievale, Todi 1963, passim, qui pp. 226-227.

[6] Liber de apparitione Sancti Michaelis in Monte Gargano [=Apparitio] 5 : MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum sæcc. VI-IX, ed. G. Waitz, Hannoveræ 1878, p. 543.

[7] Per l’analogia tra il martire e il pane eucaristico cfr. Martyrium Polycarpi 15,2, ed. A.P. Orbán, trad. it. S. Ronchey, in Atti e passioni dei martiri, Roma-Milano 20072, p. 25: « καὶ η̃ν μέσον ου̉χ ώς σὰρξ καιομένη, α̉λλ’ ώς άρτος ο̉πτώμενος ... καὶ γὰρ ευ̉ωδίας τοσαύτης α̉ντελαβόμεθα, ώς λιβανωτου̃ πνέοντος ὴ άλλου τινὸς τω̃ν τιμίων α̉ρωμάτων» [E questi (scil. Policarpo) era nel mezzo (scil. delle fiamme) non come carne da ardere, ma se mai quale pane posto a cuocere… E in effetti da un sì soave aroma venivamo investiti, che pareva spirasse incenso o qualche altro prezioso profumo].

[8] Cypr., Epist. 57,2 : CSEL III/2, pp. 651-652.

[9] Cfr. Cypr., De dom. orat. 24 : CSEL III/1, p. 285.

[10] Pont., Vita Cypr. 14 : CSEL III/3, p. CV.

[11] Cfr. Benedetto XVI, Udienza generale (6 giugno 2007): «Cipriano si colloca alle origini di quella feconda tradizione teologico-spirituale che vede nel “cuore” il luogo privilegiato della preghiera. Stando alla Bibbia e ai Padri, infatti, il cuore è l’intimo dell’uomo, il luogo dove abita Dio».

[12] J. Hourlier, Les sources écrites de l’histoire montoise antérieure à 966, in Millénaire monastique du mont Saint-Michel, II, Paris 1967, pp. 121-132 ( = AA.SS. Sept. VIII, pp. 76-78, qui p. 77).

[13] Dante, Purg. XXXIII, 76-78.

[14] J. Viteau, Passions des saints Écaterine et Pierre d’Alexandrie, Paris 1897, p. 81,9.

[15] Ibid., 5 ab imo; vd. anche P. Franchi de’ Cavalieri, Intorno al testo della vita cit., p. 132

[16] Le modalità del martirio della Santa hanno consolidato, nelle rappresentazioni iconografiche di Agnese, la presenza di un agnello accanto alla ragazza. Difatti, secondo una versione riportata in diverse passiones le venne inferto un colpo di gladio alla gola, come un mite agnellino (Passio Agnetis in Prud., Peristeph. XIV,85-90 descrive in realtà una decapitazione). La raffigurazione trova una ulteriore giustificazione nell’episodio dell’apparizione di Agnese ai propri genitori, nell’ottavario della morte, quando ella si mostrò, accompagnata da un agnello, in mezzo a una schiera di vergini vestite d’oro. Tra i primi esempi di questo tipo, ricordiamo il mosaico della processione delle Vergini nel S. Apollinare Nuovo di Ravenna (556-569). La caratterizzazione si consolidò soprattutto a partire dal XII sec., anche in riferimento all’assonanza tra il nome latino della Santa – Agnes – e l’Agnello/Cristo – agnus –. Il motivo dell’agnello torna anche nella pietà popolare, come nel caso della benedizione degli agnelli, la cui lana era adoperata per confezionare i sacri pallii, rendendo carico di valenze simboliche un gesto che era legato in origine ad un canone in natura da pagare al Laterano (vd. anche P. Franchi de’ Cavalieri, S. Agnese nella tradizione cit.; Id., Scritti agiografici, Città del Vaticano 1962, I, pp. 293-381; II, pp. 337-340; brevi annotazioni in A. Amore, I Martiri di Roma, Roma 1975, pp. 78-80).

[17] G. e A. Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003, pp. 274-275; vd. anche A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986, pp. 65-66.

 
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Il "palio" di San Primiano. Segno eucaristico e promessa di salvezza nella Chiesa delle origini
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