S. Pardo

San Pardo. Una rilettura della figura storica


ARGENTIERE NAPOLETANO

Busto di S. Pardo

(1686/1703)

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Beatus Pardus Episcopus merito, virtutum Deo acceptus, dum in Peloponneso Gregem suum, verbo, et exemplo fructificando pasceret, vitia peccatorum assiduè increpabat: ostendes illis viam salutis, et veritatis. Propter quod ab iniquis odio habitus violenter expulsus fuit.[1]

 
 

osì principia la più antica – e perciò più attendibile – Vita Brevior Sancti Pardi Episcopi, et Confessoris, che ce lo introduce nella sua veste di evangelizzatore e pastore d’anime, avversato per il suo credo cristiano Il breve racconto agiografico prosegue presentando l’esule Vescovo, senio lassatus, et morbis cruciatus in corpore (Vita brevior 1-2), in pellegrinaggio verso Roma cum aliquibus Clericis (ibid. 2), dove un ano-  
 

nimo Pontefice, cum Sancto Concilio, gli consentì il felice arrivo, anche in questo caso cum sociis, in terra d’Apulia. Qui egli identificò un locum aptum (ibid.) dove proseguire liberamente la sua azione pastorale, situato in Suburbanum opulentissimæ Luceriæ. Il testo riferisce infatti delle duas Ecclesias miræ magnitudinis, erette hærentes muro Civitatis. Infine il santo Vescovo, dopo essere vissuto in Cellula ibidem per plures annos, provato dalle molte veglie, dai digiuni, incessantemente immerso nella preghiera, Deo animam redidit (ibid.).

 

In questo luogo, secoli dopo, i Larinenses, raggiunta Luceriam, quam circumeuntes (ibid. 4), vi rinvennero il suo Sacro Corpo intactum, minus tantùm uno pollice (ibid.), e lo “traslarono” a Larino.

 

 

Cominciamo col prendere in considerazione l’origine greca del Santo Patrono di Larino. Egli dunque sarebbe stato vescovo nel Peloponneso.

 

Le fonti principali relative a questa presunta origine ellenica sono riportate dal Pollidoro, che specifica:

 

At verò licet certæ Urbis, quam S. Episcopus rexit notitia careamus, quum tres in Peloponneso Episcopatus fuisse, nimirum Damalorum, Arpi, ac Monembasiæ, sive Temarusiæ, ex antiquis monimentis liqueat, in illorum aliquo S. Pardum sedem habuisse necesse est.[2]

 

 
Diocesi del Peloponneso di S. Pardo
Le presunte Diocesi del Peloponneso in cui S. Pardo avrebbe svolto il suo primo episcopato [elaborazione P. Miscione]
 

 

 Tuttavia, è ben chiaro che il nome Pardus ha una evidente matrice latina (F. Lanzoni, Le Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, p. 274). «Pardus ... è nome di sicura origine latina e ha numerose attestazioni epigrafiche in ambito sia pagano che cristiano» (G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane, p. 167). Questi i riferimenti epigrafici: CIL VI, 631. 735. 975. 2958. 10261. 13396. 14513. 16269. 31234 (tre volte). 38952; CIL IX, 3101. 3237. 5908; CIL X, 4275; ILCV 595A. 3250A adn. 3960 adn. 4142A. 4449. È attestato anche il derivato Pardinus – lo ritroviamo a Larino anche ai giorni nostri – [CIL VI, 12327; ILCV 3394] (ibid., p. 167, n. 27). Il nome Pardus è registrato anche a Benevento [CIL IX, 1728] (ibid., p. 167 e n. 28).

 

A quale accadimento dobbiamo dunque la creduta origine greca del vescovo Pardo?

 

Su questo punto così si esprime il Lanzoni:

 

Che nel X o XI secolo (al tempo di Radoino) gli abitanti di Larino fantasticassero che un vescovo straniero, un vescovo, come essi credevano, non lucerino, sepolto presso Lucera, vi fosse venuto da lontano, e precisamente dall’opposta sponda, non è forse difficile spiegare: nel folklore dei paesi marittimi si hanno parecchi altri casi consimili.[3]

 

A parer mio, bisogna prendere in considerazione alcuni passi riportati nelle Biografie del Santo, che paiono celarne la ragione vera: così possiamo vedere che il pellegrinaggio verso Roma cum aliquibus Clericis, più che nell’accezione consueta di visita ad limina apostolorum, è presentato come un cercare rifugio nella capitale della Cristianità; sicché potremmo meglio tradurre il passo in questione – peregrinando ivit Romam (Vita brevior 2) – con «trovò rifugio a Roma».

 

Difatti uno dei più consultati glossari del Latino medievale così riporta alla voce:

 

(peregrini) dicuntur omnes qui non sunt de Episcopatu ordinantis, sive sint clerici, sive laici, secundum Goffredum in summa de clericis peregrinis... unde clericus peregrinus est qui in alia provincia ordinatur.[4]

 

Nel passo della Vita sopra riportato è ravvisabile, a parer mio, l’eco delle lotte iconoclaste, che imperversarono nell’Impero bizantino nei secoli VIII e IX e che videro non pochi chierici e monaci abbandonare le terre bizantine per trovare asilo in Italia e in altre parti dell’Occidente cristiano.

 

 
Scena di iconoclastia dal Salterio Cludov
Il patriarca di Costantinopoli Giovanni VII il Grammatico mentre asciuga un'icona del Volto di Cristo con una spugna attaccata a una lancia, parodiando la scena della Crocifissione, miniatura dal "Salterio Chludov", fol. 67 (830 ca.). Mosca, Museo Storico
 

 

Nella Diocesi di Larino era insediata una cospicua comunità di monaci basiliani, pervenutavi assai verosimilmente proprio durante il periodo iconoclasta (U. Pietrantonio, I Benedettini nella diocesi di Larino, p. 141).

 

Il Tria difatti riporta che

 

Non molto discosto da detto Convento (scil. di S. Francesco) vi è un’altra Chiesa consegrata al S. Protomartire Stefano, e questa prima era sotto il Titolo di S. Basilio Magno. [...] Questa Chiesa sotto il titolo di S. Basilio è antichissima, e forse prima della distruzione di Larino vecchio, e a tempo, che i Greci abitavano in questo Larino nuovo, e vogliono fusse stata, come in un borgo del vecchio, ridotto di essi, e quivi si amministrava la cura delle Anime.[5]

 

Altra fondazione basiliana era San Martino, citata in alcune bolle pontificie (di Pasquale II del 1102 ed Anacleto II – antipapa – del 1138). Vi era inoltre un monastero di Sant’Onofrio, grancia dei Canonici Lateranensi di Santa Maria di Tremiti, sita in località Brecciara (U. Pietrantonio, loc. cit., p. 144). Monaci basiliani erano presenti anche in Abruzzo: ci è noto che proprio uno di loro fu il protagonista del primo Miracolo Eucaristico della Cristianità nella città di Lanciano, che in base alla tradizione e alle poche fonti va collocato intorno agli anni 730-750.

 

 
     
 

Larino, Chiesa di S. Stefano (ex S. Basilio)

a sinistra: la primitiva facciata che dà sulla Via Marconi (XIII sec.), occultata dal campanile e dalla sagrestia (XIX sec.); a destra: la facciata tardo-barocca attuale, prospiciente la piazza Vittorio Emanuele II

 
 

 

Agli occhi dell’anonimo redattore medievale, in pratica, che scriveva verosimilmente nel corso del X secolo, gli scontri sul culto delle icone che avevano infuriato in Oriente solo un secolo prima o poco più, dovettero fornire un valido appiglio al quale ancorare la figura del Vescovo in fuga dalla Grecia meridionale, benché la sua biografia effettiva sia chiaramente da retrodatare alquanto.

 

Ritroviamo quindi la figura del Vescovo fuggiasco in Apulia permittente beatissimo Pontifice cum Sancto Concilio (Vita brevior 2), dove vi pervenne cum sociis. Dobbiamo quindi ritenere che si trattasse di una comunità abbastanza cospicua, cui sovrintendeva il nostro Santo. Essi si stabilirono dunque in un locum aptum situato, come detto, in Suburbanum opulentissimæ Luceriæ, in qua duas Ecclesias miræ magnitudinis hærentes muro Civitatis ædificavit (ibid.).

 

 Il passo parrebbe quindi dirci abbastanza chiaramente che le due chiese vennero erette a Luceria, e non già nel locum aptum in cui egli risiedeva. Difatti qua è ablativo singolare femminile del pronome relativo quæ (si sottintende via o parte); in questo caso è perciò riferito al femminile Luceria; improponibile un riferimento al maschile locum.

 

Sussiste tuttora una tradizione che vorrebbe Pardo vescovo di Lucera, al secondo posto della cronotassi episcopale, dopo Basso, e prima di Giovanni e Marco. Allo stato delle conoscenze, però, soltanto Giovanni potrebbe ascriversi a pieno titolo tra i vescovi della città.

 

Con ogni probabilità la tradizione che vuole Pardo capo della comunità cristiana di Lucera si fonda su una non corretta lettura della Vita, nella quale ... Pardo viene in qualche modo collegato a Lucera.[6]

 

San Pardo è comunque particolarmente venerato nella città di Lucera; ne fanno fede, oltre a due antichi dipinti e a una statua in pietra, anche e soprattutto il divino ufficio che ne fa memoria, inserito nel Proprio diocesano; talché nel 1957 si chiese e ottenne dal vescovo di Larino dell’epoca, Oddo Bernacchia (1924-1960), una reliquia del Santo, che venne regolarmente concessa (G. Mammarella, op. cit., p. 51). Ma soprattutto esisteva una chiesa a lui intitolata, «nella quale, sotto gli auspici di Dio, della Vergine e del Santo Patrono, si adunava spesso il Decurionato, per prendere le sue Deliberazioni a tutela e difesa degli interessi nazionali e cittadini»[6bis]. A San Pardo è infine intitolato un vicolo, che si apre su Via Giovanni Amendola, poco distante dalla chiesa trecentesca di Santa Caterina.

 

 
Veduta di Lucera dal Pacichelli
Veduta di Lucera [da Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, III, Napoli 1703]

 

S. Pardo a Lucera

 
 

 

E tuttavia la localizzazione del locum aptum a Lucera non convince, tanto da far pensare a una svista dell’Agiografo, poiché l’evento riportatoci si mostra quantomai incongruo: un vescovo “greco”, concordemente non ascritto alla cronotassi episcopale della città dauna, che vi edifica due chiese imponenti e magnifiche, evidentemente estromettendo dall’opera il vescovo lucerino titolare (F. Lanzoni, op. cit., p. 274).); talché credo si possa ritenere assai più probabile, se non del tutto assodato, che le due chiese vennero in realtà edificate nel locum aptum; tanto che possiamo ritenere la locuzione hærentes muro Civitatis riferita al carattere suburbano dei due edifici religiosi.

 

In questo luogo, in ogni modo – in Cellula ibidem (dove ibidem è da porre in relazione con locum e non con Luceriæ) –, visse per parecchi anni e qui egli rese l’anima a Dio.

 

 

   
 

Inno a San Pardo (registrazione del 1977); qui il Testo

 

 

 

Il santo Presule trascorse dunque i suoi ultimi anni in Cellula. La Vita prolixior (VII) aggiunge che essa era parvissimam, et arctissimam, cioè «piccolissima e strettissima», e che sibi fieri præcepit; informazioni che però non ritroviamo nella più antica Vita brevior.

 

Col termine cellula – che una versione in Italiano circolante da anni traduce genericamente «in solitudine» (Vita di San Pardo, p. 38) – s’intendeva, nel Latino medievale, il Cubiculum Monachi, e addirittura ipso Monasterio (C. du Fresne Du Cange, op. cit., II, ad vocem, col. 252c). E altrove lo stesso Glossario riporta:

 

posterioribus sæculis usurpantur pro Monachorum domicilio, atque adeo ipso Monasterio. [...] Primitus enim Monachi divisis in Cellis, seu Cellulis, habitabant, in idem licet oratorium psallendi gratia, aut sacra peragendi convenirent.[7]

 

Un lessico siffatto parrebbe far credere che la comunità cui sovrintendeva San Pardo fosse effettivamente una comunità monastica, e che il locum aptum indicasse in realtà un monasterium, opzione che però è palesemente contraddetta dalla carica episcopale del nostro Santo; a meno che non si voglia ritenere quest’ultima un’indicazione del tutto errata dell’anonimo Agiografo; ed allora verrebbe a cadere magna pars della figura storica di San Pardo, così come la conosciamo.

 

A parer mio, si può cogliere, nel lungo passo sopra citato, la destinazione specifica che il non meglio indicato Papa aveva ritenuto di dover assegnare al Vescovo “greco” e alla sua numerosa comunità. Per mio conto dovette trattarsi di un sito già abbastanza strutturato, capace di ospitare il vescovo Pardo e i suoi socii – dove socii sta per fratres (C. du Fresne Du Cange, op. cit., VII, ad vocem, col. 507a) –, posto nelle vicinanze della città di Lucera.

 

I padri Bollandisti lo definiscono, benché parecchi secoli dopo i fatti narrati, con la qualifica di saltus Luceriæ

 

Larinates, quibus corpus S. Primiani detractum fuerat, profecti in saltum Luceriæ invenerunt cordus (sic = corpus) S. Pardi.[8]

 

 
Le colture - un tempo adibite a pascolo - e le zone boschive nei dintorni di Lucera
Le colture - un tempo adibite a pascolo - e le zone boschive nei dintorni di Lucera
La Valle del Celone nei pressi di Castelluccio Valmaggiore (Foggia)
La Valle del Celone nei pressi di Castelluccio Valmaggiore (Foggia)
 

 

Con questo termine – saltus – si voleva indicare, secondo una definizione di Festo, ripresa da Elio Gallo, un luogo dominato dalla presenza di foreste e pascoli, non interessato da colture.

 

Saltus est ubi silvæ et pastiones sunt, quarum causa casæ quoque: si qua particula in eo saltu pastorum, aut custodum causa aratur, ea res non peremit nomen salti (saltuis), non magis quam fundi, qui est in agro culto et eius causa habet ædificium, si qua particula in eo habet silvam.[9]

 

Così sintetizza un recente studio: «dove non si coltiva, là c’è il saltus: questa è in sintesi la definizione data dagli antichi» (E. Migliario, A proposito di CTh IX, 30, 1-5: alcune riflessioni sul paesaggio italico tardoantico, p. 478). Tuttavia, una rilettura del termine, alla luce delle ricerche ultime, lascerebbe chiaramente trasparire che in età tardoantica prevalesse la coesistenza di una grandissima proprietà unitaria sotto il profilo amministrativo, accanto a una pluralità di colture e di insediamenti rurali diversi (G. Volpe, Il Saltus Carminianensis, p. 139). 

  

 

Dalla Notitia dignitatum (12,18) apprendiamo dell’esistenza in Apulia di un saltus Carminianensis[10]. Il documento ufficiale menziona, tra i funzionari addetti all’amministrazione della res privata, un procurator rei privatæ per Apuliam et Calabriam sive saltus Carminianensis, avente probabilmente diretta responsabilità sulla gestione dei pascoli e dei boschi dell’intera provincia (G. Volpe, Linee di storia del paesaggio dell’Apulia romana, p. 338; n. 97 per altri riferimenti bibliografici più specifici). Per la sede del procurator si è ipotizzata, oltre al sito di San Giusto (vd. infra), anche la stessa città di Luceria (ibid., p. 339).

 

 
Carta della Daunia tardoantica con le principali "civitates"; nel rettangolo il sito di San Giusto
Carta della Daunia tardoantica con le principali "civitates"; nel rettangolo il sito di San Giusto
Ipotesi di ricostruzione del "saltus Carminianensis" e relativo territorio diocesano
Ipotesi di ricostruzione del "saltus Carminianensis" e relativo territorio diocesano
 

 

 L’origine di questo saltus è ravvisabile nelle vaste proprietà imperiali che ritroviamo spesso nelle fertili distese del Tavoliere e nell’entroterra appulo-lucano. La sua estensione era di 384 km2 ( = 152.380 iugera), ma arrivava a 1124 km2 ( = 449.600 iugera) se si volessero includere i pascoli e i campi del Tavoliere coltivati a seminativo.

 

 Abbiamo peraltro notizia che un Probus episcopus ecclesiæ Carmeianensis era presente ai sinodi romani indetti da papa Simmaco negli anni 501-504 (o, secondo altri, nel solo 502, rispettivamente il 23 ottobre e il 6 novembre) [Acta synhodi aa. DI, DII : MGH, Auctores antiquissimi 12, pp. 437.453; J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, 8, coll. 300.315].

 

Ne deriva un automatico legame tra questo vescovo e il territorio pervenutoci col toponimo di saltus Carminianensis, la cui sede è stata di recente ipotizzata nel complesso paleocristiano di San Giusto, lontano appena 10 chilometri da Lucera, in direzione sud-est, a breve distanza dalla riva sinistra del torrente Celone, lungo il quale l’insediamento si sviluppava, a ridosso di una direttrice viaria che collegava Arpi con Æcæ.

 

 
Il territorio della Valle del Celone all’interno della Daunia romana e tardoantica, con i più rilevanti centri antichi e la viabilità principale [da Volpe, Paesaggi e insediamenti rurali nel comprensorio del Celone…, Bari 2006; elab. P. Miscione]
Il territorio della Valle del Celone all’interno della Daunia romana e tardoantica, con i più rilevanti centri antichi e la viabilità principale [da Volpe, Paesaggi e insediamenti rurali nel comprensorio del Celone…, Bari 2006; elab. P. Miscione]
 

 

Il sito archeologico è stato rinvenuto fortuitamente nel 1995, durante i lavori di costruzione di una diga sul torrente Celone. A fine scavo (1998), l’inevitabilità degli eventi ne ha prodotto la totale sommersione, previa asportazione delle parti architettoniche e decorative – musive specialmente –, ora in attesa di una sistemazione adeguata.

 

Tutta la vasta area appare molto articolata sotto il profilo amministrativo e istituzionale, talché se ne rende assai problematica, in età romana, l’attribuzione ad uno dei municipia confinanti.

 

 
San Giusto (Lucera): veduta aerea delle chiese e della villa all’interno della diga dopo lo scavo del 1997
San Giusto (Lucera): veduta aerea delle chiese e della villa all’interno della diga dopo lo scavo del 1997
Invaso del Celone
L'invaso del Celone, a sud-est di Lucera - nel cui fondo è ormai finito il sito archeologico di San Giusto -, in una recente foto satellitare [da Google Maps]
Animali al pascolo lungo le rive del lago artificiale [foto A. Longo]
Animali al pascolo lungo le rive del lago artificiale [foto A. Longo]
 

 

Il sito si sviluppò, tra I e II secolo d.C., attorno ad una villa di notevoli dimensioni, ampliamento di una precedente più modesta fattoria, che si andò sempre più arricchendo di ambienti residenziali, oltre che di magazzini e depositi nonché di notevoli impianti per la produzione del vino. In età tardoantica, tra IV e VI secolo d.C., il complesso conobbe un ulteriore considerevole sviluppo, dotandosi di strutture necessarie alla lavorazione delle lane e delle pelli, attività strettamente collegate ad una delle principali risorse economiche dell’Apulia, l’allevamento transumante. In una fornace datata al V secolo sono state significativamente rinvenute ceramiche vagamente ispirate a modelli egei, «confermando gli stretti rapporti col Mediterraneo orientale» (G. Volpe, Linee di storia del paesaggio cit.,p. 327).

 

Nel frattempo, intorno alla metà del V secolo, accanto alla villa venne eretto un complesso paleocristiano, costituito da una chiesa a tre navate con abside semicircolare e con alcuni ambienti annessi, riccamente adornata da mosaici policromi a motivi geometrici, che ricoprivano anche le pareti.

 

 
 

San Giusto: planimetria generale (campagne di scavo 1995-1999)

 
Veduta aerea generale del quartiere artigianale
Veduta aerea generale del quartiere artigianale
San Giusto: pianta del complesso paleocristiano, con indicazione delle varie fasi
San Giusto: pianta del complesso paleocristiano, con indicazione delle varie fasi
 

 

La chiesa misura m 18,50 x 25. In uno di questi ambienti, di ridotte dimensioni – riconosciuto come gazophylacium (n.ro 34), destinato cioè a conservare arredi liturgici e offerte – è stato reperito un piccolo tesoretto di monete di piccolo taglio, databili tra la seconda metà del III e i primi decenni del VI secolo d.C., nonché due pesi bizantini, lucerne vitree e anfore, tra cui due spathia di piccole dimensioni di chiara destinazione liturgica (ibid., p. 332). Il rinvenimento ha fatto ritenere che nel complesso si tenessero fiere periodiche (nundinæ) [ibid., p. 337].

 

Un piccolo vano, più antico, cui si accedeva dalla navata destra, è stato interpretato come mausoleo funerario pagano (n.ro 44). Un battistero sorgeva accanto alla chiesa, collegato da un ampio nartece.

 

 
San Giusto chiesa A e gazophylacium
La chiesa A con l'ambiente individuato come "gazophylacium" (scavi 1996)
San Giusto complesso paleocristiano
Veduta del complesso paleocristiano, con le due Chiese (A e B) e il Battistero (scavi 1997) [elaborazione P. Miscione]
 

 

In un periodo successivo, tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, accanto alla prima chiesa (A) ne sorse un’altra (B), monoabsidata e divisa anch’essa in tre navate, concepita per una sua specifica funzione funeraria:

La chiesa B ha la stessa lunghezza dell’altra, ma è più stretta (m 16,60 x 25). Le navate sono scandite da due file di sostegni (non si sa se colonne o pilastri).

 

Tombe di diversa foggia – a fossa, alla “cappuccina”, con lastre disposte in piano, ecc. – vennero scavate lungo le tre navate, tutte rispettando una certa regolarità, che in seguito occuparono anche i vani annessi e il nartece.

 

Le aree di sepolture dell’articolato complesso finirono con l’essere cinque: i pasthophoria nella zona retroabsidale della basilica di culto (A) [n.ri 28 e 29], le navate della chiesa B (n.ri 40 e 43), il battistero (n.ro 14), il nartece (n.ro 24), l’area funeraria della zona produttiva.

 

Da una disamina dei ritrovamenti ossei, si è potuto stabilire che le sepolture erano quasi esclusivamente di individui di sesso maschile, tra i quali vi è una sporadica presenza di soggetti allogeni, di origine orientale.

I maschi rappresentano la stragrande maggioranza (310%), evidenziando una non rappresentatività della reale situazione biologica della popolazione vivente. Si riscontra inoltre una totale assenza di ultrasessantenni. I maschi adulti inumati, quasi tutti in tombe monosome, si trovavano in buono stato di nutrizione al momento del decesso, denotando l’appartenenza a un nucleo sociale agiato (chierici?). Le sepolture si differenziano nelle due navate secondo uno schema gerarchico o quantomeno cronologico (S. Sublimi Saponetti-P. Emanuel-V. Scattarella, Paleobiologia di un campione scheletrico tardoantico proveniente dal complesso paleocristiano di San Giusto, pp. 316-319).

 

Le analisi paleobiologiche dei resti scheletrici dei corpi inumati nella chiesa B hanno accertato la presenza di cinque soggetti con caratteri orientali (forse àvari), nei quali si possono riconoscere presumibilmente funzionari e militari bizantini (ibid., p. 324; G. Volpe, Linee di storia del paesaggio cit., p. 342, n. 119).

 

 
Spaccato della chiesa funeraria (B), con le tombe disposte lungo le tre navate [dal sito web dell’area di archeologia del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia; www.archeologia.unifg.it]
Spaccato della chiesa funeraria (B), con le tombe disposte lungo le tre navate [dal sito web dell’area di archeologia del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia; www.archeologia.unifg.it]
Le tombe della chiesa B e degli ambienti adiacenti dopo lo scavo del 1995-1998 [dal sito web dell’area di archeologia del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia; www.archeologia.unifg.it]
Le tombe della chiesa B e degli ambienti adiacenti dopo lo scavo del 1995-1998 [dal sito web dell’area di archeologia del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia; www.archeologia.unifg.it]

tombe del sito di San Giusto

 

 

Il complesso venne dunque in pratica a costituire una vera e propria basilica doppia (ecclesia geminata), caso unico in Puglia e in buona parte dell’Italia centro-meridionale. La vita del sito cultuale si svolse nell’arco di oltre cinquant’anni senza particolari modifiche [G. Volpe (ed.), San Giusto. La villa, le ecclesiæ, p. 47].

 

 A quest’epoca di maggior auge del sito va ascritta anche l’edificazione di numerosi altri ambienti funzionali alle diverse necessità della comunità ecclesiastica, tra cui un piccolo impianto termale e una fornace per la produzione di ceramiche comuni per la cucina, la mensa e la dispensa (vd. supra). L’episcopio potrebbe essere identificato proprio in uno di questi vani annessi alle due chiese, di raccordo col battistero (n.ri 31, 33, 44, 47, 53, 54) [G. Volpe, Linee di storia del paesaggio cit., p. 335; Id. (ed.), San Giusto cit., p. 26].

 

Non si può escludere che in una fase preliminare, prima della edificazione della chiesa B, il vescovo e la sua curia usassero l’area residenziale della vicina villa, posta a sud delle due chiese, ricca di ambienti preziosamente decorati, quali ad es. il vano identificato negli scavi col n.ro 23, i cui mosaici sono identici a quelli della chiesa A, e che venne successivamente inglobato nel settore produttivo (Id., Architecture and Church power in Late Antiquity: Canosa and San Giusto, p. 160 e n. 60).

 

 
Ricostruzione tridimensionale del complesso paleocristiano con le due chiese parallele ("ecclesia geminata")
Ricostruzione tridimensionale del complesso paleocristiano con le due chiese parallele ("ecclesia geminata")
Ricostruzione tridimensionale della veduta prospettica del complesso [dal sito web dell’area di archeologia del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia; www.archeologia.unifg.it]
Ricostruzione tridimensionale della veduta prospettica del complesso [dal sito web dell’area di archeologia del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia; www.archeologia.unifg.it]
L'area dell'episcopio (in giallo), tra la chiesa A e il Battistero [elaborazione P. Miscione]
L'area dell'episcopio (in giallo), tra la chiesa A e il Battistero [elaborazione P. Miscione]
 

 

L’articolato complesso ebbe vita difficile: negli anni centrali del VI secolo si verificò un incendio (o forse un evento legato alla guerra greco-gotica?): il tetto della chiesa A crollò e i muri rovinarono; la chiesa non venne ricostruita.

Diversamente prevedeva difatti, in caso di incendio o distruzione, il Liber diurnus (ed. Th. Sickel, p. 19, n. 27; p. 20, n. 28); le autorità ecclesiastiche raccomandavano una rapida ricostruzione per evitare che la comunità dei fedeli fosse troppo a lungo sprovvista del luogo di culto (C. Violante, Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale, pp. 1010-1011).

 

 La struttura in decadenza venne utilizzata come cava a cielo aperto da cui prelevare alcune parti architettoniche; con esse si provvide a dotare la chiesa B superstite di quelle strutture necessarie alle funzioni liturgiche, dapprima ripartite tra le due chiese affiancate (recinto presbiterale costruito su alcune sepolture preesistenti, sedile per il clero, ecc.); soluzione, questa, certamente motivata da una generale depressione demografica del territorio.

 

Ridimensionato alquanto, il complesso di San Giusto continuò la sua vita stentata tra la fine del VI e i primi decenni del VII secolo: povere sepolture occuparono i vani annessi, il nartece, le terme e il battistero, qui per inumarvi per lo più fanciulli malnutriti. Tra le mura diroccate vennero realizzati rozzi ricoveri di fortuna, verosimilmente occupati da pastori. Il sito prolungò la sua agonia per tutto il VII e l’VIII secolo, nel quadro di un generale spopolamento delle zone pianeggianti, a tutto vantaggio dei siti di altura (incastellamento).

 

Accanto a San Giusto, ritroviamo a corona altre realtà parrocchiali, disseminate nel vasto territorio circostante, che in epoca tardoantica registrava un considerevole livello di popolamento, anche a motivo della particolare vitalità dell’economia agraria di tutta la estesa zona.

Di paricolare rilevanza la villa di Montaratro e il vicus di Montedoro, posto a 5 chilometri da San Giusto, identificato con la mansio romana di Pra(e)torium Lauerianum (A.V. Romano-G. Volpe, Paesaggi e insediamenti rurali nel comprensorio del Celone fra Tardoantico e Alto Medioevo, pp. 241-259).

 

 
Localizzazione delle chiese paleocristiane all'interno del "saltus Carminianensis"
Localizzazione delle chiese paleocristiane all'interno del "saltus Carminianensis"
 

 

I recenti studi hanno ipotizzato che il complesso di San Giusto, posto a ridosso di entità diocesane rilevanti – Luceria, Æcæ, Sipontum –, più che a rivestire il ruolo di ecclesia baptismalis, con funzione parrocchiale per la cura animarum nell’ambito giurisdizionale della diocesi di Luceria o di quella di Æcæ, svolgeva la funzione di sede diocesana rurale (G. Volpe, Linee di storia del paesaggio cit.,pp. 340-341).

 

Sono state infatti escluse, per le dimensioni notevoli del sito, la funzione di parrocchia rurale e, per la ricchezza delle decorazioni, specialmente musive, la sua fruizione come monasterium tardoantico (ibid., p. 341).

 

L’unica altra diocesi rurale attestata in Puglia risulta essere quella di Turenum [od. Trani] (per il fenomeno della diocesi rurale: G. Otranto, op. cit., pp. 65-74; G. Volpe, Vescovi rurali e chiese nelle campagne dell’Apulia… , pp. 31-47, specialm. pp. 36-41).

 

La funzione della diocesi rurale di Carmeianum si esaurì con la destrutturazione della proprietà imperiale, fattore cui in origine era legata la natura stessa dell’istituzione (ibid., p. 39).

Tuttavia, la sua genesi sarebbe chiaramente da collegare alla vicina Luceria ovvero alla ugualmente prossima Æcæ, da cui sarebbe verosimilmente nata per gemmazione. A questo evento dobbiamo verosimilmente la creduta appartenenza di Pardus alla cronotassi episcopale della città.

 

 

In Apulia, dunque, il fenomeno della diocesi rurale è sicuramente attestato, nonostante il divieto fatto nei Concili di Sardica (343) e di Laodicea (363-364), nei quali si stabiliva che le sedi diocesane non potessero sorgere in villaggi e in centri minori, per non svilire il nome e l’autorità del vescovo [Conc. Sardica (can. 6,57) [Fonti (fascicolo IX). Discipline générale antique (IV-IX s.), ed. P.P. Joannou, I/2, p. 167; cfr. anche C.F. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles, I/2, Paris 1907, pp. 737 ss.; su Laodicea (can. 57): Fonti (fascicolo IX) cit., p. 153; cfr. C.F. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles cit., I/2, pp. 989 ss.].

 

Difatti ben due dei sei vescovi apuli presenti ai sinodi romani del 501-502 (o del 502) – Probus Carmeianensis ed Eutychius Tranensis –, reggevano diocesi rurali. Ma mentre a Trani il ruolo paleogenetico della funzione episcopale favorì l’emergere del sito portuale come realtà urbana ben strutturata, a San Giusto esso non si dimostrò sufficiente ad evitare il progressivo abbandono in età altomedievale, durante la quale l’invasione longobarda avrebbe accelerato irrimediabilmente una diversa caratterizzazione degli insediamenti abitativi delle campagne e dei crinali.

 

Occorre qui precisare che il vescovo rurale – a differenza del corepiscopo orientale, subalterno al vescovo urbano – differiva da quest’ultimo unicamente per il particolare ambito territoriale in cui svolgeva la sua funzione: un abitato rurale, privo cioè dello statuto di civitas e in epoca precedente non dotato di autonomia amministrativa come municipium o colonia. Egli disponeva di pieni poteri, potendo partecipare a pieno titolo a concili, sottoscriverne gli atti, ricevere incarichi dai pontefici, riguardanti anche altre diocesi. Le sue funzioni si espletavano però in tutti quegli agglomerati “non urbani” presenti sul territorio, quali vici, scali marittimi e stazioni di posta, abitati precari e stagionali, luoghi in cui si tenevano fiere e mercati (nundinæ) – che la Chiesa gestiva sempre più direttamente – o anche nei pressi di frequentati santuari e accampamenti militari (G. Volpe, Vescovi rurali e chiese cit., pp. 36-37).

 

 

 

Diocesi rurali

a sinistra: Cattedrale di Trani, dedicata a S. Nicola pellegrino (XII sec.); a destra: resti dell'Abbazia benedettina di S. Vincenzo al Volturno (caso dubbio di diocesi rurale)

 
 

Nel sito di San Giusto potremmo opportunamente collocare il locum aptum scelto dall’esule vescovo Pardo e dai suoi socii.

 

L’applicazione delle formule demografiche per il calcolo del numero medio di persone vissute nel sito, ipotizzando un utilizzo dell’area cimiteriale di 50 anni, lascia suppore che esso sia stato abitato da 102 unità (S. Sublimi Saponetti-P. Emanuel-V. Scattarella, loc. cit., p. 326). Il dato si attaglia perfettamente a quanto detto dalla Vita più lunga, che cioè il Santo stipatus magnis catervis, et Sanctissimis Turmis venit Apuliam (Prolixior Vita S. Pardi Episcopi. Auctore Radoyno Levita Ecclesiæ Larinen. : AA.SS. Mai. VI, Antuerpiæ 1688, VII, pp. 370-373, qui p. 372).

 

In una Cellula ivi localizzata si può ipotizzare che il santo Vescovo trascorse gran parte del suo soggiorno e che sempre in questo complesso sia andato serenamente incontro alla morte. La sua sepoltura, come pure quella dei suoi compagni, andrebbe chiaramente collocata all’interno di quella che si è individuata come chiesa B, ovvero in uno dei vani ad essa collegata, dove, qualche secolo dopo (842), i Larinesi in cerca dei corpi dei martiri Primiano e Firmiano avrebbero scavato per disseppellirvi le sue Spoglie mortali.

 

Si è già detto del piccolo ambiente annesso alla chiesa A, cui si accedeva dalla navata destra, identificato come mausoleo funerario pagano, e che nulla vieta fosse in uso anche in epoca successiva; ci è noto che anche i pastophoria della chiesa A vennero in seguito adibiti a sepolture; il diakonikon (n.ro 28) ha poi un diverso orientamento, proprio perché edificato in epoca coeva agli ambienti in cui si è voluto riconoscere l’episcopio.

 

 
San Giusto luoghi di sepoltura
I vani adibiti a sepolture in cui è ipotizzabile la localizzazione del sepolcro del vescovo Pardo [elaborazione P. Miscione]
 

 

I Larinesi – dice la Vita – si fiondarono in direzione di Luceriam, quam circumeuntes (Vita brevior 4); non vi entrarono, cioè, all’interno attraverso una delle sue porte, ma se ne tennero lontani, facendo il giro del suburbio, evidentemente perché non avevano esatta cognizione del sito in cui il corpo del Santo era deposto. Sarebbe stato oltremodo imprudente farsi notare allinterno di un centro abitato, seppure in gran parte spopolato, tanto più sulla via del ritorno, carichi oramai dei resti mortali di un Santo venerato da secoli in quel territorio.

 

Ricordiamo che le antiche mura della città dauna erano state rase al suolo nel 663, durante l’assedio dell’imperatore Costante II. Alla fine del VII secolo furono ricostruite dai Longobardi, restringendo di molto il perimetro urbano, secondo i criteri che privilegiavano l’uso razionale delle abitazioni esistenti in riferimento agli effettivi abitanti. Le porte erano cinque, aggiungendosi la porta Sancti Jacobi alle già esistenti porte Arga, Ecana, Sacra e Albana. All’interno, la struttura conservava l’impianto romano ad assi pressoché ortogonali, generanti insulæ rettangolari. Agli inizi del IX secolo vennero costruiti molti cosiddetti casalini – umili casette o tuguri, fabbricati in fango e pietra, ricoperti da un tetto di paglia –, addossati internamente alle mura, verosimilmente dovuti a un seppur timido incremento demografico (D. Morlacco, Le mura e le porte di Lucera, pp. 178-180).

 

E tuttavia per i Larinesi il sito di San Giusto rappresentava un luogo del tutto sconosciuto. Rileviamo difatti che esso è ubicato lungo una direttrice – Lucera-Valle del Celone – diametralmente opposta a quella che collegava la stessa Lucera a Larino; talché assai difficilmente esso potrebbe essere stato meta specifica di un loro pellegrinaggio, e men che meno di quanti dal Larinate andavano al Santuario garganico di San Michele. Si ha motivo di credere che furono i Lesinesi a dare le coordinate geografiche di massima ai componenti la “compagnia” di Larino.

 

 
Percorso della compagnia di Larino nei dintorni di Lucera anno 842
Ricostruzione del probabile percorso della "compagnia" di Larino nell'anno 842, alla ricerca del corpo di S. Pardo [da Rizzi Zannoni, Atlante geografico del Regno di Napoli, Napoli 1808; elaboraz. P. Miscione]
Pianta della città romana di Lucera
Pianta della città romana di Luceria [da d'Amelj, Storia della Città di Lucera, Lucera 1861]
 

Il riferimento alle duas Ecclesias miræ magnitudinis edificate dal vescovo Pardo, benché individuate hærentes muro Civitatis – cioè di Lucera – potrebbe occultare un neanche troppo velato rimando alle due chiese geminatæ di cui si è detto, anche se costruite in periodi diversi – dai trenta ai cinquant’anni l’una dall’altra –, le quali sorgevano in un complesso che si è descritto avente la morfologia di una piccola città.

 

Diversamente, sappiamo che in riferimento proprio alla città di Lucera, le due chiese che sarebbero state edificate da San Pardo allinterno del sito urbano avrebbero svolto, l’una la funzione di cattedrale, l’altra quella di battistero ad essa attiguo (reperti musivi appartenuti a un edificio paleocristiano rinvenuti in Vico Granata, presso le attuali porta Troia e Porta Foggia) [C. D’Angela, Dall’era costantiniana ai Longobardi, p. 335; G. Otranto, op. cit., pp. 223-224; A. Campione-D. Nuzzo, La Daunia alle origini cristiane, pp. 20-21; 95-96].

 

 
Veduta satellitare di Lucera con le chiese che sarebbero state edificate da S. Pardo
Lucera dall'alto: 1) Porta Troia; 2) Porta Foggia; 3) reperti paleocristiani di Vico Granata; 4) S. Maria della Spica; 5) S. Giacomo il Maggiore [da Google Maps; elab. P. Miscione]

Chiesa di S. Maria della Spica e Vicolo S. Pardo

 

Dell’incongruità del supposto evento ho già detto (supra). Si è voluto comunque leggere in questa presunta edificazione la semplice constatazione che di due chiese lucerine si aveva ancora viva memoria al tempo dell’Anonimo redattore della Vita brevior. Diversamente, altri autori vogliono dare a questa attività del Santo un valore più che altro “simbolico”, riferito alla edificazione spirituale delle due Chiese di Arpi e Lucera (F. Lanzoni, op. cit., p. 275;  M. Di Gioia, San Pardo Vescovo di Arpi e Patrono di Larino, p. 19; vd. anche G. Mammarella, op. cit., pp. 31, 34, n. 43). Il Pollidoro riporta la vox populi, secondo cui la chiesa di Santa Maria della Spica, eretta su un tempio pagano dedicato a Cerere, sarebbe una delle due chiese erette dal Santo (op. cit., p. 33). Sussiste inoltre una tradizione alquanto leggendaria, che vorrebbe San Pardo quale edificatore della primitiva Cattedrale cittadina nel 254, sulla quale nellVIII secolo il vescovo Marco II avrebbe eretto un più grande edificio di culto, intitolato allApostolo Giacomo il Maggiore.

 

 La pavimentazione musiva superstite relativa al nostro sito suburbano di San Giusto  documenta in pieno quale fosse la magnificenza di almeno una delle due chiese qui prese in esame, quella adibita al culto. È stato osservato che la ricchezza e la complessità del sito di San Giusto si accosterebbero più facilmente a una tipologia di insediamento urbano (G. Volpe, Linee di storia del paesaggio cit., p. 336); «It is almost as if its builders wanted to adhere to a model appropiate to an urban environment – a clear instance, typical of Late Antiquity, of a rural village imitating the city» (Id., Architecture and Church power cit., p. 160).

 

 
Ricostruzione computerizzata dell’interno della chiesa A
Ricostruzione computerizzata dell’interno della chiesa A
Archeologi intenti a pulire i mosaici della chiesa A
Archeologi intenti a pulire i mosaici della chiesa A
 

 

Il tipico vescovo di quest’epoca risulta essere sempre più marcatamente un vescovo «proprietario e committente» al contempo (G. Volpe, Vescovi rurali e chiese cit., p. 42). In epoca coeva ritroviamo difatti anche il vescovo Lorenzo di Siponto, parente dell’imperatore bizantino Zenone (476-491), il quale intraprese un vasto programma edilizio nella sua diocesi.

 

Sulla sua scia, dunque, il nostro santo Vescovo. La sua attività edificatoria, non rivolta a chiesette di poco conto ed erette alla meglio, ma riferita a chiese tirate su miræ magnitudinis, mal si concilierebbe, inoltre, con una visione pseudoromantica, che lo vorrebbe eremita – di cui nelle due Vite non vi è parola alcuna –, poiché egli visse tutto il suo periodo lucerino cum sociis.

 

Vediamo, a questo punto, come si è generata l’errata concezione di San Pardo come eremita:

 

una prima traccia di ciò si rinviene nell’opera dell’Ughelli (Italia sacra, VIII, col. 303): oblatum in Italia alterum Episcopatum, quietis gratia, et amore solitudinis illum recusavit, et in Eremum secessit prope Luceriam Civitatem Apuliæ. Ubi tanta Vitæ Sanctitate in ea solitudine vixit; sulla sua scia i padri Bollandisti (op. cit., p. 370): quietis gratia et amore solitudinis illum recusavit, et in eremum secessit prope Luceriam civitatem Apuliæ: ubi tanta vitæ sanctitatæ ea in solitudine vixit; così pure il Pollidoro (op. cit., p. 32): apud Luceriam Vitam eremiticam cum sociis instituit; Eremiticam vitam permissu Romani Pontificis, certo in loco Pardus cum sociis instituit (ibid., p. 34); Eos, qui cum S. Pardo iustituendæ Vitæ Eremiticæ caussa ab Urbe Roma in Apuliam sunt prosequuti, temperato vocabulo brevioris vitæ auctor Anonymus socios appellat (ibid., p. 35).

 

Di questa esistenza eremitica del Santo non vi è parola nelle due Vite; sempre che con questo termine si voglia intendere il senso comune che se ne ha ancora oggi: vita «da, di eremita», cioè «Chi, spec. per motivi religiosi, vive solitario in luoghi remoti o deserti | est. Persona che vive appartata dal mondo» (Il Nuovo Zingarelli. Vocabolario della Lingua italiana, Bologna 198311, ad vocem).

 

 
Scuola giordanesca S. Pardo
SCUOLA GIORDANESCA, S. Pardo vescovo (fine XVII-inizio XVIII sec.). Larino, Cattedrale di S. Pardo [foto Miscione]
 

 

Si potrebbe per di più certamente postulare che l’anonimo Romano Pontefice abbia designato il vescovo Pardo quale reggitore della diocesi rurale avente San Giusto come sede effettiva; e tenuto conto di quel che dice la Vita breviorpermittente beatissimo Pontifice … ivit in Apuliam: invenitque ibi locum aptum sui desiderii, et applicuit in Suburbanum opulentissimæ Luceriæ (Vita brevior 2) –, si può ritenere che il nostro Santo ne sia stato il primo pastore. Il Beatus Pardus Episcopus et Confessor, di cui si dice nelle due Vite, potrebbe quindi perfettamente inserirsi nella esigua cronotassi episcopale della diocesi di Carmeianum, assai verosimilmente al primo posto.

 

 
G. Petroschi S. Pardo vescovo incisione per libro del Tria
G. PETROSCHI, S. Pardus Episcopus et Confessor, incisione per il libro del Tria (1741) [foto Miscione]
 

 

In effetti di questa Diocesi si conosce soltanto il nome del vescovo Probus [il Lanzoni ipotizza l’inzio del suo episcopato nel 495 (op. cit., p. 284)]. Probus fu forse, seguendo una proposta di Giorgio Otranto, destinatario di una lettera di Papa Gelasio I (op. cit., pp. 209-210). Il ritrovamento di un mattone con un monogramma in rilievo, interpretato come “Iohannis”, collegato all’alzato di uno degli ambienti annessi alla villa, ha lasciato supporre l’esistenza di un altro vescovo con tale nome; diversamente, si è ventilata l’ipotesi che si tratti in realtà del bellicoso magister militum Giovanni, nipote di Vitaliano, parente dell’imperatore Giustiniano (527-565), molto attivo in Italia durante la guerra greco-gotica. Questa seconda ipotesi legherebbe il sito di San Giusto alla proprietà imperiale bizantina, che vi sarebbe intervenuta alla fine del vittorioso conflitto, al momento del crollo della chiesa A (G. Volpe, Linee di storia del paesaggio cit., pp. 341-342).

 

La sede di Carmeiano è oggi una sede vescovile titolare – che cioè dà solo il titolo, non avendo più un reale territorio diocesano – di cui si fregia, dopo la recente scomparsa di mons. Nikolaus Messmer, il brasiliano Joel Portella Amado, nato il  2 ottobre 1954 e consacrato vescovo il 28 gennaio 2017; egli è attualmente vescovo ausiliare di São Sebastião do Rio de Janeiro (The Catholic Hierarchy).

 

 
Mattone con il monogramma di "Johannis"
Mattone con il monogramma di "Johannis"
Mons. Joel Portella Amado
Mons. Joel Portella Amado, vescovo titolare di Carmeiano, che potrebbe essere l' ultimo "successore" di S. Pardo
 

Considerato che di questa antica Diocesi non si hanno più notizie a partire dal 504, a maggior ragione potremmo collocare l’ipotizzato episcopato di Pardus in un’epoca antecedente; e se si volesse prendere per buono il legame tra le duas Ecclesias da lui erette e le chiese A e B del sito di San Giusto, potremmo verosimilmente inquadrare il periodo di sua reggenza della diocesi Carmeianense nella seconda metà del V secolo, quale più o meno immediato predecessore del vescovo Probus. Egli, in pratica, potrebbe averle edificate l’una all’inizio – chiesa A – l’altra in chiusura – chiesa B – del suo episcopato.

 

D’altronde, il terminus post quem del supposto episcopato di Pardo è chiaramente evidenziato dalla funzione cultuale del complesso, originata soltanto alla metà del V secolo, con l’edificazione del primo edificio sacro, mentre un eventuale terminus ante quem posticipato alquanto, troverebbe la sua naturale barriera nell’incendio di questa primitiva chiesa, verificatosi nella seconda metà del VI secolo. Il presunto periodo di reggenza della diocesi Carmeianense di San Pardo andrebbe perciò in ogni caso collocato tra il 450 e il 550 circa.

 

 
     
 

ARGENTIERE NAPOLETANO, Busto di S. Pardo (1686/1703), trafugato dalla Cattedrale di Larino nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 1971 [foto Archivio Pilone]

 
     
 

ANIELLO TREGLIA, Busto di S. Stefano Minicillo (1685), vescovo di Caiazzo dal 979 al 1023, venerato nella Cattedrale cittadina, che presenta caratteristiche assai simili al busto di S. Pardo trafugato nel 1971 [vd. Calò Mariani, Due cattedrali del Molise, Roma 1979, n. 300]

 
     
 

ARGENTIERE NAPOLETANO, Busto di S. Pardo, particolare; a destra: ARONNE DEL VECCHIO, Busto di S. Pardo (1972), realizzato in sostituzione del precedente

 
 

 

Questo sito, in un periodo successivo alla morte del Santo e fino all’anno 842, in cui si colloca la “traslazione” delle sue Spoglie mortali a Larino, dovette certamente costituire una non marginale meta di pellegrinaggio, posto com’era lungo un’importante direttrice viaria, che collegava le città di Æcæ ed Arpi, per proseguire verso Siponto e da qui al ben più rinomato Santuario garganico di San Michele Arcangelo. Essa in quell’epoca aveva assunto, nel suo ultimo tratto, la denominazione di Strata peregrinorum, essendo una diramazione della più importante Via Traiana, la quale principiava a Benevento e conduceva a Brindisi attraverso le città della Puglia costiera, non prima di aver raggiunto proprio la città di Æcæ (D. Donofrio Del Vecchio, Itinerari e luoghi dell’antica viabilità in Puglia, p. 27). Nel 1201 la Strata peregrinorum venne denominata anche come strata magnam que pergit ad sanctum Michaelem (ibid.).

 

Si può così agevolmente spiegare il particolare culto tributato a San Pardo nella città di Benevento (AA.SS. Nov. III, p. 53; vd. anche F. Lanzoni, op. cit., p. 274; G. Mammarella, op. cit., p. 53), veicolato anche in questo caso dalla devozione all’Arcangelo Michele.

 

Anche la venerazione di cui godeva San Pardo a Pietramontecorvino[11] [prov. Foggia] si può rimandare al pellegrinaggio al Gargano; per questo centro, difatti, passava una strada per crinali che collegava Benevento a Lucera, toccando alcuni centri notevoli dell’alto beneventano e dell’Appennino dauno, quali Colle Sannita, Celenza Valfortore, Castelnuovo della Daunia, quindi proprio Pietramontecorvino, per poi proseguire in direzione est verso Lucera e da qui alla Grotta arcangelica (R. De Iulio-L. Ciambrone, Itinerari di pellegrinaggio tra il Sannio e il Gargano, p. 72). Verifichiamo, poi, come una Via San Pardo persista nello stradario cittadino, a nord del centro abitato, proprio in prossimità dellantica strada proveniente da Castelnuovo della Daunia, che portava a Lucera.

 

 
Pietramontecorvino Via S. Pardo
Pietramontecorvino (Foggia): cartello stradale per Lucera lungo la Via S. Pardo
 

Similmente, al pellegrinaggio micaelico credo vada ascritto il culto riconosciuto al nostro Santo, di cui vi è traccia nella lontana città di Matera: sulla direttrice che si collegava con l’importante Via Appia si incontrava una chiesetta dedicata al Santo, attualmente non più esistente, posta nei pressi del complesso rupestre di San Lazzaro, interessato da pervasivi lavori di edilizia urbana agli inizi degli anni Sessanta del Novecento. Nella toponomastica cittadina sopravvive il nome di San Pardo, riferito a un vasto rione e a una strada (G. Mammarella, op. cit., pp. 52-53). L’Autore ipotizza che il culto del Santo sia stato introdotto nel capoluogo lucano da mons. Giovanni Andrea Tria senior, già vescovo di Larino (1726-1740), originario di Laterza [prov. Taranto], un tempo ricadente nella diocesi di Matera e Acerenza (ibid.).

 

E però mi sembra assai più pertinente il riferimento al pellegrinaggio micaelico. Difatti abbiamo cognizione che sempre in auge fu, nel corso dei secoli, il viaggio penitenziale dalle terre lucane verso il Santuario garganico:

 

la Via Appia consentiva il facile accesso alle città pugliesi dell’interno (collegava difatti Roma a Brindisi, attraversando Terracina, Fondi, Formia, Minturno, Sinuessa [od. Mondragone, Caserta], Casilinum [od. Capua, Caserta], Capua [od. Santa Maria Capua Vetere, Caserta], Benevento, Venosa, Taranto). Essa poi, proprio a Benevento, si congiungeva con la Via Triana che, abbiamo visto, portava alla Grotta del Gargano.

   Sono difatti documentate, tra le «compagnie principalissime» della Lucania, quella di Avigliano, San Paolo Albanese, Genzano [tutte in prov. di Potenza] nonché quella «rinomatissima e numerosa» della stessa Potenza, detta della “Ferrizze” (o “ferulizze”), perché recante un castelletto formato di “ferule”, ornato di nastri colorati annodati intorno a un fascio di ceri votivi che venivano offerti al Santuario. Essa aveva il singolare privilegio – riservato soltanto alla “compagnia” di Boiano – di essere ricevuta al suono di tutte le campane di San Michele (C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, II, p. 173).

 

   A questa terra va peraltro annoverato un antichissimo luogo di culto micaelico, edificato nella diocesi di Potenza per volere del papa Gelasio I (492-496), di poco successivo all Basilica micaelica di Larino (Ep. 35 in Epistolæ Romanorum Pontificum genuinæ, p. 449).

 

Ci è inoltre pervenuto un antico canto, intonato all’Arcangelo dai pellegrini di Forenza [prov. Potenza].

 

 
Matera Via S. Pardo
Matera, Via S. Pardo
D. Palena, compagnia di Potenza con la "ferrizze" diretta al Santuario di S. Michele sul Gargano
D. PALENA, "Compagnia" di Potenza con la c.d. "ferrizze" (fine XX sec.), statuette in cuoio. Monte S. Angelo, Museo Devozionale
 

 

Mi pare di poter dire che proprio la presenza continuata nel tempo del culto reso a San Pardo nelle località sopra menzionate, fornisca le coordinate geografiche della effettiva ubicazione del locum aptum, in cui egli operò, poiché il sito di San Giusto si trova esattamente all’incrocio delle due direttrici viarie che – l’una interessando i paesi dell’Appennino dauno, l’altra quelli del Tavoliere – conducevano al Gargano.

 

 
Due antiche strade di pellegrinaggio al Gargano
I percorsi di due antiche strade di pellegrinaggio: 1) Colle Sannita-Celenza Valfortore-Castelnuovo della Daunia-Pietramontecorvino-Lucera; 2) Benevento-Æcæ (od.Troia)-S. Giusto-Siponto (od. Manfredonia)-Monte S. Angelo [da Google Maps; elab. P. Miscione]
 

 

Venendo ad altre ipotesi riguardanti la effettiva sede episcopale di San Pardo, oltre a quelle peloponnesiaca e lucerina sopra riportate, per lungo tempo si è creduto che egli avesse retto la diocesi di Arpi, ma una più corretta interpretazione dei codici manoscritti ha definitivamente ascritto un Pardus episcopus alla cronotassi episcopale della città di Salpi.

 

Ma vediamo in che modo è stata risolta l’annosa questione:

 

un vescovo di nome Pardo partecipò col diacono Crescente al Concilio di Arles del 314 – Ex provincia Apulia civitate Salpiensium Pardus episcopus et Crescens diaconus (cod. Par. Lat. 1452 [ly, X sec.]) –, uno dei soli quattro dell’Italia suburbicaria [G. Otranto, op. cit., pp. 159-170, ma già in Id., Pardo vescovo di Salpi, non di Arpi, VetChr 19 (1982), pp. 159-169]. Gli altri tre presuli erano Proterio di Capua, Cresto di Siracusa, Quintasio di Cagliari (Concilia Galliæ A. 314-A. 506 : CCL CXLVIII, ed. C. Munier, p. 14-22).

 

Dato per vescovo della non lontana Arpi sino ai citati studi, egli fu invece reggitore di quella che potrebbe essere la più antica diocesi pugliese, avente sede nella città romana di Salapia o Salpi, fondata nella seconda metà del I sec. a.C. [presso od. Trinitapoli, Foggia], a 6 Km da Salapia vetus, di origine greca. Giorgio Otranto ritiene tuttavia che si tratti «di un’ipotesi che non trova fondamento nella Vita (scil. di S. Pardo)» quella già avanzata dal Lanzoni – che peraltro lo riteneva vescovo di Arpi –, secondo cui il Pardo venerato a Larino possa essere identificato con questo vescovo [p. 168, n. 31; vd. anche F. Lanzoni, op. cit., pp. 273-276; P. Di Biase, Apulia Cristiana: Pardus fu vescovo di Salpi, Trinitapoli 1982; G. Mammarella, Da vicino e da lontano,pp. 131-136; Id., La figura storica di San Pardo, pp. 42-43; Id., San Pardo. cit., pp. 28 ss.].

 

Ciò nondimeno, per mio conto questo Pardo di Salpi non è da identificare col nostro. Mi permetto di far notare, al riguardo, quanto appaia fragile e a volte fuorviante il basare una ricostruzione storica sul semplice dato onomastico: rimanendo nell’ambito ecclesiastico, abbiamo avuto, negli ultimi decenni, persino due vescovi distinti aventi nome e cognome identici: Pietro Santoro; l’uno, vescovo di Larino (1970-1979); l’altro, attuale vescovo di Avezzano (dal 2007).

 

Per dare concreto valore a una ricostruzione storica credo siano necessari ben altri elementi, che attengono alla ricerca archeologica in primis, ma poi anche al dato letterario, quando esso sussista, a quello più propriamente antropologico, pertinenti il culto e le manifestazioni della pietà popolare, e così via.

 

 
Arles chiesa di Notre-Dame-la-Major
Arles (Francia), chiesa di Notre-Dame-la-Major, edificata su un antico tempio dedicato alla Bona Dea, che una tradizione vorrebbe eretta su un precedente edificio in cui si tenne il Concilio del 314
     
 

 Vescovi omonimi

A sinistra: Pietro Santoro (Roccabascerana, Avellino 1913-San Giovanni Rotondo, Foggia 1998), vescovo di Larino e Termoli (1970-1979), arcivescovo metropolita di Campobasso-Bojano (1979-1989); a destra: Pietro Santoro (Vasto, Chieti 1946-vivente), vescovo dei Marsi (2007)

 
 
 

Per di più, il riferimento al Beatus Papa Cornelius presente nella Vita prolixior (V; VI), che governò la Chiesa dal 251 al 253, si accorderebbe assai difficilmente col Pardus presente nel 314 ad Arles, malgrado un’ardita ricostruzione proposta di recente:

 

Per legare, in qualche modo, la figura di Pardus del 314 al breve periodo del pontificato corneliano (251-253), si potrebbe pensare pure che egli, giovanissimo e quindi non ancora Vescovo, costretto a lasciare il Peloponneso, sua terra di origine, raggiungesse a Roma il Papa S. Cornelio e poi, recatosi nella Daunia ed investito della dignità episcopale, avesse fatto nascere, spiritualmente, due comunità cristiane tra cui quella di Salapia; da questa località, anche se già avanzato negli anni, avrebbe avuto modo di portarsi ad Arles.[12]

 

Questo ipotizzato Pardo sarebbe perciò vissuto quantomeno una novantina d’anni. Inoltre, tutto il colloquio tra il Papa e il Santo, presente nella prima parte della Vita prolixior (V-VII), perderebbe di significato, poiché del tutto inverosimile immaginare un colloquio tra il Vescovo di Roma e un semplice chierico che, per l’età giovanile, non rivestiva alcuna carica.

 

 
     
     
 

 Culto di S. Pardo

In alto a sinistra: altare barocco in onore del Santo nella Cattedrale di Larino, prima dei restauri degli anni Cinquanta del Novecento [foto Archivio Pilone]; a destra: F. APICELLA, S. Pardo, litografia eseguita a Napoli (1913) [da Mammarella, San Pardo, Campobasso 2011]; sopra a sinistra: statua lignea di S. Pardo (XV sec.). Larino, Museo Diocesano "G.A. Tria", proveniente dal Museo Nazionale d'Abruzzo dell'Aquila [foto Stelluti]; a destra: quadretto votivo posto a coronamento di un carro c.d. "a botte"

 
 
 

Non si spiegherebbe, in ogni caso, per quale ragione il corpo del vescovo di Salpi sia stato sepolto in altra diocesi, nel suburbio di Lucera, città distante da Salpi 75 chilometri, quando la normalità delle cose voleva il vescovo tumulato nel territorio della sua circoscrizione ecclesiastica, dapprima e fino al VII secolo in un santuario martiriale – se effettivamente presente –, poi all’interno della sua cattedrale (J.-Ch. Picard, Le souvenir des évêques, pp. 251-252, 723). A questa logica obiezione il Mammarella così argomenta :

 

Non è da escludere ... che il Santo ... abbia governato, sul principio del IV secolo la diocesi dauna di Salpi o Salapia e poi, ottenuto il consenso del Papa, si sia ritirato nei pressi di Lucera per trascorrere, in solitudine, gli ultimi anni della sua vita; oppure che il suo corpo sia stato trasferito in seguito in quest’ultima città dove lo trovarono i larinesi nell’anno 842.[13]

 

Onesti argomenti, che tuttavia mi paiono alquanto deboli. E perdipiù la città di Salpi non è mai menzionata in alcuna delle due Vite né si dice di un precedente episcopato di San Pardo in terra apula. Nemmeno si può dire che nei dintorni dellantica Salpi sia sopravvissuta una qualche venerazione tributata al nostro Santo né si spiegherebbe cosa centri il vescovo di Salpi con le due chiese suburbane erette nei pressi di Lucera.

 

A mio avviso, il riferimento al papa Cornelio presente nella Vita prolixior andrebbe sbrigativamente spiegato tenendo conto che il levita Radoyno scriveva a quasi un millennio di distanza dai fatti raccontati, interpolando la più esatta e concisa Vita brevior con altri generi agiografici stereotipati, di cui egli si sarà reso facile interprete e pronto redattore.

 

 

 

 Reliquie di S. Pardo

 
Busto argenteo di S. Pardo in trono
Il busto argenteo del Santo sorretto da due portatori nel giorno di festa (26 maggio)
Processione del busto di S. Pardo per le strade di Larino
Solenne processione per le strade cittadine (26 maggio 2006) [foto Miscione]
Busto S. Pardo lascia Cattedrale
Il busto del Santo Protettore rientra nella Cattedrale a lui intitolata, carico degli ori e dei preziosi donati dai Larinesi devoti [foto Mosca]
Busto di S. Pardo nella Sagrestia della Cattedrale di Larino
Il simulacro argenteo riposto in una nicchia, all'interno della Sagrestia della Cattedrale cittadina [foto Miscione]
Cattedrale di S. Pardo Anni Cinquanta
La Cattedrale di S. Pardo in una foto degli anni Cinquanta del Novecento [foto Archivio Pilone]
 

 

Possiamo perciò verificare che, in definitiva, la Vita prolixior non ci dice nulla di nuovo e di esatto, a parte il nome di questo significativo Pontefice della Storia della Chiesa, messo lì per una ragione che evidentemente ci sfugge.

 

La pensa tuttavia in modo diverso mons. Moffa, nel suo lungo excursus su San Pardo:

 

Il nome di papa Cornelio, l’unico fino ad oggi così chiamato, non è venuto fuori come una marginale protuberanza arbitraria. […] L’identificazione del Papa … non è un fantasma della immaginazione di Radoino.[14]

 

E però, tenuto conto di quanto già detto, mi sento di concludere questo saggio ribadendo che l’anonimo Papa potrebbe essere invece uno dei seguenti: Leone I Magno (440-461), Ilaro (461-468), Simplicio (468-483), Felice III (483-492), Gelasio I (492-496), Anastasio II (496-498). Col successore Simmaco (498-514) siamo già giunti all’episcopato di Probus. Se consideriamo San Pardo al primo posto nella cronotassi episcopale della diocesi rurale di Carmeianum, appare assai credibile che quel Papa fosse San Leone Magno, il Papa che salvò la fede cristiana dall’avanzata degli Unni di Attila.

 

E di un Papa così – un degno erede del “leone di Giuda” avremmo tanto bisogno ai giorni nostri, ora che l’avversario e il nemico sono penetrati entro le porte di Gerusalemme (Lam 4,12).

 

 

 

 Bibliografia:

 

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   [1] Vita Brevior Sancti Pardi Episcopi, et Confessoris. Auctore Anonymo, Ex antiquo Libro Sanctorali Ecclesiæ Larinensis collato cum aliis MSS. Codicibus, & Vaticano signato Num. 5834[fol. 132, d’ora in poi Vita brevior] 1 (il numero si riferisce alla versione riportata dal Pollidoro; così d’ora innanzi), riportata in: G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi Episcopi, et Confessoris in Cathedrali Templo Larinensi quiescentis…, Romæ 1741, pp. 1-5; G.A. Tria, Memorie Storiche Civili, ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino…, Roma 1744, rist. Isernia 1989, pp. 751-753 (pp. 632-633 dell’ed. del 1744); G. Mammarella, San Pardo. Patrono principale di Larino e diocesi, Campobasso 2011, Appendice, pp. 106-110.

   [2] G.B. Pollidoro, op. cit., pp. 27-28, qui p. 28.

   [3] F. Lanzoni, op. cit., p. 274.

   [4] C. du Fresne Du Cange, Glossarium madiæ et infimæ Latinitatis..., ed. L. Favre, VI, Niort 1886, sub vocem peregrini, col. 270c.

   [5] G.A. Tria, op. cit., pp. 359-360.

   [6] G. Otranto, op. cit., pp. 204-208, qui p. 206; vd. anche F. Lanzoni, op. cit., pp. 275-276.

  [6bis] V. Coletti, Indagini storiche sopra Lucera, Pompei 1934, p. 70. Devo la notizia al lucerino Walter di Pierro.

   [7] C. du Fresne Du Cange, op. cit., II, Niort 1883, sub vocem cella, in ibid., col. 250a.

  [8] De Sancto Pardo Episcopo Patrono Larini in Italia. Commentarius prævius (AA.SS. Mai. VI, Antuerpiæ 1668, pp. 370-373, qui p. 370, riportato anche in G. Mammarella, op. cit., App. pp. 129-133, qui p. 130).

   [9] Fest., De verb. sign., ad vocem (ed. E. Thewrewk, p. 434, 21-30) [Si ha un saltus dove non vi sono foreste e pascoli, e perciò possono esservi anche delle abitazioni; se una qualche parte minore di quel saltus viene arata dai pastori o dai guardiani, il fatto non inficia la denominazione di saltus, non più di quanto avviene per la definizione di fundus, attribuita ad un terreno coltivato che può contenere un edificio, nel caso che una qualche minore parte di esso contenga un bosco].

   [10] Tra i siti in cui si è voluto riconoscere il saltus in questione, oltre a quello qui ipotizzato, menzioniamo la zona del casale di San Lorenzo in Carminiano, posto 5 km a sud-est di Foggia, che non ha però restituito materiale epigrafico sufficiente; in Salento, nei pressi di Carmiano [prov. Lecce]; in Basilicata, nella zona di Monte Carmine [5 km ca. a nord-est di Avigliano, Potenza (1228 m s.l.m.)] (G. Volpe, Linee di storia del paesaggio dell’Apulia romana: San Giusto e la valle del Celone,in Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana. Atti del Convegno Internazionale, edd. E. Lo Cascio-A. Storchi Marino, Bari 2001, p. 339 e n. 100).

   [11] «È fama che S. Pardo passasse per Pietra Monte Corvino [sic], e quei paesani di prodigi felicitasse: in ricordanza di che ergessero una chiesetta, oggi in profano uso convertito, appo cui scorre limpida una fonte alla quale si attinge per devozione al santo». A parer mio la chiesetta va ricollegata, più che alla presenza fisica del Santo in quel contesto, alla “presenza” del suo culto, veicolato lungo le strade di pellegrinaggio al Gargano. Di S. Pardo rimane soltanto la menzione nello stradario del centro dauno (G. Mammarella, op. cit., p. 52).

   [12] G. Mammarella, San Pardo cit., pp. 33-34.

   [13] Ibid., p. 33.

   [14] S. Moffa, San Pardo nel tempo, in «Almanacco del Molise» 1987, II, pp. 105-116, qui p. 112.

 
 

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Una rilettura della figura storica di San Pardo vescovo alla luce delle due "Vite"
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Commenti: 3
  • #1

    Walter di Pierro (mercoledì, 05 luglio 2017 23:55)

    Gentile Dott. Miscione,
    a Lucera c'era anche una chiesa in onore di S. Pardo, di cui si ignora il tempo e il luogo di edificazione. Ecco cosa scrive il canonino lucerino Vincenzo Coletti:
    "Ma Lucera - sempre più memore e grata - eresse e dedicò a S. Pardo anche una Chiesa, nella quale, sotto gli auspici di Dio, della Vergine e del Santo Patrono, si adunava spesso il Decurionato, per prendere le sue Deliberazioni a tutela e difesa degli interessi nazionali e cittadini (101).
    101): Archivio Comun., Vol. III, 28 Aprile 1520, pag. 115. (da "Indagini storiche sopra Lucera" per il Decano Vincenzo Coletti, prima dignità del Real Capitolo, Pompei, 1934, p. 70).

  • #2

    pinomiscione (giovedì, 06 luglio 2017)


    Ringrazio Walter di Pierro di questa notizia, che provvederò a integrare nel testo della mia ricerca. Sono anche riuscito a trovare una copia digitale del libro del canonico lucerino Vincenzo Coletti, che ho indicato, mediante link, nella 'Bibliografia'. Grazie ancora.

  • #3

    Walter di Pierro (giovedì, 06 luglio 2017 16:44)

    Gentilissimo, il Decano Coletti, come avrà notato, alle pp. 67-70, riporta anche un'interessante relazione inviata a Mons. Andrea Tria dal Can. Giuseppe Califano, nel 1735, nella quale sono citate alcune opere presenti nel Duomo raffiguranti S. Pardo: 1) in uno dei quattro medaglioni posti sotto le vele della volta absidale, realizzati nel '600, "In Cornu Epist.: vi sta dipinto il Vescovo S. Pardo; S. Pardus Episc. Lucer."; 2) vicino alla sacrestia, intorno all'altare del compatrono S. Rocco, c'erano cinque nicchiette (poi scomparse), in ognuna delle quali vi era "una statuetta di pietra di tutto rilievo dei Santi Vescovi di Lucera, e tra essi S. Pardo, in abito pontificale, con la scritta: Pardus Episc. Lucer." (potrebbe essere la medesima donata nel 1905 al museo, dal sig. Giuseppe Ferrante, anche se il testo dell'iscrizione sembra non coincidere); 3) affreschi, forse trecenteschi, nella lunetta del portale d'accesso al Duomo, ai piedi del campanile, e sotto la volta del medesimo (non più esistenti) rappresentanti anche i santi vescovi, tra cui S. Pardo, "in abiti pontificali, con piccolissime mitre in testa e con le loro iscrizioni"; 4) una delle cinque tele presso il palazzo vescovile, dipinte sempre nel '600, tra cui una dedicata a S. Pardo.
    Dal 1906, un'artistica balaustrata lignea, realizzata dalla Scuola Professionale "Saverio Altamura" di Foggia, fu posta in sostituzione di quella settecentesca in pregiati marmi policromi, a delimitare l'area absidale: tra le 16 figure di santi artisticamente intagliate a rilievo, poste all'interno di nicchie terminanti con archi gotici trilobati, c'è quella di S. Pardo.
    Nel 1981, il precedente Vico S. Caterina (in foto) fu reintitolato "Vico S. Pardo", come aveva già proposto anni prima l'Arcidiacono Mons. Alfredo Ciampi, con lettera del 15 gennaio 1941.

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