« Pe compagnia ci stanno tutti li Santi »

le “compagnie” al Gargano

COMPAGNIA

di San Marco in Lamis

(maggio 1981)

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ontrariamente a quanto si ritiene normalmente, non era affatto usuale mettersi in cammino su una via di pellegrinaggio, per quanto trafficata, in completa solitudine, sia per motivi di sicurezza sia in conseguenza dello spirito corporativo tipico della società feudale, ricalcato su famiglie, confraternite, parrocchie, diocesi e signorie.

 
 

   È oramai assodato dagli studiosi che il prototipo del pellegrino solitario si sia imposto solo a partire dal XX secolo.

 

Siccome non tutta la popolazione poteva mettersi in viaggio, veniva rappresentata da una “compagnia” di devote persone – a guida laica e senza gerarchia ecclesiastica –, la quale doveva rappresentare tutta la città davanti all’Arcangelo (C. Angelillis, Il Santuario del Gargano…, II, pp. 166 ss.; G.B. Bronzini, Il santuario di S. Michele Arcangelo, pp. 140 ss.; G. De Vita, I pellegrinaggi attuali, pp. 169-221; F. Nasuti, L’Arcangelo e il pellegrino, pp. 297 ss.; G. Mascia, Aspetti del culto popolare di San Michele Arcangelo nel Molise, pp. 25-31; sui pellegrinaggi in gruppo in generale: N. Ohler, Vita pericolosa dei pellegrini nel Medioevo, pp. 88-91).

 


 

 

All’interno della “compagnia” esisteva una gerarchia ben precisa di gradi e funzioni diverse, trasmessi di padre in figlio: il “portacristo” o crucifero, il portatore di lampioncini, il portatore di campanello (A.M. Tripputi, I pellegrinaggi in età moderna e contemporanea, p. 304).

 

Su tutti sovrintendeva il “priore”, così definito:

 

Secondo il canone usuale si tratta di persona a cui vengono riconosciute grandi doti di equilibrio e di onestà, che ne fanno non solo il leader al quale si deve rispetto e obbedienza, ma nelle cui mani si affida il compito di organizzare il viaggio, e di “custodire per trasmettere” la tradizione.[1]

 

Il “priore” assumeva in pratica il ruolo di animatore religioso: intonava i canti e suggeriva le pratiche devozionali. Guidava un solo pellegrinaggio all’anno, che interessava di solito lo stesso gruppo di pellegrini (A.M. Tripputi, loc. cit., p. 304).

 

  La “compagnia” di Larino, almeno per gli ultimi secoli, è menzionata dagli studi (C. Angelillis, op. cit., II, p. 173: citata la «compagnia» di Larino tra le 16 «principalissime» della «provincia del Sannio o Molise»). Consideriamo comunque che proprio da Larino, subito dopo lApparizione arcangelica nella Grotta garganica, fissata convenzionalmente all8 maggio del 490, dovette partire uno delle prime comitive non sappiamo quanto organizzate –, poiché proprio nella Diocesi larinese sorse, per iniziativa di committenti privati e su deliberazione pontificia, uno dei primi luoghi di culto dedicati allArcangelo nella Chiesa latina, da considerare certamente come «un riflesso della diffusione del culto micaelico nelle zone circostanti in seguito ai primi pellegrinaggi al monte» (G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane, p. 192)

 

 
 

 

 Molto suggestiva la descrizione del formarsi delle “compagnie” del Larinese, riportata dallo Jovine in un suo breve racconto:

 

Al mattino si riuniscono in gruppo all’ombra delle chiese nei villaggi assolati, attendendo l’offerta di lavoro. Sono luoghi familiari per loro: da bambini spesso conoscono tutti i paesi del Tavoliere perché vi sono stati in pellegrinaggio. Sono andati a San Michele al Gargano, alcuni si sono spinti fino a Bari per San Nicola. Vanno sempre a piedi portandosi dietro Crocifissi, immagini, campanelli: gli uomini avanti, le donne dietro: cantano litanie, canzonicine devote a due, a tre voci.

Bivaccano all’aperto, allegri, ridenti, loquaci; la visita al Santuario è più che altro pretesto per queste spedizioni fatte in comitiva di cinquanta, sessanta persone tutte dello stesso luogo. Intraprendono il viaggio per fermarsi ai mercati, alle fiere, ai luoghi notevoli e fare piccoli acquisti.

A Larino le compagnie s’incontrano, si conoscono, le ragazze, i ragazzi intrecciano fuggevoli idilli.

È una breve festa, una migrazione primaverile che li compensa del chiuso inverno dei monti.  […]

 

Il loro viaggio verso l’Arcangelo Michele che preme col piede Lucifero incatenato, nero e cornuto, è un viaggio verso una terra ricca, di ampio orizzonte, lambita dal mare.[2]

 

Accadeva spesso che le “compagnie” si radunassero davanti alla chiesa del paese dedicata a San Michele – se esistente –, previo avviso, nei giorni precedenti, mediante un incaricato che rendeva noto il bando sacro percorrendo con un campanello, più volte al giorno e nelle ore vespertine, le strade del paese. Il capocompagnia prelevava il Crocifisso dalla sacrestia, che veniva consegnato al portacristo; quindi prendeva un teschio e lo portava, intonando il De profundis, all’altare del Purgatorio. Il Crocifisso veniva benedetto con l’acqua santa, con cui si aspergeva pure il primo tratto di strada. Dopo la celebrazione della Messa, il priore indirizzava una breve meditazione ai compagni di viaggio, quindi concludeva parafrasando la Missa pro peregrinantibus:

 

Adesto, Domine, supplicationibus nostris, et viam famulorum tuorum in salutis tuæ propseritate dispone; ut inter omnes viæ et vitæ huius varietates tuo semper protegantur auxilio.

 

Tutti i pellegrini si segnavano con l’acqua benedetta, quindi si partiva (A.M. Tripputi, loc. cit., pp. 305-306).

 

 
 

 

Il percorso complessivo da Larino all’antica Siponto, stando agli antichi itinerari, era di 62 miglia, pari a 92 chilometri circa (R. Infante, I cammini dell’angelo nella Daunia tardoantica e medievale, p. 18).

 

Occorre a questo punto precisare che per il pellegrino medievale, mancando carte o mappe specifiche, le informazioni stradali venivano trasmesse verbalmente, di solito da qualcuno che aveva già compiuto il viaggio ovvero, a partire da una certa data, per mezzo di informazioni scritte, limitate però alla segnalazione delle tappe, dei luoghi di sosta, dei santuari più notevoli; si davano, in quel frangente, anche informazioni più pratiche sul costo del viaggio, sulle difficoltà e sugli eventuali pericoli da affrontare (G. Cherubini, Santiago di Compostella, p. 177).

 

Nel nostro caso vediamo come queste informazioni vengano trasmesse proprio attraverso il canto, nella cosiddetta “Carrese di San Pardo”, descrivendo sinteticamente, ma assai efficacemente, la direzione del viaggio – «addò spunta lu sole» (Carrese di San Pardo, rec. altera, I,33) –, la meta – «A là ce nà bella conca marina» (I,34) – e la funzione dei luoghi ovvero il motivo per cui si andava a visitarli – «Dove si battezzava nostro Signore» (I,35) –, benché qui il resoconto trascenda la realtà percepibile e raffiguri un paesaggio altro, più a contatto con la visione mistico-escatologica.

 

 

Per quanto riguarda l’andatura di marcia, un’utile informazione ci viene da un passo di Procopio di Cesarea, il quale c’informa del fatto che per percorrere la via Appia Traiana da Brindisi a Canosa, al generale Giovanni bastarono cinque giorni, ad una media quindi di circa 35 chilometri al giorno:

 

(Ιωννης)... ρας τε ς ε τχους κ το Βρεντεσου, πλιν καταλαμβνει Κανοσιον νομα, κεται μν ν πουλοις που μσοις, πντε δ μερν δ Βρεντεσου διχει ς τ πρς σπραν τε κα Ρμην ἰόντι.[3]

 

Peraltro dallo stesso testo sappiamo che era di «cinque giorni di cammino d’uomo aitante» il tempo necessario a percorrere la Via Appia da Roma a Capua, ad una media quindi di poco inferiore ai 40 chilometri al giorno.

 

Tuttavia dobbiamo ritenere che, per il pellegrinaggio, essa fosse più bassa, a motivo della diversa attitudine alla marcia della variegata “compagnia” dei pellegrini, composta, oltre che da uomini nel fiore degli anni, anche da donne, vecchi e bambini. I carri trainati da cavalli, del resto, non alzavano di molto la media, visto che essi si dovevano in ogni caso adeguare alla velocità di chi percorreva la strada a piedi. Possiamo pertanto ritenere che 30 chilometri al giorno fosse una media più che buona, che possiamo ipotizzare scendesse fino a 25 in talune tappe più problematiche, vuoi per la natura del terreno, vuoi per le condizioni metereologiche avverse (N. Ohler, op. cit., pp. 141-145).

 

Le ore della marcia coincidevano con quelle di luce: ci si alzava di buon mattino, si dicevano le proprie orazioni, si consumava una frugale colazione e ci si metteva in cammino, facendo attenzione a non farsi cogliere dalle prime ombre della sera senza aver trovato un posto in cui dormire e rifocillarsi.

 

Conosciamo i tempi e le tappe di percorrenza dei pellegrini provenienti dalla diocesi di Larino, precisamente da Ripabottoni, i quali nel XVIII secolo effettuavano il viaggio al Gargano in otto giorni, con tappe a Torremaggiore, al convento di San Matteo, presso San Marco in Lamis, attraversando la valle di Stignano, per arrivare il terzo giorno a Monte Sant’Angelo. Il quarto giorno, passando per Santa Maria di Pulsano, si scendeva a Manfredonia, per pernottare all’antica locanda del Candelaro; il quinto si giungeva all’Incoronata di Foggia, il sesto a Lucera; l’ultimo pernottamento era effettuato a Macchia Valfortore (M. Villani, Il penoso e stancoso viaggio dei sette giorni, pp. 40-42; vd. anche R. Infante, op. cit., pp. 53-54).

 

In tempi recenti il pellegrinaggio di Montorio nei Frentani aveva inizio il 1° maggio; quello di Bojano cominciava il venerdì antecedente la penultima domenica di maggio e durava dieci giorni, compreso il ritorno; mentre quello di Bonefro durava una settimana, con inizio un lunedì non meglio specificato, per ritornare in paese la domenica successiva (G. Mascia, loc. cit., pp. 25 ss.); il pellegrinaggio dell’Alta Val Fortore, compiuto a piedi o su “traìni” addobbati, principiava nella penultima domenica di maggio e durava, ritorno incluso, otto giorni (S. Moffa, La devozione di S. Michele nell’area sannita, pp. 185-197, pp. 196-197). Otto giorni si impiegavano pure, tra il 1920 e il 1930 – quando ancora ci si muoveva a piedi –, per effettuare il pellegrinaggio da Nusco [prov. Avellino] e Muro Lucano [prov. Potenza]; mentre da Atina [prov. Frosinone] esso aveva una durata di tredici giorni (G. De Vita, loc. cit., p. 221, n. 35).

 

Per quanto riguarda il pellegrinaggio di settembre – data che però in origine apparteneva più alla tradizione romana, essendo il 29 settembre il giorno della dedicazione della più antica Basilica micaelica sulla Via Salaria –, per i pellegrini di Sant’Angelo in Grotte aveva inizio il 24 settembre e terminava il 4 ottobre; per spostamenti più rapidi era consentito, per piccoli tratti, l’uso del treno [M. Gioielli (ed.), Madonne, santi e pastori, p. 27, n. 49].

 

    Va comunque precisato che il pellegrinaggio di maggio aveva assunto fin dal principio un carattere più internazionale – poi interregionale –; mentre quello settembrino era per lo più riservato a pellegrini pugliesi o delle stesse comunità garganiche (C. Angelillis, op. cit., II, p. 171). Le due date, su un piano più utilitaristico, sarebbero da collegarsi con «l’apertura e la chiusura della dogana e della transumanza nel Tavoliere» (G.B. Bronzini, Testi e temi di storia di tradizioni popolari, p. 49; Id., Il santuario di S. Michele cit., p. 140) ovvero con l’esercizio del «diritto di statonica – cioè l’uso delle erbe riservate alle pecore… – per il pascolo degli animali grossi» (M. Magno, La Capitanata dalla pastorizia al capitalismo agrario…, p. 36).

 

 
 

 

L’occasione del pellegrinaggio al Gargano offriva anche il modo di visitare altri rinomati santuari, quali quello della Madonna Incoronata di Foggia o di San Nicola di Bari (C. Angelillis, op. cit., II, p. 172; M.T. Masullo Fuiano, “La Via dell’Angelo”…, pp. 81-82). «Il potente Arcangelo… non era l’unico patrono dei pellegrini al Gargano e delle genti garganiche e a lui si affiancavano, come baluardo della fede e punto di riferimento, altri santi, titolari delle stationes dell’iter penitenziale» (A.M. Tripputi, loc. cit., p. 296). Segnaliamo in particolare le stationes di Santa Maria di Stignano, di San Giovanni de Lama [od. convento di San Matteo presso San Marco in Lamis], di San Leonardo in Lama Volara e appunto dell’Incoronata di Foggia (ibid., pp. 296-298).

 

Le tappe intermedie servivano, oltre che a favorire il riposo durante il viaggio, proprio ad arricchirlo di rituali e pratiche religiose atte a rafforzarne la valenza purificatrice, così da presentarsi all’incontro conclusivo con l’Arcangelo Michele all’insegna della santificazione personale (M. Spedicato, Ricerca storica e storiografia religiosa sulla Capitanata moderna, p. 176).

 

Ogni via di pellegrinaggio permetteva, del resto, che le tappe fossero scandite da particolari siti religiosi, dove rinnovare la fede e le promesse. Si vedano ad esempio i numerosi santuari, che spesso custodivano preziose reliquie o immagini miracolose, sul Camino de Santiago [L. Martínez García, Il Cammino di Santiago, pp. 105-114; G. Cherubini, op. cit., pp. 131-151; vd. anche il Codex calixtinus (V,8), che riporta tutta una serie di santuari incontrati sul percorso dalla Francia alla Galizia (Il Codice callistino, ed. it., pp. 473-495)].

 

 

Sulla “Via dell’Angelo”, la sosta più lunga avveniva sotto la Montagna sacra, come a voler prolungare l’attesa della visione del Principe San Michele (A.M. Tripputi, loc. cit., p. 306).

 

Prima di salire il Monte ci si mondava. L’uso di lavarsi prima di accedere al Santuario è di origine assai remota. Su un fiumiciattolo a due miglia da Santiago de Compostela, era previsto un apposito luogo boscoso per le abluzioni, denominato «Lavamentula» o anche «Lavacolla», con chiaro riferimento all’organo sessuale maschile (G. Cherubini, op. cit., p. 150; J. Chélini, H. Branthomme, Le vie di Dio, p. 159). L’abitudine è peraltro documentata anche per il pellegrinaggio al Gargano, sopravvissuta fino ai giorni nostri; si veda ad esempio il rituale del “lavaggio” effettuato ancora nel maggio 1983, dalla “compagnia” di Atina centro, ad una fonte posta a 20 chilometri circa dal Santuario, inteso come «lavaggio dei peccati che si portano dietro, come avveniva che la gente (sic) si immergeva al Giordano (sic) nei templi biblici» (G. De Vita, loc. cit., p. 208 e n. 39).

 

Per i “neofiti” del viaggio questo era il rituale:

 

Venendo su a Monte Sant’Angelo c’è un pozzo, il pozzo di san Michele e lì chi non è mai venuto si deve mettere la corona di spine in testa, e trovare una persona che è venuta da tanti anni che fa da madrina. […] Poi siamo andati in processione, abbiamo messo il crocifisso per terra su un panno rosso. Ognuno di noi è andato a baciare il crocifisso, dava un’offerta e chiedeva perdono. È stata una cosa commoventissima.[4]

 

Fin dal XV secolo e fino a pochi decenni fa, era consuetudine assistere all’arrivo di “compagnie” di pellegrini che scendevano dai carri che li avevano condotti alle pendici del Gargano; qui si scambiavano il segno di pace e si davano il reciproco perdono (R. Infante, op. cit., p. 132). Solitamente i novizi, quelli cioè che effettuavano il pellegrinaggio per la prima volta, raccoglievano all’inizio del sentiero più ripido una pietra, metafora dei propri peccati, e si apprestavano ad effettuare scalzi l’ardua salita penitenziale, fino a portarla fino alla vetta, per poi gettarla alle proprie spalle, come a voler significare la liberazione dal peccato e dal senso della fragilità umana (A.M. Tripputi, loc. cit., p. 308).

 

 
 

 

Così uno scrittore garganico descrive le “compagnie” micaeliche:

 

In lunghe file salgono, a “compagnie” precedute dal crocifero, prima le vergini come attonite in un sacro stupore, mantenendosi per mano e pei lembi delle vesti; poi le femmine come bestie da soma reggenti grossi fagotti sul capo, e gli uomini in fondo alla colonna: tutti sono scalzi, e recano in mano le scarpe o le ciocie.[5]

 

Più tardi – maggio 1981 – vediamo questa pia associazione di viandanti, la “compagnia” di San Marco in Lamis, arrampicarsi sulle pendici del Monte in questo modo:

 

procede divisa in due parti nettamente distinte. Davanti ci sono le donne con in testa il crocifisso, dietro gli uomini con lo stendardo di san Michele, al centro i cantori. «La donna porta a Gesù perché sempre Gesù ha fatto a San Michele. Quindi Cristo va avanti». A parte la presenza più numerosa dei giovani, richiamano l’attenzione i molti bambini e ragazzi (ci sono addirittura alcune carrozzine). «Portiamo i piccolini perché la tradizione non può morire. Se muore la tradizione muore la compagnia perché la tradizione è la compagnia». […] tutti hanno l’ombrello, il secchiello e dei recipienti per l’acqua. Servono per sentirsi più “sicuri” lungo la strada, anche se un pullman con i vettovagliamenti, i malati e gli anziani inabili, è in contatto con il gruppo per tutta la durata del viaggio.[6]

 

 

La sera della vigilia della festa, e fino all’ultimo Anteguerra, i pellegrini giunti al Monte erano soliti accendere colossali falò, le cosiddette “fanoie”, e cantavano strofette osannanti al Guerriero celeste:

 

“Se S. Mechele ne ‘ntenesse la spete | sarimm murte sott li prete | e laudete sempe sij | facc ‘razij S. Mechele mij”[7]

 

 
 

 

Arrivati alla meta, ci si accingeva ad omaggiare l’Arcangelo, scivolando lungo le scale. Le impronte delle mani e dei piedi degli antichi viandanti raccolti in comitiva sono ancora visibili lungo le pareti delle scalinate che immettono alla Grotta e sulle pareti della cripta, ad imitazione di quelle dell’Arcangelo che si crede siano state rinvenute scavate nella roccia dopo la sua Seconda e Terza Apparizione.

 

Durante la discesa, i pellegrini recitavano brevi orazioni, parte in dialetto parte in Italiano, mediante le quali invocavano l’Arcangelo affidandogli la salvezza della propria anima:

 

“Angele sante, schela Sante | patre, figgke e Spirete Sante. | Schela Sante, preta sante | Patre figliuol’ e Spirete Sante”[8]

 

“Arcangelo S. Michele | voi siete il mio fedele | nell’ora dell’agonia | assistete l’anima mia”[9]

 

 Talvolta il rito si svolgeva all’esterno, lungo le cosiddette “scalelle”, poste a copertura della Sacra Grotta (C. Angelillis, op. cit., II, pp. 59-60).

 

La pia comitiva intonava infine il suo canto davanti al simulacro arcangelico. Eccone un esempio (audio registrato allinterno della Grotta il 29 settembre 2008):

 

 
   

 

 

 

Di seguito, invece, un canto tradizionale, eseguito anche durante il viaggio:

 


   

 

 

   

    Si riporta ancora uno dei motivi più noti, anche se assai posteriore, che accompagnava i pellegrini di Bitetto (Bari), intonato tuttora nei due giorni di festa:

 

O glorioso Arcangelo | proteggi in questa via | la nostra Compagnia | che vien piangendo a te. | Sul monte del Gargano | ricorre ogni fedele | all’ara tua, Michele | si prostra e grazia ottien.[10]

 

 Questa è la bellissima interpretazione che ne dà il bravo cantore Michele Ricucci:

 

 
   
 

   

Di seguito, le variazioni sul tema, eseguite dalle “compagnie” al Gargano (audio registrato allinterno della Grotta il 29 settembre 2008):

 


   

 

 

 Questo invece il testo dell’inno, semplice e struggente nella melodia, intonato dalla “compagnia” di Forenza (Potenza):

 

Alzame l’occhie al cielo, | vedime una stella, | o Sammichele Arcangelo | quante sei bbelle. | Evviva Sammichele | e Sammichele ssante, | in questa grotta santa | sime venut’a visità. | E nuje da Forenza | sime arrevato, | e Sammichele a noje | e n’a guardate[11]

 

    Eccone una magnifica interpretazione del Coro Polifonico “Vocinsieme” di Monte SantAngelo:

 

 
   


 

 

Poi ci si rimetteva in marcia, pensando già al prossimo viaggio:

 

Quando tornano indietro sono più frettolosi e inquieti, si fermano in tutte le chiese con maggiore devozione, con canti più alti e patetici. A casa creeranno poi la leggenda della ricchissima terra visitata; e la narrano ai piccoli, alle donne, a quelli rimasti in casa.

A Larino torneranno ancora per la fiera dell’ottobre…[12]

 

 

 

Bibliografia:

 

C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, 2 voll., Foggia 1955-1956, rist. anast. Monte Sant’Angelo 1995

G.B. Bronzini, Testi e temi di storia di tradizioni popolari, Bari 1976

G.B. Bronzini, Il santuario di S. Michele Arcangelo, in Id. (ed.), Ex voto e santuari in Puglia. I. Il Gargano, Firenze 1993, pp. 131-163

J. Chélini, H. Branthomme, Le vie di Dio. Storia dei pellegrinaggi cristiani dalle origini al Medioevo, Milano 2004

G. Cherubini, Santiago di Compostella. Il pellegrinaggio medievale, Siena 1998, rist. Siena 2000

G. De Vita,  I pellegrinaggi attuali, in La montagna sacra. San Michele Monte Sant’Angelo il Gargano, ed. G.B. Bronzini, Galatina 1992, pp. 169-221

M. Gioielli (ed.), Madonne, santi e pastori. Culti e feste lungo i tratturi del Molise, Campobasso 2000 

Il Codice callistino. 1ª ed. it. integr. del Liber Sancti Jacobi-Codex calixtinus (sec. XII), trad. it. V.M. Berardi, Perugia-Pomigliano d’Arco 2008

R. Infante,  I cammini dell’angelo nella Daunia tardoantica e medievale, Bari 2009

F. Jovine, I contadini vanno al piano, in Viaggio nel Molise, Isernia 1967, rist. Isernia 2010, pp. 74-78

M. Magno, La Capitanata dalla pastorizia al capitalismo agrario (1400-1900), Roma 1975

L. Martínez García, Il Cammino di Santiago. Una visione storica da Burgos alla meta, Padova 2009

G. Mascia, Aspetti del culto popolare di San Michele Arcangelo nel Molise, in Atti della giornata di studio su San Michele Arcangelo, Riccia 2000, pp. 17-43

M.T. Masullo Fuiano, “La Via dell’Angelo” ovvero la Via Francesca o Via Sacra Langobardorum e la Via Francigena o Via Troia-Siponto, in  M. Pasculli Ferrara (ed.), Itinerari in Puglia tra arte e spiritualità, Roma 2000, pp. 76-82

S. Moffa, La devozione di S. Michele nell’area Sannita, in Religiosità e territorio nell’Appennino dei tratturi, ed. E. Narciso, Santa Croce del Sannio 1997, pp. 185-197

F. Nasuti, L’Arcangelo e il pellegrino. Il culto micaelico nella fototeca Tancredi, in C. Carletti-G. Otranto (edd.), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e Medioevo. Atti del Convegno Internazionale, Bari 1994, pp. 295-301 

N. Ohler, Vita pericolosa dei pellegrini nel Medioevo. Sulle tracce degli uomini che viaggiavano nel nome di Dio, Casale Monferrato 1996

G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane. Saggi Storici, Bari 1991 [ma 1990]

G. Piemontese, Il Gargano. I luoghi e i segni dell’immaginario. Itinerari di fede, storia, arte e cultura, Foggia 1997

Procopius Cæsariensis, De bello Gothico III, ed. D. Comparetti : Fonti per la Storia d’Italia XXIII-XXV, Roma 1895-1898

M. Spedicato, Ricerca storica e storiografia religiosa sulla Capitanata moderna, Bari 2002

G. Tancredi, Folklore garganico, Manfredonia 1940

A.M. Tripputi, I pellegrinaggi in età moderna e contemporanea, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano. Archeologia Arte Culto Devozione dalle origini ai nostri giorni, ed. P. Belli D’Elia (Catalogo della Mostra), Foggia 1999, rist. Foggia 2003, pp. 294-312

M. Villani, Il penoso e stancoso viaggio dei sette giorni. Rituale dei pellegrini di Ripabottoni, San Marco in Lamis 2002

M. Vocino, Visioni di Puglia. Il Gargano e le Tremiti, Roma 1923

 


   [1] G. De Vita, I pellegrinaggi attuali, p. 206.

   [2] F. JovineI contadini vanno al piano, in Viaggio nel Molise, Isernia 1967, rist. Isernia 2010, pp. 75-76.

   [3] Procop. Cæs., De bello Goth. III,18.

   [4] Testimonianze raccolte a viva voce, riportate in G. De Vita, loc. cit., p. 208 e n. 40.

   [5] M. Vocino, Visioni di Puglia. Il Gargano e le Tremiti, Roma 1923, riportato in G. Piemontese, Il Gargano. I luoghi e i segni dell’immaginario, Foggia 1997, p.138.

   [6] G. De Vita, loc. cit., p. 213-214.

   [7] [Se S. Michele non tenesse la spada | saremmo morti sotto le pietre | e lodato sempre sia | faccio grazie a S. Michele mio] (G. Tancredi, Folklore garganico, pp. 32-33). Probabile un riferimento alle pietre sconnesse dai terremoti; ma qui mi appare più consono pensare a un riferimento a quelle “ben levigate” dal demonio.

  [8] [Angelo Santo, Scala santa, Padre, Figlio e Spirito Santo. Scala santa, pietra Santa, Padre, figliuolo e Spirito Santo] (ibid., p. 35).

   [9] Ibid., p. 37.

   [10] C. Angelillis, op. cit., II, pp. 366.

  [11] La preghiera del pellegrino. Canti all’Arcangelo San Michele sul Gargano (inserto del CD musicale), Monte Sant’Angelo 2000; testi tratti da Princeps Gloriosissime, raccolta di E. Scarabino.

   [12] F. Jovine, loc. cit., pp. 76-77.

 

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