Il “Santo Pellegrino” nella Grotta garganica di San Michele


SANTO PELLEGRINO

Ricostruzione P. Miscione

Basilica-Grotta di S. Michele

(XIII sec. ca)

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  ralascio, in queste brevi considerazioni, analisi di ordine stilistico, tante sono le differenze di questo tipo tra il Santo Pellegrino e la Madonna delle Grazie rappresentati nella “Cava delle pietre”, che subito balzano agli occhi – ieratico e piatto il primo, elegante e a tutto tondo la seconda –, che ci porterebbero a ritenere che il nostro bassorilievo sia stato scolpito in un’epoca anteriore rispetto al secondo (fine del XIV secolo), tanta è la differente caratterizzazione, specialmente per quanto riguarda i lineamenti del volto del nostro Santo.  
 

   Questa impronta stilistica è giustificata dalla Calò Mariani – se effettivamente il suo giudizio si riferiva anche al nostro rilievo – come «tendenza divergente e in qualche modo regressiva»[1], ma che più semplicemente potrebbe essere spiegata, come fa in qualche modo l’Angelillis[2], se riferita al fatto che la mano che ha scolpito il nostro Santo non fu la stessa, visto che potrebbe aver operato almeno un secolo addietro; e infatti in didascalia arriva a datare il rilievo al IX secolo. Tuttavia questa collocazione temporale credo vada subito scartata, visto che, come si dirà oltre, si hanno immagini di pellegrini nell’iconografia soltanto dopo l’XI secolo.

 

A sostegno di riferimenti altri rispetto a quelli cortesi della Francia tre-quattrocentesca, credo sia di una qualche utilità il confronto con alcuni bassorilievi, venuti alla luce negli ultimi decenni, ma di tratto palesemente più arcaico rispetto al nostro – benché vi traspaia una certa somiglianza –, rappresentanti l’Aghion Mandylion, rinvenuti su alcuni conci della torre quadrata del Castello della stessa Monte Sant’Angelo, che la nostra Autrice data all’VIII-IX secolo, i quali «richiamano la scultura molisana, i cui mezzi espressivi, semplificati all’estremo, procedono ancora nel XII secolo dal medesimo sostrato medievale (v. S. Maria di Canneto a Roccavivara; S. Maria della Strada a Matrice)»[3].

 

  Più recenti studi divergono sensibilmente da questo giudizio ed hanno notevolmente posticipato la datazione di questi reperti, collocandoli nell’ambito del XIII secolo[4], permettendo, soprattutto a motivo dei tratti fisionomici – la barba a due punte, i capelli percorsi da incisioni e a punta ricurva – «di supporre una committenza legata al mondo slavo»[5].

 

 
 

 

Quel che mi pare probabile, ad ogni caso, è che lo scultore garganico che ha inciso il nostro Santo Pellegrino abbia avuto bene in mente il rilievo del Volto di Cristo scalfito all’interno della torre del Castello cittadino e che, più o meno volutamente, ad esso si sia rifatto, benché i suoi mezzi tecnici ed espressivi siano palesemente più raffinati. Del resto, questa analogia venne certamente ravvisata da uno storico dellarte tedesco dellOttocento, che arrivò ad identificare il nostro Santo come «antica immagine di Cristo con il libro in mano[5bis].

 

Specialmente il raffronto col Santo Mandylion inciso sul concio, ancora in opera, sullo stipite meridionale del vano di accesso alla Cappella del Castello (fig. in alto, a destra), sempre all’interno della torre quadrata, credo presenti una certa affinità, specialmente nella resa degli occhi. Vi si può osservare, difatti, tutta la difficoltà dello scultore nel vincere la piattezza della superficie e dare vividezza a una parte fondamentale del volto; caratteristiche, queste, che ritroviamo anche nel nostro Santo Pellegrino, dove peraltro la quasi perfetta equivalenza e simmetria delle orbite contraddice l’inquadratura in leggero scorcio della figura; anomalia, questa, che pure si replica nella parte inferiore del volto, con bocca, baffi e barba – biforcuta, ma in modo assai meno evidente che nel Mandylion – in pressoché perfetta corrispondenza speculare. 

 

 
 

 

Ma passiamo a considerare l’identificazione del personaggio ritratto nel nostro rilievo, in cui alcuni hanno voluto riconoscere, come si è visto, San Giacomo il Maggiore.

 

Specifichiamo, in via preliminare, che le raffigurazioni di San Giacomo apostolo in veste da pellegrino appaiono assai frequentemente lungo le vie di pellegrinaggio[6] che collegavano il santuario di Galizia con Roma, Costantinopoli e i porti d’imbarco per la Terra Santa, e pertanto non si ha alcuna difficoltà ad ammettere che una rappresentazione in rilievo all’interno del Santuario garganico – tappa intermedia e tuttavia significativa dei pellegrini europei verso Gerusalemme – sia del tutto giustificata.

 

Ciò nondimeno mi pare di poter dire che il Santo Pellegrino in questione – purtroppo incompleto, probabilmente a causa di qualche picconata di troppo data da un distratto cavatore – non rappresenti inconfutabilmente San Giacomo di Compostella (di Galizia, come a volte è denominato), così come parrebbe a prima vista.

 

 

Ciò è dimostrabile, a parer mio, partendo proprio dalla considerazione che la piccola conchiglia[7] scolpita sulla borsa appare del tutto inadeguata[8] a caratterizzare un tipo iconografico ben conosciuto; difatti il rilievo non presenta, in modo inequivocabile, alcuno di quei caratteri iconografici[9] propri del Santo compostellano, specialmente se ritratto, come in questo caso, con l’habitus peregrini, peraltro in un luogo assai distante dal suo ambito ispanico tradizionale: la veste corta, per camminare liberamente nel lungo viaggio; il cappello a falde larghe per ripararsi dagli agenti atmosferici, spesso con la tesa rialzata sulla fronte (pétaso); la cappa o la schiavina per proteggersi dal freddo; la bisaccia di pelle, per riporre le poche cose necessarie nel viaggio; la zucca[10], sostenuta da una cordicella legata a sua volta al bordone, in cui tenere acqua o vino per dissetarsi.

 

 

Nel nostro rilievo della Cava, nemmeno sono presenti quei caratteri del Santo Matamoros[11], alfiere soprannaturale, ovvero Miles Christi, intercessore e vessillo della ribellione della Spagna al dominio islamico. Inoltre il bordone crociato non ha la forma tipica di quello del pellegrino diretto a Compostella; nel Pórtico de la Gloria della Cattedrale galiziana, ad esempio, il Santo appoggia le mani su un corto bordone terminante con il Tau[12]; altre volte esso ha un’estremità a pomolo rotondo, che spesso si replica lungo il fusto del bordone. Il lungo bastone crociato, in definitiva, non appare dunque essere affatto una caratteristica di San Giacomo pellegrino.

 

 

Anche quelle poche ma significative raffigurazioni iconografiche di San Giacomo in ambito pugliese, seppure presentino quasi tutte, come nel nostro caso, il Sacro Libro che il Santo regge nella sinistra nonché la veste lunga, divergono per altri particolari più caratteristici delliconografia jacopea, quali il bordone col gancio al quale è appesa la conchiglia (pala del Vivarini nella Basilica di San Nicola a Bari), che diventano due, cucite sulla pellegrina (statua litica di Altamura), cui si aggiunge pure il pétaso calato sulle spalle (tela con Madonna con Bambino, tra i Santi Anna, Giovanni Battista e Giacomo a Mola di Bari), oppure agganciato al tipico bordone a due pomi (affresco nella chiesa di Santa Maria di Giano a Bisceglie)[12bis].  

 

 

Venendo allarea garganica, che più ci interessa da vicino, registriamo la presenza di due affreschi di San Giacomo pellegrino nella chiesa di Santa Maria di Devia a Sannicandro Garganico; l’uno, risalente al XIII secolo, che lo ritrae come apostolo, con la spada, simbolo del suo martirio; l’altro, datato al XV secolo, in cui è raffigurato in vesti da pellegrino, col bordone e la conchiglia, unici elementi visibili[13]. Sappiamo, inoltre, dell’esistenza di un antico monastero dedicato a San Giacomo Maggiore[14], con annessa chiesa rupestre, appartenente al movimento eremitico pulsanese, posto in agro di Monte Sant’Angelo, a poco più di due chilometri dall’abitato, ora inglobato nella chiesetta campestre dell’Incoronata. Tuttavia, le superstiti rappresentazioni dell’Apostolo non hanno alcuna analogia con il nostro rilievo rupestre.

 

 

 
 


   Nel nostro caso garganico,
per di più, per l’attribuzione tipologica riferita al Santo galiziano sembrano prospettarsi difficoltà di ordine cronologico, benché sulla datazione – come abbiamo visto – esistano diverse opinioni. Ciò è dovuto al fatto che fino all’XI secolo[15] non risultano esservi raffigurazioni di San Giacomo pellegrino, essendo assodato che le prime rappresentazioni di questo tipo hanno avuto origine soltanto durante il periodo romanico[16], allorché, assurto il pellegrinaggio in Galizia a vero e proprio viaggio penitenziale per antonomasia, l’Apostolo in abiti da pio viandante[17] diventò sempre più il protettore e il modello del penitente, sulla scia di analoghe rappresentazioni di Cristo stesso, effigiato appunto in vesti di pellegrino ideale diretto verso Emmaus[18], coi suoi discepoli alla sua sequela. Solo in seguito, alle caratteristiche iconografiche del generico pellegrino, si unirono altri particolari più propriamente compostellani[19], del tipo sopra ricordato.

 

Per contro, sappiamo che anche le prime raffigurazioni[20] di generici pellegrini e pellegrinaggi non si possano collocare anteriormente all’XI secolo, per di più inquadrate in ambito monastico[21].

 

   Si può quindi sostenere con buone ragioni che il nostro Santo, pur essendo rappresentato, per via del bastone e della conchiglia[22], come pellegrino, non è chiaramente riconoscibile come San Giacomo il Maggiore, figlio di Zebedeo, protomartire[23] tra i Dodici. D’altronde di questo avviso è almeno uno degli autori citati sopra.

 

 
 

 

E allora chi potrebbe essere?

 

In questa fase, considerati i problemi di accessibilità alla Cava delle pietre , non è stato possibile scattare fotografie in grande dettaglio né a grande risoluzione e con opportuna illuminazione. Le immagini fotografiche che è stato possibile realizzare – leggermente deformate a motivo del punto di visione basso – sono comunque sufficienti a che sia possibile impostare un discorso abbastanza esaustivo, teso a dimostrare come tutto l’apparato iconografico della Cava altro non sia se non una visualizzazione in pietra del trinomio salvifico medievale homo-angelus-Deus, ovvero, tenuto conto della particolare ubicazione del Santuario angelico, un percorso di salvezza dal sangue all’acqua – dal sacrificio al lavacro – prima di arrivare al Monte sacro a Dio.

 

Il Santo – dice l’Angelillis, che scriveva più di mezzo secolo fa, quando le condizioni del rilievo erano meno danneggiate – presentava un mantello rosso[24], cosa che lo qualifica senz’altro come martire; i galloni d’oro che decorano il mantello vogliono rappresentare lo splendore e la purezza della prima delle virtù teologali, la fede, testimoniata col martirio, che sola può permettere l’intendimento del messaggio della salvezza derivante dalla Croce. Regge, con la mano sinistra, un libro, il Vangelo, che ce lo fa ritenere chiaramente un evangelizzatore, un diacono[25] o forse un presbitero.

 

Un martire pellegrino, dunque.

 

Ma a questo punto, ci porremmo fondatamente il dubbio se per caso non sia possibile il riferimento a qualche martire di quelle terre daune, perciò piuttosto noto nel Santuario garganico.

 

Ora noi sappiamo che in Capitanata i martiri cui, nel corso dei secoli, è stato attribuito un significativo culto, sono i seguenti: Stefano e Agata, venerati a Siponto, cui era dedicata una basilica «iuxta præfatum litus Adriatici sinus»[26]; Felice e Donato di Herdonia[27], il cui culto cadde rapidamente nell’oblio, tanto da farvi ritenere irrilevante la loro memoria, anche a livello figurativo-architettonico; Eleuterio[28], vescovo di Æecæ, ma che sarebbe stato martirizzato a Roma; il martire adolescente Potito[29] di Ascoli Satriano.

 

Nessuno di loro – vuoi per il sesso, l’età giovanile, la funzione episcopale – presenta caratteristiche iconografiche minimamente riconducibili a quelle espresse nel nostro rilievo.

 

    Tornando perciò ad esaminarlo, vediamo che nella mano destra il nostro Santo impugna un bastone[30] crociato da pellegrino[31] al quale tiene legata, mediante una cordicella, una borsa. Tuttavia parrebbe – stando almeno a quanto è possibile vedere ad occhio nudo dalle immagini fotografiche reperite in loco – che in origine il bordone presentasse un lungo fusto a due nodi – un tipo che facilitava l’impugnatura – e che solo in seguito, intorno al nodo estremo, sia stata incisa una irregolare terminazione a croce, appena abbozzata, così come riporta l’Angelillis – «reca… nella destra un bordone crociato» – che di certo avrà avuto modo di studiare il rilievo de visu.

 

 
 

 

Per quanto riguarda la borsa[32] da viandante, ricordiamo che nell’età medievale essa era indicata con termini quali scarcella o capsella o anche pera[33], spesso del tipo floscio, mentre qui appare rigida e quadrangolare, come se si trattasse di una cartella del tipo adoperato dagli scolari. In alto al centro, al di sopra della ribalta che ne chiude la bocca, è scolpita in leggero rilievo, come già detto, una piccola conchiglia. Una linguetta s’infila all’interno di una fibbia trapezoidale; il tutto è bordato, nella parte inferiore, da una fascia incisa da solchi verticali, come sfrangiata.

 

L’iconografia dei pellegrini medievali ci riporta tutta una casistica, in cui l’uso di tenere legata la borsa al bordone è alquanto raro, soprattutto se essa è indeformabile, anche se va detto che questa raffigurazione è tuttavia, in qualche sporadico caso[34], presente. Il tipo denominato elemosiniera, perché in origine serviva a raccogliere l’obolo per le elemosine, di forma quadrata o trapezoidale, divenne oggetto indispensabile in cui si metteva tutto ciò che faceva comodo avere a portata di mano. Pendeva dalla cintura, alla quale intorno al Mille si era soliti legarla, per mezzo di un nodo scorsoio o con le stesse strisce o nastri che ne chiudevano la bocca.

 

Un tipo leggermente diverso, più riconducibile al nostro, era la scarsella[35], adoperata da messaggeri e pellegrini, talvolta anche per tenervi denaro o cose preziose o anche – nel caso in cui a portarla fossero messaggeri – i sigilli del signore locale. Presentava la ribalta passante sopra la cintura, cui al bisogno poteva venire agganciato anche un coltello. Il modo di portarla ben stretta alla cintola ovvero ad armacollo, oltre a soddisfare esigenze di sicurezza, evitava il possibile sbilanciamento nell’incedere del passo. L’inconveniente sarebbe stato del tutto prevedibile, tanto più se, com’è in questo caso, essa fosse stata piuttosto rigida e nemmeno annodata ben stretta, bensì allacciata, o meglio semplicemente appesa a una corda attorcigliata intorno a un poco efficace ingrossamento sferico del bastone – un nodo –, che certamente non sarebbe stato sufficiente a sostenere alcunché di peso anche medio, di certo non una borsa da viaggio; senza considerare il nodo precario che l’avrebbe fatta facilmente scivolare a terra.

 

Al limite, come già ricordato, al bastone si poteva legare ben stretta e giusto in cima una zucca vuota[36], per contenere bevande, per lo più vino, visto che durante il viaggio era prudente non bere acqua di cui era sconosciuta la provenienza. All’occorrenza, esso disponeva di un robusto gancio cui appenderla. Qualche pellegrino più propriamente jacopeo usava agganciarvi la conchiglia. È lecito chiedersi quale sarebbe stata la velocità di andatura di un pellegrino equipaggiato con un bordone[37] e una borsa da viaggio del tipo raffigurato nel nostro rilievo.

 

 
 

 

Ricordiamo che per il pio viandante il bastone, oltre ad essere di ausilio nei movimenti per migliorare le prestazioni e smorzare la fatica, rappresentava anche uno strumento di difesa contro serpi e animali selvatici, oltreché – in caso di estrema necessità – anche di difesa personale contro malintenzionati; ma, su un piano diverso, voleva significare la «terza gamba sulla quale appoggiarsi… la fede nella santissima Trinità, nella quale si deve perseverare[38] per addivenire alla vittoria sul male, reso concreto da qualsivoglia ostacolo[39] si fosse presentato lungo il viaggio, dipendesse dall’inclemenza del tempo o dal deterioramento delle strade; talvolta voleva assumere persino il significato del legno della Croce, in cui erano riposte le speranze di salvezza del pellegrino penitente. Avere in consegna il bordone serviva quindi come esortazione «a purificarsi dalle… colpe con la confessione, e a proteggere il… cuore e le membra ricorrendo frequentemente al simbolo della santa Trinità contro gli inganni e le illusioni demoniache»[40]. Da questa simbologia[41], talvolta portata a sottigliezze fin troppo ardite, derivava l’uso di far benedire[42] il bastone, al pari della bisaccia, prima di mettersi in cammino.

 

 

Il nostro Santo, che non si avrà difficoltà a riconoscere come martire, in qualunque modo si voglia leggere il significato del suo bordone e della sua borsa, si reca in trascendente pellegrinaggio al Santuario micaelico del Gargano, per raggiungere la definitiva dimora; ha risposto in modo convinto alla domanda Mikhā’ḗl, fa ritorno alla Casa del Padre per sciogliere il suo voto, ed è sicuro di essere accolto, visto che ha dato il sangue per testimoniare la fede.

 

In maniera non molto dissimile, d’altronde, cioè raffigurato in veste[43] da pellegrino, è stato ritratto proprio quel San Giacomo di Galizia – non a caso martire anch’egli – col quale il nostro Santo è stato da taluni scambiato. E come in quel caso l’Apostolo «figlio del tuono»[44] assumeva lo spirito e persino l’abito dei fedeli che si recavano al suo Santuario galiziano per rendergli omaggio, rimanendo a loro unito per essere di ausilio[45], così sarebbe pure in quest’altro, col nostro Santo martire pellegrino; e in effetti proprio la conchiglia e il bordone, che spesso qualificano l’iconografia del Santo di Compostella, rappresentano un sicuro parallelismo tra il nostro tipo e quello galiziano, ben più noto e studiato.

 

 
 

  

   Che non si tratti di un pellegrinaggio al Gargano[46] di un qualsivoglia Santo pellegrino è anche testimoniato, a parer mio, dal fatto che non appare alcuno di quei simboli che connotavano il bordone del pio viandante diretto al San Michele d’Apulia, che di solito era ornato da un pennacchio piumato[47] o anche da un ramoscello di pino d’Aleppo[48] – le cosiddette mazzaredde – spesso segnato da tante tacche quanti erano i pellegrinaggi compiuti, pur essendo provato che del bastone crociato si faceva solitamente uso, benché spesso si tendesse a personalizzarlo[49].

  

    Si rileva, per contro, che esso è della foggia che tuttora possiamo apprezzare nella città di Larino, durante la sfilata dei “palii” di San Primiano nei giorni 3 e 15 maggio, benché la vulgata li voglia semplicemente definire come «lunghe aste di legno sulla cui sommità sono posti drappi multicolori e multiformi»[50]. La ricostruzione proposta altrove, in riferimento all’uso del pallio, appare, come abbiamo visto, del tutto conforme all’utilizzo che si faceva dei bordoni, cui si giustapponevano solitamente i simboli del pellegrinaggio[51].

 

 
Santo Pellegrino "Cava delle pietre" Grotta S. Michele sul Gargano
Il rilievo superstite [foto Miscione]
 

 

Un martire pellegrino, dunque. Appare assai suggestivo un possibile collegamento, percepibile al primo sguardo – ma trattasi, me ne rendo conto, soltanto di unipotesi, anche se da approfondire – col simulacro ligneo di San Primiano che si venera a Larino, anche se assai posteriore (forse primo quarto del secolo XVIII[52]): il lungo mantello rosso pieghettato e orlato d’oro, i capelli lunghi e scriminati, la barba; tutti particolari fisionomici ribaditi, in buona parte, in altre raffigurazioni seriori del Santo, quali l’incisione realizzata da Giovanni Petroschi a metà Settecento, a mo’ d’illustrazione per il libro del Tria[53], o anche il quasi coevo reliquiario cesellato, realizzato per contenere i resti del nostro Santo in quel di Napoli, nella Cappella del Tesoro della Ss.ma Annunziata, i quali si basavano - vogliamo crederlo - su una tradizione iconografica, a torto o a ragione, consolidatasi nel tempo. Anche laffresco che compare sulla volta della medesima Cappella, opera del Corenzio e allievi (1597-1599), difatti anticipa significativamente i lineamenti del simulacro ligneo settecentesco, tuttora venerato. Verifichiamo, diversamente, che la tradizione lesinese lo raffigura imberbe.

 

   Salta poi subito agli occhi il modo tutto particolare in cui quella borsa si sostiene al bastone crociato, con quel tipico ingrossamento tondeggiante – un nodus – atto a reggere la cordicella attorcigliata, così come si usa fare ancora oggi con gli attuali “palii”, almeno quelli più tradizionali.

 

 
 

 

Si noterà poi l’espediente compositivo che fa anteporre la mano destra del Santo alla cordicella, per impedire che questa coprisse una parte importante della figura del Martire, quella che impugna il bordone, forse la più importante in assoluto, visto che le sue dita serrate lo vincolano irrevocabilmente alla strada che ha scelto di percorrere, che s’inerpica lungo il Monte sacro a Dio, dove lo attende la salvezza e la visione beatifica del suo Signore.

 

Neanche possiamo escludere, a dirla tutta, che siano esistite, in un passato più o meno remoto, immagini venerate del nostro San Primiano che lo ritraevano proprio con il pallio in mano, così come è descritto piuttosto esplicitamente nella cosiddetta Carrese di San Pardo[54] – che abbiamo visto in realtà era in origine riferita al culto dei Santi Martiri Larinesi –, anche se qui è «Lu Salvatore» che lo regge, senza che però ciò precluda un naturale accostamento tra il Martirio di Cristo e quello del nostro Santo.

 

 

Negli anni 303-304, al tempo cioè della persecuzione di Diocleziano, durante la quale Primiano e i suoi fratelli di fede trovarono il martirio, a seguito dell’assetto amministrativo imposto da Augusto tra il 9 e il 14 d.C., che era stato sostanzialmente confermato – benché solo dal punto di vista territoriale – da quello voluto dai Tetrarchi sul finire del III secolo, Larino continuava ad essere una florida civitas apula e i suoi rapporti con le altre città circonvicine erano certamente intensi, a cominciare proprio da quelle poste lungo l’asse viario che portava a Siponto[55]. Non è da escludere che il nostro Primiano abbia svolto una qualche opera di evangelizzazione anche nelle città sorelle più prossime, o che dai presuli di queste prendesse direttive e da dove, giacché ben conosciuto, oltre cinque secoli dopo la sua morte sarebbero arrivati i trafugatori.

 

L’evento successivo dell’Apparizione dell’Arcangelo Michele sul monte Gargano non poteva che alimentare anche il culto dei martiri, visti appunto come primo gradino – quello più comprensibile dalla mente umana – verso il traguardo finale cui ogni battezzato aspira. Il movimento di popolo al Sacro Speco del Gargano, lungo una ben precisa via di comunicazione, avrebbe spontaneamente creato le condizioni favorevoli a che anche la devozione verso i martiri cristiani trovasse un naturale incremento.

 

D’altronde non è sconosciuta alla storiografia[56] la diffusione del culto di uno o più martiri lungo un ben precisa strada, anche a parecchie miglia di distanza dal luogo in cui era la loro tomba, magari agevolata dalla cessione di una pur minima reliquia[57], che dava origine a racconti, talvolta assai fantasiosi, legati alle loro vite o alle circostanze in cui si svolse il loro martirio, così da generare un’agiografia legata a una via di comunicazione ben definita, nella quale si ritrovavano scene e soggetti analoghi, talvolta identici, proprio perché localizzati lungo lo stesso itinerario sacro. Capitava così che lungo le strade di pellegrinaggio s’incrociassero leggende, persone, santi e martiri di provenienza diversa, talvolta anche collocati in differenti periodi, per ridare vita in una maniera forse più romanzata, alle vicende religiose di una data zona geografica.

 

Si può così agevolmente spiegare la presenza di un edificio di culto dedicato a San Primiano, risalente al principio del XIV secolo, nel territorio dell’attuale Torremaggiore[58] [prov. di Foggia], località posta in prossimità dell’arteria che da Larino conduceva a Siponto, come pure non è da escludersi che altri ve ne siano stati in passato, anche in luoghi più distanti dalla città frentana. Parimenti trova spiegazione la presenza di una chiesetta dedicata a San Firmiano – in piedi fino al 1160, quando un incendio la distrusse – nei pressi di Foiano di Val Fortore [prov. di Benevento], località che non avrebbe molto a che vedere con Larino da un punto di vista strettamente geografico, ma che era posta proprio su una delle direttrici che collegavano il Gargano con Benevento[59] e il cui vicino monastero benedettino di Santa Maria di Gualdo Mazzocca[60] avrebbe ben potuto dare assistenza materiale e spirituale ai pellegrini in transito da e per Monte Sant’Angelo.

 

Alla luce di queste considerazioni – la diffusione del culto dei Santi Martiri Larinesi lungo una molteplicità di sacri itinerari[61] diretti al Gargano –, trova una spiegazione ancora più logica come e perché essi fossero ben conosciuti a Lucera e a Lesina, da dove più tardi sarebbero arrivati coloro i quali avrebbero perpetrato il furtum sacrum o “traslazione” che dir si voglia.

 

 
 

 

È storicamente provato[62] che proprio Larino fosse scelta come luogo di sosta dalle frotte di pellegrini provenienti dal nord Italia e dall’Europa settentrionale[63] che, soprattutto in prossimità delle due ricorrenze di maggio[64] e settembre, si mettevano in cammino per raggiungere la Montagna sacra all’Arcangelo, percorrendo la Via Litoranea che lasciava la costa a Histonium[65]. La città frentana si trovò quindi proprio come imbocco a quella direttrice che portava al Gargano, denominata in seguito Via Sacra Langobardorum, che proprio i Longobardi vollero fosse disseminata di xenodochia, per quei tempi piuttosto confortevoli, associati quasi sempre a insediamenti monastici, specie benedettini, che nella loro azione cercarono sempre di favorire e proteggere, allo scopo di stabilizzare i loro possedimenti e promuoverne lo sviluppo socio-economico.

 

Va detto che il passaggio a Larino[66] era pressoché obbligato, mentre a cominciare dalle successive tappe di Teanum Apulum ed Ergitium[67] già esisteva la possibilità di scegliere un percorso pedemontano, attraverso la piana del Tavoliere, per giungere a Siponto e inerpicarsi quindi alla volta di Monte Sant’Angelo lungo la Strata Peregrinorum, in compagnia di altre fiumane di penitenti provenienti da Benevento e oltre, ovvero raggiungere il Santuario garganico immettendosi nella via mediana che passava per la valle di Stignano (San Severo, San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo, Sant’Egidio) o ancora mettersi in cammino un po’ più a nord, lambendo i due laghi di Lesina e Varano (Ripalta, San Nazario, Cagnano Varano, Carpino). Si ha motivo di pensare che la maggior parte dei pellegrini provenienti dal Larinate preferisse la prima direttrice – la Via Litoranea –, quella cioè che portava a Siponto lambendo il massiccio garganico, così com’è descritto in modo sufficientemente chiaro nella cosiddetta Carrese di San Pardo.

 

Per Larino, dunque, si doveva in ogni caso transitare. Di certo, a quei penitenti in sosta nei dintorni della città o proprio all’interno delle sue mura, non sarà sfuggita l’occasione di visitare la basilica dei Santi Martiri Larinesi, per venerare le reliquie di tre campioni della fede in essa custodite e dove il rito del pallio si ripeteva ciclicamente; ed anzi si ha motivo di credere che proprio il monastero benedettino – già eretto nel 726 – adiacente all’antico edificio di culto paleocristiano, potesse disporre di una struttura assimilabile in qualche modo a un ospizio[68] per pellegrini, così come capitava in altre edifici monastici[69] tenuti dai figli di San Benedetto, proprio lungo quel sacro itinerario che conduceva al Gargano, al fine di dare loro assistenza spirituale[70] e materiale[71].

 

Non sarà senza dubbio sfuggito a quei penitenti, ospitati a poca distanza dalle tombe dei Martiri, il modo in cui quei drappi per lo più del colore del sangue venivano legati in cima ai bordoni e come quei viandanti provenienti dal territorio di Larino si accompagnassero nel viaggio penitenziale, fino al cospetto dell’Arcangelo; tanto che qualcuno di loro avrà forse mostrato il desiderio di imitarli e si sarebbe avvicinato alla confessio per calare fino a quei resti mortali un pezzo di stoffa messo a disposizione forse dagli stessi monaci[72] o anche preso dalla propria bisaccia, così da poterlo annodare in cima al proprio bastone e con quello proseguire il viaggio fino al Monte.

 

Con ciò non si vuole dimostrare incontrovertibilmente che il nostro Santo Pellegrino raffiguri San Primiano ovvero uno dei Martiri Larinesi, quanto piuttosto porre l’accento sul fatto che certamente esso rappresentava plasticamente il modo in cui alcuni pellegrini – non sappiamo bene di quale provenienza e men che meno quanti – sfilavano per le strade della Città dell’Angelo fino a discendere nella Sacra Grotta, vale a dire accompagnati da un bastone crociato della foggia riprodotta nel rilievo, con un nodus al di sotto della croce, attorno al quale veniva attorcigliata una cordicella che terminava con una borsa quadrangolare piuttosto rigida. Un aspetto, si vuole dire, non molto dissimile da quello mostrato, ai nostri giorni, nei cortei di fanciulli che incedono per le strade cittadine, coi loro“palii” multicolori, nei giorni 3 e 15 maggio, per onorare San Primiano e i suoi fratelli Martiri Larinesi, benché nel nostro caso il drappo di stoffa sostituisca la borsa da pellegrino.


    Verrebbe tuttavia facile volgere il pensiero a un ex voto proveniente da un devoto di Larino, murato su una parete dalla Cava. Appare non del tutto infondato ritenere che il nostro rilievo riproducesse abbastanza fedelmente i caratteri iconografici dell’epoca relativi al martire Primiano, anche in virtù della somiglianza stilistica con tipi scultorei provenienti dallarea molisana (vd. supra).

 

 
"Cava delle pietre" attuale
"Cava delle pietre": situazione attuale dei rilievi rupestri [foto Miscione]
"Cava delle pietre" originaria
Ricostruzione dell’aspetto originario delle sacre immagini; il trinomio salvifico "homo-angelus-Deus" rappresentato dal Santo Pellegrino, dall’icona dorata di S. Michele e dalla Madonna delle Grazie [ricostr. P. Miscione]
 

 

Il fatto poi che la nostra effigie scolpita nella pietra facesse da pendant alla più antica icona dell’Arcangelo Michele presente nel Santuario (VIII-IX secolo?), quella certamente esposta al culto, rende a parer mio incontrovertibile che essa stava lì a rappresentare proprio l’homo, il primo gradino del trinomio salvifico che aveva l’angelus come successiva tappa e Deus – qui raffigurato Bambino con sua Madre, giusto al centro – come meta finale.

 

La Madonna delle Grazie, Madre della divina grazia, mediatrice di tutte le grazie concesse dal cielo alla terra, domina la scena e costituisce il miglior compendio di tutta la sacra rappresentazione. Ritengo che questa ipotesi sia ancora più verosimile se si consideri che  in origine la “Cava delle pietre” non era un ambiente separato dalla Grotta, bensì un angolo della stessa, al pari di una cappella naturale posta in posizione più elevata, peraltro rivolta a oriente, e perciò assai adatta a contenere immagini sacre che, opportunamente illuminate, potevano destare l’ammirazione dei devoti visitatori ed accendere nei loro animi il desiderio di trascendente.

 

Dal sangue si andava all’acqua, e così purificati si era degni di salire il Monte dell’Arcangelo, dove aveva la dimora terrena colui che sta sempre al cospetto di Dio, che ne vede il Santo Volto.

 

   Per meglio concludere, mi piace definire il nostro Santo raffigurato in rilievo nella dura roccia della Grotta arcangelica con l’appellativo di “Martire della Via Litoranea” – definizione suscitata più che altro dal sentire religioso di chi scrive –, a significare la diffusione del tipo iconografico lungo quella importante arteria e a ricordo dei martiri in generale, proprio perché ai più sarebbe risultato di secondaria importanza sapere con esattezza il nome del Santo. Bastava essere edotti del fatto che si trattava di uno di quei testimoni perseguitati e giustiziati – forse – durante le ultime, penosissime tribolazioni affrontate prima che l’augusto Costantino, dopo il sogno provvidenziale, si risolvesse a dare finalmente la Pace alla Chiesa.

 

Mi voglio fa na vesta pellegrina,

Mi voglio ire addò spunta lu sole …[73]

 

 

 

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   [1] M.S. Calò Mariani, La scultura lapidea, in Ead. (ed.), Capitanata medievale, Foggia 1998, p. 164.

   [2] C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, I, Foggia 1955, rist. anast. Monte Sant’Angelo 1995, p. 202.

   [3] M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano, in G.B. Bronzini (ed.), La montagna sacra. San Michele Monte Sant’Angelo il Gargano, Galatina 1992, p. 95. Secondo la prof.ssa Belli D’Elia tali «graffiti» riproducono il «Cristo affidato al Mandylion di Edessa e… la Vergine» (Pellegrini e pellegrinaggi nella testimonianza delle immagini, in Pellegrinaggi e santuari di San Michele nell’Occidente medievale/Pèlerinages et sanctuaires de Saint-Michel dans l’Occident médiéval, edd. G. Casiraghi-G. Sergi, Bari 2009, p. 443, n. 12).

   [4] G. Bertelli, Il Sacro Mandylion e la Vergine (scheda n. 30), in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano (Catalogo della Mostra), Foggia 1999, rist. Foggia 2003, pp. 140-142; Ead., Sacro Mandylion (scheda n. 31), in ibid., p. 142.

   [5] G. Bertelli, loc. cit., p. 142.

   [5bis] H.W. Schulz, Denkmäler der Kunst des Mittelalters Unteritalien, I, Dresden 1860, p. 240.

   [6] Santiago e l’Italia. Atti del Convegno Internazionale di Studi, ed. P. Caucci von Saucken, Perugia 2005; per quanto attiene al territorio che più c’interessa: Culto iacobeo in Puglia tra Medioevo ed Età Moderna. La Madonna, l’intercessione, la morte. Atti del Convegno Gerusalemme e Santiago di Compostela, ed. R. Bianco, Bari 2002, pp. 135-164.

   [7] Nel sermone Veneranda dies del Codex calixtinus (I,17) è detto: «I Provenzali le chiamano nidulas, i Franchi crusillas, e i pellegrini che tornano dal sepolcro di san Giacomo le cuciono sulle loro cappe in onore dell’apostolo e le riportano a casa con grande gioia come simbolo e in ricordo di un viaggio così lungo. Le due valve che proteggono il mollusco… rappresentano i due precetti della carità, con i quali l’uomo che porta la conchiglia deve fortificare la sua vita, cioè amando Dio più di ogni cosa e il suo prossimo come se stesso. […] Le valve, che per di più si presentano a forma di dita, rappresentano le buone opere nelle quali deve perseverare colui che le porta» (Il Codice callistino, 1ª ed. it. del Liber Sancti Jacobi-Codex calixtinus (sec. XII), «Studi e Testi», 3, trad. it. V.M. Berardi, Perugia-Pomigliano d’Arco 2008, p. 220) [sulla simbologia della conchiglia vd. P. Castelli, Dalla conchiglia di Venere alla conchiglia di Sant’Iacopo. La metamorfosi di un simbolo, in Actas del Congreso de Estudios Jacobeos, Santiago de Compostela 1995, pp. 109-125; per aspetti particolari di questo simbolo vd.  M.C.A. Gorra, La conchiglia in araldica. Dal simbolismo arcaico all’emblema di Santiago di Compostela, Perugia 2010, specialm. pp. 21-34). Erano note le virtù taumaturgiche della conchiglia jacopea; si veda il miracolo, riportato dal Codex calixtinus (II,12) del cavaliere di Puglia, afflitto da un forte mal di gola, che nel 1106 se ne fece dare un esemplare da un pellegrino tornato dal santuario galiziano, ottenenendo la piena guarigione per contatto, sicché, per grazia ricevuta, si determinò a partire per la Galizia (Il Codice callistino cit., pp. 359-360); e più oltre (III,4): «Si narra che in qualunque luogo si senta risuonare nelle orecchie del popolo la melodia delle conchiglie marine di san Giacomo, quelle che i pellegrini sono soliti portare con sé, si amplifica nella gente la devozione della fede e sono allontanate tutte le insidie del nemico. Si attenuano il fragore della grandine, il turbinio delle burrasche, l’impeto delle tempeste, i tuoni minacciosi; le sferzate dei venti diventano benefiche e moderatamente lievi, le forze dell’aria si dissolvono» (ibid., p. 394). Dietro queste riferite qualità, qualcuno ha voluto vedere un interesse privato di smerciatori di souvenirs compostellani (G. Cherubini, Santiago di Compostella. Il pellegrinaggio medievale, Siena 1998, rist. Siena 2000, p. 45).

Nella cattedrale di Chartres, edificata in pochi decenni dopo il devastante incendio del 1194 – e perciò interessante per fissare i caratteri iconografici –, notiamo la conchiglia effigiata sul mantello del Santo ovvero sullo sfondo della rappresentazione, sia che egli appaia raffigurato in solitario sia unitamente agli altri Apostoli. Registriamo peraltro che non mancano raffigurazioni dell’Apostolo con simboli del tutto generici, quali il libro – appannaggio degli Apostoli e dei confessori – o la palma – emblema dei martiri – o anche la spada – che evoca il martirio – e la scarsella – immagine del pellegrinaggio terreno [H. Jacomet, L’apôtre au manteau constellé de coquilles. Iconographie de saint Jacques à la cathédrale de Chartres, in J.-R. Armogathe (ed.), Monde médiéval et société chartraine, Paris 1997, pp. 165-236]. In altre aree della Francia si imporrà la raffigurazione dell’Apostolo Giacomo con altri attributi, come ad es. la spada (Francia del nord) o la scarsella unita al bordone (Aquitania) [ G. Cherubini, op. cit., p. 267].

   [8] In verità la conchiglia apposta sulla scarsella appare in quella che viene considerata la prima raffigurazione dell’Apostolo ritratto come pellegrino – che difatti impugna anche il bordone –, vale a dire una scultura del monastero di Santa María de Tera, nel territorio di Zamora [Castilla y León, Spagna], datata dagli esperti al secondo quarto del XII sec. ( J.I. Martín Benito-J.C. de la Mata Guerra-F. Regueras Grande, Los caminos de Santiago y la iconografía jacobea en el Norte de Zamora, Salamanca 1994, pp. 45-50). Analoga raffigurazione è presente all’interno del chiostro del monastero di Santo Domingo de Silos, a 50 km a sud del Cammino di Santiago [Castilla y Leόn, Spagna], in cui però è il Cristo resuscitato dell’episodio di Emmaus a presentare la conchiglia sulla scarsella (G. Cherubini, op. cit., p. 266). Rileviamo tuttavia – e credo sia una considerazione non trascurabile – che tali raffigurazioni dell’Apostolo sono tipicamente spagnole, poste peraltro sul Camino; e pertanto al pellegrino o al generico fedele non sarebbero parse equivocabili le caratteristiche iconografiche, seppur abbozzate alla sola conchiglia, al punto di precludere l’identificazione col Santo che si andava a venerare.

   [9] Cfr. L. Vázquez De Parga-J.M. Lacarra-J.Uría Ríu, Las Peregrinaciones a Santiago de Compostela, I, Madrid 1948, rist. Pamplona 1992, pp. 565-573; S. Moralejo, San Giacomo e i cammini della sua iconografia, in Santiago l’Europa del pellegrinaggio, Milano 1993, pp. 75-89;  G. Cherubini,op. cit., pp. 262 ss.; J.-P. Caillet, Pellegrinaggio in immagini, in Compostela. Sulle tracce di san Giacomo, in «Il mondo della Bibbia» 3 (2005), pp. 26-31.

   [10] Di questa cucurbitacea si adoperava, per questo specifico caso, il genere lagenaria, specie lagenaria siceraria (o vulgaris), il cui nome deriva dal Latino lagœna (bottiglia, fiasca, brocca). Veniva colta in uno stadio intermedio di crescita, per evitare che si arrivasse a una capacità superiore al litro; quindi si procedeva a tagliare l’estremità superiore e a svuotarla, con un ferro ricurvo, dei semi e delle parti residue, per poi metterla a seccare al sole e in luogo asciutto. I pellegrini la utilizzavano come contenitore per l’acqua in virtù della sua leggerezza e resistenza; inoltre, grazie alla particolare forma, essa poteva essere comodamente trasportata a tracolla o legata ai fianchi (conosciuta generalmente in Italia come “zucca del pellegrino” o “zucca dei pescatori”, poiché la utilizzavano per riporvi pesci e rane che, per la forma particolare, non riuscivano ad uscire; denominata in Francese calebasse de pèlerin, in Spagnolo calabaza, in Inglese gourd).

   [11] Dallo Spagnolo: “Che uccide i mori”. Si tratta di una raffigurazione popolare di S. Giacomo, diffusa prevalentemente in Spagna, i cui caratteri, anche iconografici, veicolati dal monachesimo cluniacense e documentati dal Codex calixtinus [1139-1173 ca.], si sarebbero andati definendo nel corso dei secoli, a mano a mano che la Reconquista cattolica andava procedendo. A partire dall’XI sec. una serie di grandi vittorie sui musulmani Atlas di origini africane, seppur inframezzate da altrettanto devastanti sconfitte, diedero inizio alla raffigurazione del Santo Apostolo in sella a un bianco destriero galoppante, lancia in resta, che si scagliava contro i nemici della fede cristiana, così come sarebbe apparso sin dalla grandiosa quanto leggendaria battaglia del Clavijo (844), tra il re Ramiro I delle Asturie e le orde islamiche di al-Andalus. Sin da allora il grido di guerra «Santiago!» fu tradizionale per gli eserciti spagnoli (cfr. Cantar de mio Cid V,731: «Los moros llaman: ¡Mafómat!, e los cristianos: ¡Santi Yagüe!»). Il Patrono di Spagna ebbe perciò ad assumere i connotati dello «strenuissimus miles», della guida dell’impresa militare per eccellenza, cioè la lotta contro l’Islam e la riconquista del territorio spagnolo, invaso sin dai primi decenni dell’VIII sec., riconosciuti in questa particolare rappresentazione iconografica, facendone quasi un antesignano delle Crociate. Una delle prime rappresentazioni di questo tipo compare nella Cattedrale galiziana, nel timpano di Clavijo (1220-1230), ed altri due esemplari nei tumbos della chiesa (1236 e 1326), in cui compaiono anche – ma solo nell’ultima delle due – anche infedeli decapitati ai suoi piedi. Va detto che simili caratteristiche iconografiche vennero assunte da altri Santi particolarmente venerati, quali S. Millán de la Cogolla nella regione della Rioja, S. Isidoro a León, S. Giorgio in Aragona. Nel corso del XX sec., durante la dittatura franchista, queste peculiari caratteristiche del Santo assursero a nuova fortuna in funzione antimarxista, e il Santo matamoros poté essere talvolta denominato matacomunistas. Proprio nel 1937, difatti, S. Giacomo il Maggiore venne ufficialmente dichiarato Patrono di Spagna e il 25 luglio, che la Chiesa ricorda come festa dell’Apostolo, divenne Festa Nazionale [A. Sicart Giménez, La iconografía de Santiago equestre en la Edad Media, in «Compostellanum» XXVII (1982), pp. 11-32; J.I. Martín Benito, J.C. de la Mata Guerra, F.Regueras Grande, op. cit., pp. 36-39; L. Martínez García, Il Cammino di Santiago.Una visione storica da Burgos alla meta, Padova 2009, pp. 23-25, 162-163; sul tema vd. anche J.M. Lacarra, Espiritualidad del culto y de la pereginación a Santiago antes de la primera Cruzada, in Pellegrinaggi e culto dei Santi in Europa fino alla 1ª Crociata, Todi 1963, pp. 137-144; G. Cherubini, op. cit., pp. 39 ss.; 268].

   [12] A questo tipo di bastone hanno fatto riferimento alcuni studiosi per evocare una sua timida raffigurazione come pellegrino; tuttavia i più recenti studi propendono per attribuire alla foggia particolare del bastone un richiamo alla funzione di evangelizzatore e di vescovo (L. Vázquez De Parga, J.M. Lacarra, J. Uría Ríu, op. cit., I, pp. 565-566; G. Cherubini, op. cit., p. 265).

   [12bis] Per questi tipi iconografici vd. R. Bianco, Culto iacobeo in Puglia tra Medioevo ed Età Moderna. La Madonna, l’intercessione, la morte. Atti del Convegno Internazionale di Studi Santiago e l’Italia, ed. P. Caucci von Saucken, Perugia 2005, pp. 135-163.

    [13] G. Bertelli, Aspetti del monachesimo benedettino sul Gargano: S. Maria di Devia e la sua decorazione pittorica, in P. Corsi (ed.), Monasteri e conventi del Gargano: storia, arte, tradizioni, San Marco in Lamis 1988, pp. 191-201.

    [14] A. Cavallini, A proposito di S. Giacomo Maggiore del Gargano. Precisazioni e nuove fonti inedite, in «Michael», Boll. del Sant. del Gargano, 129 (2008), pp. 24-27.

[15] Nel primo terzo del XII sec., malgrado il pellegrinaggio a Compostella fosse in pieno vigore, il Santo è raffigurato nel Pórtico de las Platerías della Cattedrale galiziana come un apostolo fra gli altri apostoli, per nulla differente, a parte l’estrema nobiltà dei tratti. Veste una lunga tunica, regge un libro nella mano sinistra e presenta i piedi scalzi. Nel Pórtico de la Gloria, più tardo, ma pur sempre del XII sec., esso appare in trono ovvero unito in gruppo ai SS. Pietro e Paolo ( G. Cherubini, op. cit.., p. 265).

[16] Al 1125 è datata una raffigurazione di S. Giacomo pellegrino, con bordone, bisaccia e concha, a Santa María de Tera [Castilla y Leόn, Spagna]; al 1185 risale un’analoga raffigurazione nella Cámara Santa di Oviedo [Asturias, Spagna] (L. Martínez García, Il Cammino di Santiago cit., p. 40).

[17] Il Santo finiva per identificarsi con la meta stessa del pellegrinaggio, immedesimandosi nelle fatiche e nelle gioie spirituali del viaggio, compagno e allo stesso tempo protettore lungo il tragitto. Si tratta di una concezione sviluppatasa sul finire del XII sec.; difatti la pisana S. Bona raccontava che l’Apostolo le era apparso vestito da pellegrino, a volte unitamente al Cristo, altre con Maria Salome, madre di Giacomo o con Maria di Cleopa, tutti in vesti da pellegrini (G. Cherubini, Santiago di Compostella cit., pp. 65-66; J. Caucci von Saucken, Il sermone Veneranda Dies del Liber Sancti Jacobi. Senso e valore del pellegrinaggio compostellano, Betanzos 2001,  2001, pp. 81-90).

[18] Cfr. Lc 24,13-35. Una siffatta rappresentazione è custodita all’interno del chiostro del monastero di Santo Domingo de Silos, a 50 km a sud del Cammino di Santiago [Castilla y Leόn, Spagna] (L. Martínez García, Il Cammino di Santiago cit., p. 40). In ambito italiano, ricordiamo la Cena in Emmaus di Moretto da Brescia [Alessandro Bonvicino] (1526 ca.), conservata nei Civici musei d’arte e storia di Brescia, in cui il Cristo che spezza il pane è ritratto con un pétaso ricoperto di simboli di pellegrinaggio e una conchiglia jacopea cucita sulla cappa.

[19] Dal XIII sec. le grandi cattedrali gotiche si abbellirono di numerose raffigurazioni dell’Apostolo, ritratto come pellegrino, come ad es. quella di Burgos [Castilla y Leόn, Spagna], in cui presenta il cappello a larghe tese con la parte anteriore sollevata, la tunica lunga, la mantella, i sandali, il bordone corto con impugnatura rotonda e una grande sporta decorata con quattro conchas (ibid.).

[20] Tuttavia appare pacifico che l’uso di bastoni e bisacce sarà stato di antica tradizione; sul finire del IV sec. abbiamo i resoconti di viaggio di Giovanni Cassiano nell’Egitto del 385: «Sumpto itaque baculo et pera, ut illic cunctis viam ingredientibus monachis moris est, ad civitatem nos suam, id est Panephysin itineris dux ipse perduxit» (Ioh. Cass., Conl., II, ed. E. Pichery, Paris 1958 : SCh 58, conlatio abbatis Chæremonis prima XI,3, p. 13; per questo ed altri casi vd. H. Jacomet, «Vovere in pera et baculo». Le pèlerin et ses attributs aux XIe et XIIe siècles, in Pellegrinaggi e santuari cit., pp. 507 ss.).

[21] Uno dei primi esempi è costituito dagli affreschi delle volte della cappella di S. Eldrado del monastero delle Novalesa a Susa (Torino), concordemente datati alla fine dell’XI sec., in cui è raffigurato Eldrado che riceve il bastone e la bisaccia da pellegrino – un bastone lungo e sottile (baculum) e una bisaccia ricamata (pera) –, Eldrado che lascia l’abito da pellegrino e indossa il saio del monaco (P. Belli D’Elia, loc. cit., pp. 446-447 e figg. 3a-b). Altro esempio coevo (dopo il 1084) è il dipinto murale di S. Alessio, nella chiesa inferiore di S. Clemente a Roma, scoperto nel 1857 dal padre Joseph Mullooly, in cui egli chiede ospitalità al proprio genitore presentandosi come povero pellegrino. Regge un lungo bastone appoggiato sulla spalla e la bisaccia a tracolla (H. Jacomet, «Vovere in pera et baculo» cit., p. 501 e n. 76).

[22] Alcuni studi più specifici hanno chiarito che, in qualche caso particolare, perfino ispanico, la conchiglia potesse indicare genericamente il pellegrinaggio ovvero il particolare pellegrinaggio terreno del cristiano in attesa dell’ingresso alla Gerusalemme celeste (V. Almazán, Huellas jacobeas en la cultura escandinava, in Santiago camino de Europa. Culto y cultura en la peregrinación a Compostela, Santiago de Compostela 1993, p. 185; vd. anche G. Cherubini, op. cit., p. 267). In questo generico contesto, si tendeva ad accompagnare la conchiglia con un altro emblema più tipico del santuario che si andava a visitare; per il nostro caso micaelico si veda ad es. l’esemplare di pecten jacopæus su cui è sovraimpressa l’immagine di S. Michele (P. Belli D’Elia, loc. cit., p. 473, fig. 25).

[23] Cfr. At 12,1s.

[24] Tracce dell’originaria colorazione sono ancora visibili all’interno delle pieghe del mantello.

[25] Fra le attribuzioni dei diaconi vi era anche quella di leggere in chiesa il Vangelo, ragion per cui il loro tipo iconografico li vede spesso raffigurati con il Sacro Volume in mano (così sono raffigurati, ad es., il diacono Lorenzo nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna e il diacono Claudio nel mosaico della basilica di Parenzo).

[26] AA.SS. Febr. II, p. 58; cfr. anche C. D’Angela, Dall’era costantiniana ai Longobardi, in Aa.Vv., La Daunia antica. Dalla preistoria all’altomedioevo, Milano 1984, p. 337; G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane. Saggi Storici, Bari 1991, p. 190; A. Campione-D. Nuzzo, La Daunia alle origini cristiane, Bari 1999, pp. 108, 114.

[27] C. D’Angela, loc. cit., pp. 332-335; A. Campione-D.Nuzzo, op. cit., pp. 63-66. Studi accurati hanno però escluso che si trattasse di martiri indigeni, in quanto ritenuti africani (H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles 19332, pp. 386- 387, 392, 395, 396).

[28] Cfr. A. Campione-D. Nuzzo, op. cit., pp. 77-78.

[29] A partire dal IV sec. il culto di Potito si diffuse nelle regioni limitrofe a quelle che la passio latina menziona come luogo del suo martirio, che sarebbe avvenuto in una zona intermedia tra il Sannio e l’Apulia, nei paludosi terreni prossimi al fiume Calaggio-Carapelle (si ritiene nella località Mefite del territorio di Ascoli Satriano). Difatti ritroviamo chiese a lui dedicate a Benevento, Capua e nella stessa Napoli. Altri racconti agiografici parlano di una traslazione delle sue reliquie in Sardegna, che ne rivendica addirittura le origini, probabilmente a motivo di un fraintendimento del nome della sua più accreditata città natale, Sardica [od. Sofia, Bulgaria]. Il Martirologio Romano, nell’edizione recente edita nel 2001 (Martyrologium Romanum ex decreto Sacrosanti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum, Editio Typica, Typis Vaticani 2001), sposta la memoria di S. Potito al 14 gennaio, giorno in cui è pure ricordato nella diocesi di Tricarico [prov. Matera], di cui è patrono, che si vanta di custodire le sue reliquie, all’interno della cattedrale dedicata a S. Maria Assunta. Un’ulna del martire sarebbe invece custodita in un artistico busto-reliquiario seicentesco in argento, conservato nella cattedrale di Ascoli Satriano.

[30] Fra tutte le tipologie di bastone esaminate in preparazione di queste pagine, la più singolare si riferisce al lungo bordone formato da due elementi paralleli legati con cinghie, impugnato da un palmiere affrescato nella cripta della chiesa di St. Nicolas a Tavant [Indre-et-Loire, Francia] (riprodotto in  P. Belli D’Elia, loc. cit., p. 453, fig. 7).

[31] Per considerazioni di ordine generale sul viaggio penitenziale e sull’abito da pellegrino cfr. C. Vogel, Le pèlerinage pénitentiel, in Pellegrinaggi e culto dei Santi cit., pp. 64 ss.; J. Sumption, Monaci santuari pellegrini. La religione del Medioevo, Roma 1981, pp. 217 ss.; F. Nasuti, L’Arcangelo e il pellegrino. Il culto micaelico nella fototeca Tancredi, in C. Carletti, G. Otranto (edd.), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e Medioevo. Atti del Convegno Internazionale, Bari 1994, pp. 298 ss.

[32] Per una descrizione dei diversi modelli di borsa e della loro origine cfr. A.M. Ciaranfi, sub vocem borsa, in EI, VII, Roma 1949, pp. 517-518.

[33] C. du Fresne Du Cange, Glossarium madiæ et infimæ Latinitatis... , ed. L. Favre, VII, Niort 1887, sub vocem sporta, col. 563c: «pera, sportella, sacculus pastoralis, mantica»; vd. anche sub vocem pera (ibid., VI, coll. 263a-264b).

[34] Si veda ad es. la raffigurazione di S. Giacomo pellegrino riprodotta a sbalzo su una copertina di cuoio di un Libro di tesoreria (XVI sec.), conservato nell’Archivio della cattedrale di Burgos [Castilla y León, Spagna]. L’Apostolo vi compare con una veste lunga e il tipico cappello a falde rialzate; regge con  la sinistra il libro dei Vangeli e con la destra un bordone a due nodi al quale, mediante un gancio, è appesa una borsa di forma trapezoidale, che appare tuttavia non esattamente simile alla nostra, in quanto piuttosto deformabile (vd. L. Martínez García, loc. cit., fig. di p. 127).

[35] Secondo il sermone Veneranda dies del Codex calixtinus (I,17) alla bisaccia – «che gli Italiani chiamano scarsella, i Provenzali sporta e i Galli schirpa» – era attribuito il significato di «generosità nelle elemosine e… mortificazione della carne». Essa era «un sacchetto stretto, realizzato con la pelle di un animale morto, la cui estremità superiore è sempre aperta, non chiusa da legacci. Le dimensioni ridotte… indicano che il pellegrino, confidando nel Signore, non deve portare con sé altro se non una piccola e modesta quantità di denaro. È realizzata con la pelle di un animale morto perché lo stesso pellegrino deve mortificare la carne afflitta dai vizi e dalle concupiscenze, soffrendo la fame, la sete, i digiuni prolungati, il freddo, la nudità, le umiliazioni e la fatica. Non è stretta da lacci, ma la sua imboccatura è sempre aperta con allusione al fatto che il pellegrino deve prima dividere i propri averi con i poveri e dopo, quindi, dev’essere pronto a ricevere e a donare» (Il Codice callistino cit., p. 219; vd. anche G. Cherubini, op. cit., p. 174).

[36] La zucca vuota adoperata come contenitore è onnipresente, ad esempio, nelle raffigurazioni di un altro celeberrimo Santo pellegrino, Rocco di Montpellier, che in seguitò assumerà la funzione di icona per antonomasia del pellegrino (G. Palumbo, Giubileo Giubilei. Pellegrini e pellegrine, riti, santi, immagini per una storia dei sacri itinerari, Roma 1999, pp. 297-300).

[37] Il termine bordone deriva dal Latino burdo (bardotto, ibrido derivato dall’accoppiamento del cavallo con un’asina), visto l’uso che se ne faceva durante il viaggio, vale a dire quello di sostegno nella fatica e di ausilio per il trasporto della zucca adoperata per le bevande. Altri invece fanno derivare il termine dal basso Latino borde / behourde, ovvero «lancia».

[38] Sermone Veneranda dies del Codex calixtinus (I,17) [Il Codice callistino cit., p. 219].

[39] La letteratura odeporica e gli studi specifici ci riportano tutta una serie di pericoli possibili: la caduta di una frana improvvisa, lo smarrimento della strada, lo scivolamento della cavalcatura nel fango o l’imbizzarrimento del cavallo alla vista di una vipera, la difficoltà nel guadare un fiume ingossato dalle piene, l’attacco di un cane, tanto peggio se malato di rabbia, ovvero quello assai più pericoloso di un branco di lupi, l’assideramento sulle montagne innevate, nelle aree disabitate e nel corso dei mesi invernali (G. Cherubini, op. cit., p. 200).

[40] Ibid.

[41] Tutto l’equipaggiamento del pellegrino aveva un suo preciso significato. Così il bastone assumeva anche il significato della prima virtù teologale, la fede, la bisaccia rappresentava la speranza, la veste infine la carità (cfr. J. Sumption, op. cit., pp. 217-221).

[42] L’argomento vale un approfondimento: «Il ne nous est pas facile de déterminer à partir de quand l’Église a béni bourdons et besaces»[E.R. Labande, Recherches sur les pèlerins dans l’Europe des XIe et XIIe siècles, in «Cahiers de Civilisation Médiévale» I/2 (1958), p. 169, n. 78]; «Toutefois on peut inférer... qu’une telle pratique était répandue dès le début du XIe siècle» (H. Jacomet, «Vovere in pera et baculo» cit., p. 518, n. 135). Altri studiosi, meravigliati dell’omogeneità che offre la tradizione manoscritta relativa a questo cerimoniale, vanno più lontano, arrivando a retrodatarne sensibilmente l’origine (F. Garrisson, À propos des pèlerins et de leur condition juridique, in Études d’histoire du droit canonique dédiées à Gabriel Le Bras, II, Paris 1965, p. 1173).

Qualche studioso ha voluto vedere un primo timido segno di questa pia pratica in ambito monastico, all’interno della Messa «pro iter agentibus» del Sacramentarium Gelasianum primitivo, seguito dal Gregorianum. Nel Supplementum Anianense, florilegio di testi destinato a completare il Sacramentario approntato sotto Adriano I (772-795), la Messa in questione è inserita tra le «orationes pro fratribus in via dirigentibus», quelle «pro redeuntibus de itinere» e la «missa pro navigantibus», tutte redatte nell’abbazia di Aniane [Hérault, Francia] intorno all’810-815. Molte formule ivi contenute sono state riprese in seguito, senza modifiche, nel rituale di benedizione delle bisacce e dei bordoni, benché nel frattempo sia andato perduto ogni parallelismo con la vita cenobitica (ibid., pp. 518-519, n. 136); pertanto si è potuto stabilire che «l’institution d’un semblable rituel devait au souci de discipline caractéristique de l’administration ecclésiale carolingienne» ( H. Jacomet, «Vovere in pera et baculo» cit., p. 527). Si assiste, in questo passaggio, anche un voler porre l’accento più che sulla persona – com’era nelle orazioni monastiche – sui signa propri del pio viandante, che ne esaltano la sua condizione transitoria (si passa, ad es., da un Ordo ad benedice[ndum] pereg[rinum], attestato nella Provincia ecclesiastica di Reims alla fine dell’XI sec. in ambito benedettino, a una Benedictio peræ et baculi peregrinantium, come si osserva nel Pontificale Romano del XII sec. o ancora, più semplicemente, una Benedictio perarum et baculorum, del coevo rituale austriaco di S. Floriano). Attraverso i signa peregrinationis gli effetti della benedizione si trasmettono al corpo, di cui sono sostegno, e quindi all’anima (ibid., pp. 519-521 e n. 148).

Tra i formulari più antichi recanti la benedizione di bisacce e bordoni citiamo quello contenuto nel Pontificale romano-germanico, elaborato a Magonza [Rheinland-Pfalz, Germania] tra il 950 e il 960, nello scriptorium del monastero di S. Albano, a lungo ritenuto il più antico tra quelli pervenutici: «Benediccio super capsellas et fustes et super eos qui cum his limina ac suffragia sanctorum apostolorum petituri sunt – Accipite has capsellas et has fustes et pergite ad limina apostolorum in nomine Patris et filii et spiritus sancti, ut per intercessionem beatæ Dei genitricis Mariæ et omnium apostolorum atque omnium sanctorum mereamini in hoc sæculo accipere remissionem omnium peccatorum et in futuro consorcium omnium beatorum» (ibid., pp. 520-521 e n. 148, 543; vd. anche C. Vogel, loc. cit., p. 93). Tuttavia, più approfondite ricerche hanno portato alla luce un formulario di benedizione ancora più antico, contenuto nel sacramentario gelasiano franco conosciuto come Liber Sacramentorum Gellonensis (812-821 ca.). Questo il testo per la benedizione della bisaccia: «In nomine domini nostri Iesu Christi accipe hanc sportam ad <h>abitum peregrinacionis tue, ut bene castigatus et bene saluatus adque emen<d>atus peruenire merearis ad limina beatorum Petri et Pauli aliorumque sanctorum quo pergere cupis, et peracto itinere tuo, si permis<s>um a deo tibi fuerit, a<d> nos incolomis redire merearis. Qui cum patre…»; e per il bordone: «Accipe et <h>unc baculum itineris tui ac laboris <in> viam peregrinacionis tue, ut deuincere ualeas omnes katervas inimici et insidias eius, et pervenire securus ad limina beatorum apostolorum Petri et Pauli et aliorum sanctorum, vel ubiqumque pergere cupis, ut peracto obediencie cursu, si tibi a deo permis<s>um est, ad nos revertaris in gaudio. AMEN. Per dominum… » (H. Jacomet, «Vovere in pera et baculo» cit., pp. 522-528, 543). Questa formulazione si è via via diffusa nell’area mediterranea: dalla Provenza alla Catalogna (Vich, Roda), dall’Aragona alla Galizia, fino ad approdare a Roma, benché sotto una forma abbreviata, spiegata dalla volontà del papa Gregorio VII (1073-1085) di eliminare dai libri liturgici le sedimentazioni di origine monastica e tornare quanto più possibile alla tradizione più propriamente romana, tanto che nel Pontificale Romano del XII sec. arriviamo a una formulazione della Benedictio peræ et baculi peregrinantium tutt’altro differente: «te humiliter invocamus, clementissime Domine, quatenus sanctificando benedicere atque benedicendo hanc peram digneris sanctificare, ut quicumque eam, pro tui nominis amore, instar humilis armaturæ, lateri suo applicare»; e al momento della consegna della bisaccia si aggiunge significativamente: «Sit tibi iugum Christi mansuetum et leve» (ibid., pp. 528-529 e n. 178). Ritroviamo le vecchie formulazioni di area franco-ispanica, concepite intorno all’anno Mille, nei benedizionali adoperati nel pellegrinaggio in Galizia. Questa la formula di benedizione per la bisaccia [sermone Veneranda dies del Codex calixtinus (I,17)]: «Accipe hanc peram habitum peregrinationis tuæ ut bene castigatus et emendatus pervenire merearis ad limina sancti Iacobi, quo pergere cupis, et peracto itinere tuo ad nos incolumis con gaudio revertaris, ipso præstante qui vivit et regnat Deus in omnia sæcula sæculorum» (Il Codice callistino cit., p. 218); e del bastone:«Accipe hunc baculum, sustentacionem itineris ac laboris ad viam peregrinationis tuæ ut devincere valeas omnes catervas inimici et pervenire securus ad limina sancti Iacobi et peracto cursu tuo ad nos revertaris cum gaudio, ipso annuente qui vivit et regnat Deus in omnia sæcula sæculorum». Ciò che è certo è che bisaccia e bordone si sono imposti sulla scena liturgica due secoli prima che essi approdassero nel campo figurativo (H. Jacomet, «Vovere in pera et baculo» cit., p. 528; C. Vogel, loc. cit., pp. 86 ss.; J. Sumption, op. cit., p. 217-221).

[43] Nell’equipaggiamento del pellegrino una certa importanza era rappresentata dalle scarpe, benché l’iconografia ci rappresenti spesso pellegrini a piedi nudi, evidentemente per accentuare il carattere penitenziale del viaggio ovvero perché le calzature avranno reso i piedi malconci o anche, come spesso si riscontra nelle civiltà contadine, per puro risparmio ( G. Cherubini, Santiago di Compostella cit., p. 176). La letteratura odeporica ci riporta poi tutta una serie di raccomandazioni circa il modo di scegliere le proprie calzature ovvero sui rimedi per riportare i propri piedi alla completa funzionalità in caso di problemi (vd. in proposito i precetti sciorinati dal bergamasco Guglielmo Grataroli in A. Maczak, Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna, Roma-Bari 1994, p. 163).

[44] Entrambi i figli di Zebedeo, pescatore di Betsaida Iulia, e di Salome, Giacomo e Giovanni, furono chiamati dal Cristo «Boanèrghes» [Βοανηργές], che in Aramaico significa appunto «figli del tuono», a motivo del loro carattere ardente (cfr. Mc 3,17).

[45] Questo tipo di messaggio è spesso riportato nel Codex calixtinus (II,1-22, in partic. 5-6), in cui vi è tutta una pluralità di miracoli operati da S. Giacomo, in soccorso di pellegrini derubati da osti disonesti, aggrediti da briganti o dal diavolo in persona [Il Codice callistino cit., pp. 341-377, specialm. pp. 351-354; vd. anche il sermone Veneranda dies del papa Callisto II (1119-1124), (ibid. I,17, pp. 228 ss.), tenuto il 30 dicembre di un anno non meglio specificato, in ricordo dell’antica festa del martirio dell’apostolo Giacomo – il «giorno venerando» –, poi spostata al 25 luglio].

[46] Una delle prime testimonianze iconografiche del pellegrinaggio al Gargano – forse unica specifica di questo tipo –, datata al XIV sec., è presente nella chiesa rupestre della Madonna del Parto a Sutri (Viterbo), località posta lungo la direttrice che da Roma portava a sud. Vi appaiono alcuni pellegrini che, preceduti da presbiteri recanti croci e candelieri, si inerpicano lungo le balze del monte. Vestono abiti pesanti adatti a climi freddi, calzano scarpe robuste e sono avvolti da sciarpe che fermano i copricapi a falda larga, mentre si sostengono a corti bastoni col doppio nodo. L’assenza di zucche o altri recipienti potrebbe stare a significare la loro provenienza da aree limitrofe. Raffigurati anche i committenti: un uono e una donna inginocchiati e un giovane in piedi (P. Belli D’Elia, loc. cit., p. 470, 471).

[47] L’uso sembra derivi da una leggenda medievale, assai nota in tutta l’Europa medievale – “il pellegrino, la forca e il gallo” – , originata da un simile prodigio narrato nel Codex calixtinus (II, 5): «Il pellegrino impiccato, che san Giacomo salvò dalla morte dopo essere rimasto sospeso per trentasei giorni» (Il Codice callistino cit., pp. 351-353), collocato nella città di Tolosa, che la pietà popolare trasportò a Santo Domingo de la Calzada [La Rioja], sul Cammino di Santiago: un pellegrino ingiustamente condannato per furto e impiccato, rimase illeso. Il giudice che lo aveva condannato, incredulo, si disse pronto a liberarlo se il pollo che stava mangiando fosse tornato in vita, cosa che, per intercessione del Santo anacoreta Domenico, avvenne puntualmente, sicché il pollo si riempì di piume. Da quel giorno molti pellegrini iniziarono a portare in cima ai loro bordoni piume di gallo tinte (cfr. L. Martínez García, op. cit., pp. 40-41; vd. anche F. Nasuti, loc. cit., pp. 297-298; sulle diverse versioni di questo miracolo vd. L. Vázquez De Parga, J.M. Lacarra, J. Uría Ríu, op. cit., I,  pp. 575-586).

[48] L’uso dei ramoscelli di pino potrebbe risalire alla leggenda, riportata da fra Bartolomeo da Pisa (Conformitates: fructus XXI : «Analecta franciscana» IV), secondo cui fu S. Francesco, pellegrino al Gargano, a staccarne uno per farne un baculum, che avrebbe poi piantato nel suo convento di Siena, che in una notte si tramutò «in arborem pulcherrimam» e del cui legno i frati si servivano per confezionare piccole croci distribuite ai devoti ( M. Vocino, Pellegrini all’Arcangelo, in «Rassegna pugliese», 1912-1913, pp. 437-451; F. Nasuti, loc. cit., pp. 297-298; cfr. anche G. Tancredi, Montesantangelo monumentale, Monte Sant’Angelo 1932, p. 75; Id., Folklore garganico, Manfredonia 1940, pp. 29-30; C. Angelillis, op. cit., I., p. 21; II, pp. 56-57). Per il Gregorovius invece (In Puglia, Lecce 2002, p. 59), l’uso del ramoscello di pino era già noto ai tempi dell’imperatore Ottone III (996-1002).

[49] Questo tipo di bastone era solitamente ornato in cima da altri simboli più propriamente garganici, quali i ciuffi di foglie di pino silvestre (cfr. C. Angelillis, op. cit., I, p. 21; vd. anche ibid., II, p. 167, vd. anche p. 59 per i «bastoni con crocette» fabbricati dai pellegrini coi rami degli alberi – soprattutto pini ed elci – del c.d. «boschetto»).

[50] Città di Larino, guida edita dal Comune di Larino, Termoli 2008, p. 61.

[51] Così infatti Dante, sui pellegrini di Terra Santa (Purg. XXXIII, 76-78): «voglio, anco, e se non scritto, almen dipinto, | che ’l te ne porti dentro a te per quello | che si reca il bordon di palma cinto».

[52] Si può ipotizzare che il simulacro ligneo venne commissionato al tempo dell’episcopato di mons. Pianetti (1706-1725), in occasione dell’erezione della Cappella che sostituì la grande basilica medievale a tre navate, demolita in quel frangente perché pericolante.

[53] G.A. Tria, Memorie Storiche Civili, ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino... , Roma 1744, rist. Isernia 1989; l’illustrazione è presentata tra le pp. 742 e 743 (tra le pp. 622 e 623 dell’ed. del 1744).

[54] Ibid., I,20 e I,15 nelle due lezioni considerate.

[55] Parte della città antica occupava quell’area dell’abitato ora denominata Pian S. Leonardo, che deve il nome a una chiesa ivi esistente dedicata a S. Leonardo confessore [di Noblac o di Limoges (od. Saint-Léonard-de-Noblat, Haute-Vienne, Francia)], vissuto forse nel VI sec., il cui culto si diffuse nel Meridione d’Italia portato dai Normanni di Sicilia e lungo le vie di pellegrinaggio al Santo Sepolcro (AA.SS. Nov. III, pp. 139-209) [per la chiesa larinese cfr. G.A. Tria, op. cit., p. 369; G. e A. Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003, p. 186; A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986, p. 94; per le ipotesi di ubicazione vd. N. Stelluti, Larino Piano San Leonardo Tufo & C., in  «Almanacco del Molise 1992», II, Campobasso 1992, pp. 123-144, in partic. pp. 124-125]. Si tratta dello stesso Santo venerato nella nota chiesa di Siponto (secc. XI-XII, fondata prima del 1127 ed affidata ai Canonici regolari di S. Agostino provenienti dal monastero di S. Leonardo presso Limoges, passata nel 1260 ai Cavalieri Teutonici dell’Ospedale di S. Maria di Gerusalemme (della sede pugliese di S. Tommaso di Barletta), data in commenda da Sisto IV nel 1484 e fino al 1788, poi soppressa da Gioacchino Murat nel 1809; nelle sue adiacenze era situata una domus hospitalis, eretta «ad susceptionem pauperum», dove usavano fare sosta i pellegrini diretti al Santuario di S. Michele o in Terra Santa ovvero quelli che vi ritornavano, dopo lo sbarco a Siponto o la sosta a Barletta [M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano cit., pp. 56-72; S. Mola, La chiesa di San Leonardo in Lama Volara, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino cit., pp. 130-137; M.T. Masullo Fuiano, “La Via dell’Angelo” ovvero la Via Francesca o Via Sacra Langobardorum e la Via Francigena o Via Troia-Siponto, in Itinerari in Puglia tra arte e spiritualità, Roma 2000, p. 80; vd. anche N. Stelluti, loc. cit., pp. 124-125; G. Piemontese, Il Gargano. I luoghi e i segni dell’immaginario, Foggia 1997, p. 21; Id., I Longobardi: arte e religione lungo le vie del pellegrinaggio micaelico, Monte Sant’Angelo 2000, pp. 100-101; P. Corsi, Il “Pellegrino al Gargano” rivisitato, in P. Corsi (ed.), Pellegrinaggi pellegrini e santuari sul Gargano, San Marco in Lamis 1999, pp. 16-17; R. Infante, I cammini dell’angelo nella Daunia tardoantica e medievale, Bari 2009, pp. 41, 44]. Risulta abbastanza chiaramente che questo elemento evidenzia la diffusione di un culto lungo la Via Litoranea, rafforzando il legame con la città dauna. D’altronde sappiamo che una chiesa dedicata a S. Leonardo venne pure edificata nel XII sec. nel castrum Fogie (od. Foggia) – nel frattempo divenuto un importante snodo stradale per pellegrini, mercanti e mandrie transumanti –, molto probabilmente voluta dagli stessi Canonici di S. Agostino, presenti nell’omonima chiesa di Siponto, proprio per offrire protezione ai pellegrini diretti al Santuario di S. Michele (P. Corsi, loc. cit., p. 16; R. Infante, op. cit., p. 44 e n. 143).

[56] cfr. V. Saxer, Santi e culto dei santi nei martirologi, Spoleto 2001, pp. 88-89, 93 ss., 147, 149, 176 ss., per i casi rispettivamente del martire Vittorino, giustiziato ad Amiternum [presso od. S. Vittorino, L’Aquila], in prossimità della Via Salaria – cioè su un percorso ad limina Apostolorum –, le cui vicende [Passio SS. Eutychetis, Victorini et Maronis (BHL, pp. 6064-6065)] si collegano alle romane Gesta SS. Nerei et Achillei (BHL, pp. 6058-6066; MH Comm., pp. 248-249, 285-286), deposti sulla Via Ardeatina; per quello dei martiri ostiensi Ciriaco, Largo, Smaragdo, Crescenziano, Mammia e Giulianeto sull’omonima Via [Passio sancti Cyriaci et sociorum (BHL, p. 2056)]; per quello dei martiri Giovanni e Festo (AA.SS. Nov. II/1, p. 155; Ibid. II/2, pp. 658-659 e n. 8), il cui culto si diffuse da Roma alla Tuscia e all’Umbria lungo la Via Flaminia; stesso discorso per il caso del martire Valentino, lungo lo stesso itinerario, da Roma, dov’era la sua tomba [«via Flaminea… primo miliario» (Notitia portarum)], fino a Terni [«Interamnæ ( = Terni), via Flaminia LXIIII miliario, natale Valentini» (MH)], dove difatti pare abbia svolto il suo ministero episcopale, ma che a Roma andò incontro al carnefice; per quest’ultimo caso vd. anche S. Carletti, Le antiche chiese dei martiri romani, Roma 1972, pp. 11-15; P. Testini, Archeologia Cristiana, Bari 19802, pp. 264-265; secondo il p. A. Amore (I Martiri di Roma, Roma 1975, pp. 14 ss.), in realtà il martire non sarebbe mai esistito; di diverso parere sulla figura del santo: E. Josi, in EC ad vocem, XII, Città del Vaticano 1954, coll. 976 ss.; per approfondimenti a livello archeologico vd. O. Marucchi, Il cimitero e la basilica di S. Valentino, Roma 1890.

[57] Cfr. P. Testini, op. cit., pp. 134-135.

[58] Rationes decimarum Italiæ nei secoli XIII e XIV. Apulia, Lucania, Calabria, a cura di D. Vendola, in «Studi e Testi», 84, Città del Vaticano 1939, rist. anast. Roma 1970, p. 14, n. 167; S. Moffa, Martiri del Molise delle primitive comunità cristiane, in «Almanacco del Molise 1989», II, Campobasso 1989, p. 113; G. Mammarella, Larino Sacra. La diocesi, la genesi della cattedrale, i SS. Martiri Larinesi, II, San Severo 2000, pp. 90-91; Id., I Santi Martiri Larinesi, Termoli 2001, p. 31). Difatti sappiamo che questa località pugliese era spesso scelta per il pernottamento durante il pellegrinaggio al Gargano dalle «compagnie» dell’attuale Basso-Molise. Altrove ho ipotizzato che questo luogo di culto avesse relazione con la primitiva sepoltura dei Martiri Larinesi, identificabile in una necopoli del suburbio di Lucera, prossima alla strada che menava a Torremaggiore.

[59] L’antica strada attraversava i centri di Pietrelcina, S. Giorgio la Molara, Molinara, Foiano di Val Fortore, Baselice, S. Bartolomeo in Galdo, Volturara Appula – località tutte servite da hospitales –, per collegarsi quindi con un’altra direttrice più orientale. Una deviazione portava a Castelnuovo della Daunia, Torremaggiore, S. Severo e di qui si immetteva nelle strade di cui già si è trattato (cfr. G. Alvisi, La viabilità romana della Daunia, Bari 1970, p. 88; R. De Iulio, L. Ciambrone, Itinerari di pellegrinaggio tra il Sannio e il Gargano, in Itinerari in Puglia cit., p. 72).

[60] Cfr. V. Ferrara, La Diocesi di Trivento. (Periodo delle origini), Penne 1990, pp. 399, 444; G. Mammarella, I Santi Martiri cit., p. 29; Id., Da vicino e da lontano, II, Larino, 2009, pp. 127-128. Il monastero venne fondato nel 1156 dall'eremita Giovanni da Tufara a poca distanza dalla chiesetta di S. Firmiano, dove in seguito si trasferì con la sua comunità, e rovinò a causa di un sisma nel 1450. La chiesa di Foiano, eretta accanto a una «casa, donata dal conte Odoaldo nel 1153 al beato Giovanni da Tufara per i suoi seguaci», sorgeva nei pressi di un casale, di cui si conservano «il nome e qualche avanzo», anch’esso denominato “di S. Firmiano” (S. Moffa, art. cit., p. 113).

[61] Così il bollandista p. de Gaiffier (Pellegrinaggi e culto dei Santi: Réflexions sur le thème du Congrès, in Pellegrinaggi e culto dei Santi cit., p. 35): «souvent le culte des saints à été propagé par les pèlerins. Bien des cultes ont cessé d’être locaux, parce que les pèlerins les ont fait connaître en rentrant dans leur patrie».Sulla consuetudine di erigere edifici di culto nelle località di origine, dedicati ai Santi visitati nel pellegrinaggio, vd. J. Chélini, Le vie di Dio. Storia dei pellegrinaggi cristiani dalle origini al Medioevo, Milano 2004, p. 168; G. Cherubini, op. cit., p. 227, per i culti galiziani e castigliani – la martire gallega Marina, S. Domenico della Calzada, S. Giovanni di Ortega, la Madonna di Villasirga, S. Zoilo di Carrión, S. Isidoro di León, S. Salvatore di Oviedo – diffussisi nei Paesi Baschi e in altre regioni di Spagna.

[62] Cfr. G. Piemontese, I Longobardi cit., pp. 71, 74.

[63] Cfr. M.S. Calò Mariani (ed.), Due cattedrali del Molise. Termoli e Larino, Roma 1979, p. 58.

[64] La data dell’8 maggio prese piede soprattutto a partire dal IX sec., diffondendosi notevolmente negli ambienti popolari (cfr. G. Otranto, C. Carletti, Il Santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano dalle origini al X secolo, Bari 1990, rist. Bari-Monte Sant’Angelo 1995, pp. 40-41).

[65] L’odierna Vasto [prov. Chieti].

[66] È attestato al 765 il passaggio per Larino del monaco Magdalveo, vescovo di Verdun [Meuse, Francia], il quale, provenendo dalla Gallia, dopo aver visitato Roma, si diresse al Santuario garganico di S. Michele attraversando il territorio del basso Lazio e del Molise; nelle campagne di Larino si immise quindi sulla Via Litoranea, che lo avrebbe condotto colà (Vita sancti Magdalvei episcopi : AA.SS. Oct. II, pp. 499-544; cfr. I. Aulisa, S. Bettocchi, Vie di pellegrinaggio al Gargano, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino cit., p. 112).

[67] Località posta a circa 10 km a nord di San Severo, in prossimità del fiume Candelaro, dov’era il Casale di S. Eleuterio.

[68] Poteva capitare anche che a ridosso degli ospedali per pellegrini sorgessero piccoli insediamenti abitativi, come nel caso, ad es., dell’Hospital de Órbigo, ad est di Astorga [Castilla y León, Spagna], sul Cammino di Santiago, passato anch’esso agli Ospedalieri di S. Giovanni (1184) [J. Passini, El Camino de Santiago. Itinerario y núcleos de población, Madrid 1993, p. 148]; così come avvenne in altri casi per altri ospedali più piccoli (J.I. Ruiz de La Peña Solar, Dos fondaciones hospitalarias medievales en el itinerario astur-galiciano del camino de Santiago: Fonfría y Montouto, in Actas del Congreso de Estudios Jacobeos, Santiago de Compostela 1995, p. 640; vd.G. Cherubini, Santiago di Compostella cit., pp. 155-156 per altri riferimenti). D’altronde sappiamo che nei pressi del monastero benedettino «di S. Primiano» esisteva un omonimo casale, menzionato in una «bolla di Papa Alessandro VI del 1509» [ma 19 novembre 1409 (!)], a proposito di una controversia tra il vescovo Pietro (1401-1410) e l’Ospedale di Barulo [od. Barletta] sulla giurisdizione su di esso (G. e A. Magliano, Larino cit., pp. 227, 422; A. Magliano, Brevi Cenni cit., p. 98; per il vescovo vd. G. Mammarella, Larino sacra. Cronotassi, iconografia ed araldica dell’Episcopato larinese, I, Campobasso 1993, p. 28). Secondo il Priori (La Frentania, II, Lanciano 1959, rist. anast. Lanciano 1980, p. 349, n. 72) l’ospedale barlettano in questione faceva capo al «priorato dei cavalieri del sacro militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme». Tuttavia mi pare più probabile che si trattasse dei Cavalieri Teutonici dell’Ospedale di S. Maria di Gerusalemme, i quali avevano fondato a Barletta l’Ospedale di S. Tommaso, loro casa principale e che tra l’altro controllavano, sin dal 1261, il compesso di S. Leonardo di Siponto, strategico per il pellegrinaggio al Gargano. Riguardo al Pontefice, come ben ha osservato il Masciotta (Il Molise dalle origini ai nostri giorni. Il Circondario di Larino, IV, Cava dei Tirreni 1952, rist. Campobasso 1985, p. 160) trattasi in verità di Alessandro V (1409-1410), antipapa di obbedienza pisana durante il Grande Scisma d’Occidente. Registriamo come la presenza di piccoli insediamenti abitativi nei pressi di un cimitero cristiano non fosse cosa del tutto infrequente: ad es., nel suburbio romano, tra il XVIII e il XIX miglio della Via Tiburtina, si è a conoscenza dell’esistenza di un agglomerato di case, conosciuto come «plebs sancti Vincentii», sorto nei dintorni di una piccola basilica di V-VI sec., venuta alla luce solo nel 1926, intitolata a un non meglio identificato martire Vincenzo, il cui nucleo originario è da riconoscere in una cella tricòra. Sono emersi anche frammenti epigrafici relativi a un cimitero cristiano di IV-V sec., sorto intorno al sepolcro del martire; caso quindi del tutto analogo al nostro (A. Amore, I Martiri di Roma cit., pp. 105-106). Il casale di S. Primiano andò probabilmente in rovina a causa del terremoto del 4-5 dicembre1456, che provocò a Larino la morte di 1.313 persone (G.A. Tria, Memorie Storiche cit., p. 250), per cui gli abitanti si trasferirono altrove (ibid.). Il documento mi sembra interessante in funzione del legame che potrebbe celarsi tra i Cavalieri Teutonici che controllavano il complesso abbaziale di S. Leonardo di Siponto e la chiesa larinese dedicata allo stesso Santo limosino, ubicata nei pressi del casale di S. Primiano.

[69] Per limitarci alla cosiddetta Via Sacra Langobardorum, vi erano insediamenti benedettini a Ripalta, S. Maria di Stignano (Cistercensi), S. Giovanni de Lama [ora S. Matteo] (Benedettini, poi Cistercensi, infine Francescani), S. Marco in Lamis, S. Egidio [G. Piemontese, I Longobardi cit., pp. 74 ss.; sull’argomento assai esaustivo M.S. Calò Mariani (ed.), Insediamenti benedettini in Puglia. Per una storia dell’arte dall’XI al XVIII secolo, 2 voll., Galatina 1981].

[70] Nel giorno di domenica era celebrata per i pellegrini la Messa, quasi sempre in una cappella compresa nello spedale ovvero in una chiesa collegata o vicina. Era difatti molto diffusa la tipologia edilizia dell’opsedale a sala, simile a una chiesa, che permetteva al contempo di posizionare i letti lungo le due pareti longitudinali, mentre in quella prospiciente era posizionato l’altare, sì da renderlo visibile a tutti ( I. Moretti, Linee di indagine per lo studio dell’architettura ospedaliera nel Medioevo, in I templari: mito e storia, Siena 1989, pp. 218-219; vd. anche G. Cherubini, op. cit., p. 157 ss.).

[71] Nei monasteri non mancavano conoscenze mediche e farmacologiche (cfr. J.C. Dousset, Storia dei medicamenti e dei farmaci. Dalle origini ai nostri giorni, Genova 1989, pp. 87-92; J. Agrimi, C. Crisciani, Malattia, medico e medicina nel Medioevo, Torino 1980, pp. 115-120). D’altronde sappiamo che nell’anno 900 il nostro monastero «di S. Primiano» disponeva di una biblioteca costituita di codici di opere mediche: «Medicinale tres, Galienum, aforismum et Genicia et Asclepium et glosa una» [U. Pietrantonio, I Benedettini nella diocesi di Larino, in «Archivio Storico Molisano» IV/V (1980-1981), p. 153; vd. anche  M. Inguanez, Catalogi Codicum Casiniensium Antiqui, sæc. VIII-XV, Montis Casini 1941; D. Priori, Badie e conventi benedettini d’Abruzzo e Molise, II, Lanciano 1951, p. 38].

[72] Cfr. J. Chélini, op. cit., p. 110; si menziona il caso dei canonici di San Martino di Tours [Indre-et-Loire, Francia], agli inizi del IX sec., parte dei quali salmodiavano presso la tomba del Santo tributandogli una laus perennis, mentre altri accoglievano i pellegrini e distribuivano loro le brandea, che erano già state poste presso la tomba venerata.

[73] Carrese di San Pardo  I,32-33 (versione seconda).
 

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Commenti: 3
  • #1

    Annibale (mercoledì, 22 luglio 2015 20:57)


    Molto interessante. Tolga un po' di note a fondo pagina. Forse era meglio farne un pdf e pubblicarlo altrove. Comunque il tutto è molto accurato. Complimenti.

  • #2

    pinomiscione (domenica, 26 luglio 2015 02:48)


    In verità questo saggio non è stato scritto per il sito, ma non ho ancora trovato il tempo per "sciogliere" le molte note a piè di pagina all'interno del testo. Comunque grazie per l'apprezzamento.

  • #3

    Costantino (lunedì, 03 agosto 2015)


    Molto bello il disegno del Santo Pellegrino, come lo ha ricostruito lei, che mi pare proprio molto simile al San Primiano nostro. Devo dire che questo accostamento col pellegrinaggio al Santuario di San michele sul Gargano è molto suggestivo e molto interessante. Certamente ci sono dei presupposti oggettivi che consentono questo accostamento. L'analogia col palio di San Primiano è indubbia, specialmente se consideriamo il modo in cui questo Santo regge il bastone da pellegrino.

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