La lapide: IN PACE CHRISTI

LAPIDI CRISTIANE

Basilica di S. Lorenzo f.l.m.

Roma

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i una lapide menzionante i Martiri Larinesi ci riferisce per la prima volta lerudito abruzzese Giovanni Battista Pollidoro, riportando quanto scritto in un antico codice del XII secolo circa, conservato nell’Archivio Storico Vescovile di Larino, andato nel frattempo disperso:

 
 

Sequens præterea recitatur pervetustum Epitaphium, quod primario insculptum fuit Sanctorum Martyrum tumulo, nec uno nomine Ecclesiasticam antiquitatem, & simplicitatem redolet.+ in pace · christi · | locus · primiani · firmiani· | et casti · m(artyru)m · qui · passi · sunt · | sub · diocletiano. [1]

 

Assai semplice, come tutte le iscrizioni eortologiche (da εορτή = festa, commemorazione) – la Chiesa dovette certamente dare delle precise direttive in proposito –, di essa poco si è detto, anche perché non più esistente; perciò restiamo in attesa di sapere qualcosa di più scientifico da un epigrafista, giacché di capitale importanza per la certificazione del culto reso ai Martiri (F. Grossi Gondi, Trattato di epigrafia cristiana latina e greca, pp. 358-364).

 

Per intanto rileviamo che le dizioni «in pace Christi» e «locus» – coi corrispettivi greci «ε̉ν ε̉ιρήννη̣» e «τόπος» – sono tipiche dell’epigrafia cristiana dei primi secoli, ricorrendo in innumerevoli esempi e varianti. Il manuale classico del Grossi Gondi (op. cit., p. 223) riporta i casi più noti in cui compare la dizione in pace christi, presente nella nostra iscrizione funeraria.

 

 
 

  

   L’augurio di «pace», già comune nella Sacra Scrittura e di uso assai frequente anche nella liturgia, non attiene solo all’incolumità della sepoltura, come volevano le iscrizioni pagane, con la formula pax tecvm aeterna, riferita soprattutto alla tomba (domus æternalis), o con l’acclamazione ε̉̉υψύχει, ma riguarda la felicità celeste, di cui il defunto diveniva pienamente partecipe.

 

L’espressione in pace ritorna migliaia di volte nelle epigrafi sepolcrali cristiane, ed è ogni volta una professione di fede: nella pace di Cristo, nell’unione con Dio in cui l’anima è compenetrata, in una vita vera e reale, ma che per un cristiano principia già su questa terra.

 

È presa dall’epigrafia giudaica ed è adoperata per ricordare i morti di qualsiasi età e talvolta diretta anche ai vivi; sicché è possibile leggere sulle tazze che servivano nelle agapi vivas in pace dei. Tuttavia ricorre assai più frequentemente per ricordare i defunti, augurando loro la pace eterna, come nella formula pax tecvm, te cvm pace, te in pace, ε̉ιρήνη σοι, dormias in pace, ovvero per affermarne la beatitudine: vivis in pace, dormis in pace, te scimvs in pace, eν ιρηνη (O. Marucchi, Manuale di Archeologia Cristiana, pp. 212-213; F. Grossi Gondi, op. cit., pp. 222-226; P. Testini, Archeologia Cristiana, pp. 405-406; 409-411).

 

 
 

 

Sono diverse le varianti che si rifanno alla formula presente nella nostra iscrizione: in pace domini, in pace et in nomine christi, in pace dei, in pace aeterna, pax cvm angelis, pax vobis in deo, ε̉ιρήνη ε̉ν Θεω̣̃,  ε̉ιρήνη  ε̉ν Κυρίω, in agape (ILCV 2723 ss.), ε̉ν  α̉γάπη, ει̉ς α̉γάπην e per l’appunto in pace christi – ovvero in pace xpi e l’equivalente col monogramma di Cristo in pace, con la versione greca ε̉ν ε̉ιρήνη e le abbreviazioni  in p, in pc, ei (ε̉ν ε̉ιρήνη), en eip , che si ritrovano in tante altre iscrizioni funerarie cristiane (ibid.; vd. anche Nuovo Bull. 1903, p. 56).

 

Esistono poi le varianti in pace dormias (ILCV 2288), semper vive in pace (ILCV 2291), semper in pace gavde (ILCV 2292), vivas in pace dei (ILCV 2212). Ci si riferisce talvolta ad una vita beata: in pace et paradis» (ILCV 2722), in pace et in refrigerivm (ILCV 2722), come a voler porre in risalto un’esistenza nella luce di Dio in contrapposizione a quella nelle tenebre su questa terra. Assai frequente torna l’espressione recessit in pace fidelis e vixit in pace fidelis.

 

Quando una lapide comincia con le parole «in pace», confermerà sempre che ci si trova davanti al sepolcro di un cristiano (L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, pp. 206 ss.).

 

“Pax” può talvolta significare anche l’unione con la Chiesa, e difatti un’iscrizione romana del 357 ci attesta che un certo Quintilianus fu sepolto in pace legitima (ICUR I,132), vale a dire seguendo gli insegnamenti del vescovo di Roma Liberio (352-366) e non dello scismatico Felice, ragion per cui l’espressione in questione esprime come il defunto sia morto in unione con la Chiesa legittimata da Cristo, ovvero – come appare in altre iscrizioni – che egli decessit in pace fidei catholicae; formulazione questa rispecchiata pure da tanti scrittori ecclesiastici antichi che adoperavano, per esprime analogo concetto, invariabilmente le parole pax e communio.

 

Così difatti Tertulliano [De præscr. hæret. 32]: «(scil. Hæretici) nec recipiuntur in pacem et communionem ab ecclesiis quomodocumque apostolicis»; Sant’Agostino, in una lettera indirizzata a Girolamo, certifica che un giovane era «catholica pace frater» (Inter Epist. Hieron. 131,2 : PL XXII, col. 1125)].

 

 
 

 

Ritroviamo, ad esempio, l’espressione in pace xpi in una commoventissima lapide fatta apporre dal padre Quintilianus a ricordo del figlio neofito Rufillus, morto a due anni, e in un’altra, sicuramente precostantiniana, di un bambino quasi decenne nvtricatvs deo cristo martyribvs, cioè consacrato a Dio e ai martiri – Lorenzo soprattutto –, secondo un uso menzionato da Prudenzio (Peristeph. II, 569-572 : PL LX, col. 330: «ceu præsto semper adsies | tuosque  alumnos urbicos | lactante conplexus sinu | paterno amore nutrias»), di cui si è conservato un ricordo nelle medaglie di devozione (O. Marucchi, op. cit., pp. 230, fig. B, 234 e n. 2; P. Testini, op. cit., pp. 393-394 e fig. 179); un’altra epigrafe, leggermente diversa, dice invece in pace et in nomine xpi.

 

L’espressione in pace torna in una iscrizione del tipo dogmatico, vale a dire in cui si esprime la fede nella divinità di Cristo, in questo caso rivolgendo la propria preghiera ai defunti; ed infatti essa si chiude con la frase in orationibvs tvis roges pro nobis, qvia scimvs te in christo (Diehl, 2350).

Già nel V secolo questa espressione troverà meno fortuna, sostituita da altre, del tipo hic iacet, bonae memoriae, ecc. (O. Marucchi, op. cit., pp. 212-213).

 

 
 

  

Talvolta l’espressione è accompagnata semplicemente dal “monogramma costantiniano” o chrismon ovvero dalla “croce gammata”, più raramente dalla “croce monogrammatica”, apparsa solo alla fine del IV secolo, o anche dal monogramma con le lettere escatologiche α e ω (O. Marucchi, op. cit., pp. 217-218; F. Grossi Gondi, op. cit., p. 221-225; P. Testini, op. cit., pp. 354-357).

 

Ma le epigrafi più antiche (I-II secolo), dette di tipo priscilliano, assai semplici, dipinte in rosso sopra i mattoni, riportano semplicemente l’immediata acclamazione della pace: così è il caso di pax tecum o semplicemente pax, talvolta espressa anche in lingua greca eν ιρηνη (O. Marucchi, op. cit., pp. 235-236; Id., Epigrafia cristiana, pp. 72-74; sull’argomento brevi cenni anche in V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma, p. 172).

 

 
 

  

   Per contro, registriamo l’annotazione del Marucchi, non condivisa da tutti gli studiosi della materia:

 

Sulle tombe dei martiri conosciuti non si sono mai trovate formule di preghiere per il riposo dell’anima, come ad es.: Refrigeret, pax tecum, ecc., così frequenti sulle tombe dei semplici fedeli; per un martire esse sarebbero state inutili e anche ingiuriose.[2]

 

 

Anche il signum crucis – una croce greca, secondo quanto riportato dal Pollidoro nell’edizione a stampa del 1741 –, comparso sulle lapidi cristiane solo nel IV-V secolo (O. Marucchi, Manuale di Archeologia cit., p. 217; P. Testini, op. cit., pp. 355-356), lascerebbe supporre che la nostra iscrizione possa essere stata incisa da un quadratarius (lapicida) in quell’epoca.

 

 
 

 

Il titolo liturgico di martyr – qui contratto al genitivo plurale in M(artyru)M – appare invece per la prima volta, sia abbreviato che nella scriptio plena, sugli epitaffi dei papi nel cimitero di San Callisto (236-253) e su quello di San Giacinto (258), già nel cimitero di Bassilla sulla Via Salaria vetus (F. Grossi Gondi, op. cit., pp. 163-167; P. Testini, op. cit., pp. 262, 382-383, 391-392, 481).

 

 
 

 

Nulla di particolarmente specifico, ai fini della datazione, ci dice invece il punto – tondo, stando al Pollidoro – che separava a mezza altezza le parole, come da retto stile. I due punti (:) che, stando all’edizione a stampa del Tria del 1744 (p. 624) – ripresa dalla ristampa del 1989 (p. 743) e da altri autori a noi contemporanei –, comparivano dopo la parola christi, mi sembrano in realtà frutto di un’errata lettura del testo del Pollidoro, probabilmente dovuta a un difetto tipografico, che peraltro si ripete alla fine del secondo rigo dell’iscrizione (sui vari segni di interpunzione – punto triangolare, tondo o quadrato, palmetta, fiore, foglia d’edera [hedera distinguens], freccia, lettere dell’alfabeto greco ecc. – vd. comunque O. Marucchi, Manuale di Archeologia cit., p. 212; F. Grossi Gondi, op. cit., pp. 46-48; P. Testini, op. cit., pp. 361-362).

 

Rileviamo inoltre che il testo del Pollidoro differisce da quello, seppur coevo, del Tria nell’uso del carattere onciale della lettera “u”, al posto della capitalev”, adoperata dal Vescovo storiografo nella sua edizione.

Del tutto errato appare invece il testo interamente centrato, così come risulta nella recente ristampa dell’opera del Tria, per i tipi di Cosmo Iannone Editore (Isernia 1989), ripreso da tutti gli autori successivi.

 

 
 

 

Il secondo rigo della nostra epigrafe cristiana inizia con la parola «locus». Si tratta di un  termine  assai  significativo,  in quanto  usato per segnalare inequivocabilmente una tomba, che ritroviamo spessissimo soprattutto negli anni 368-584 (O. Marucchi, op. cit., p. 121; F. Grossi Gondi, op. cit., p. 243).

 

Così abbiamo le epigrafi che ci raccontano dei loci comprati dai fossori, cioè dagli addetti allo scavo dei medesimi e al mantenimento dei cimiteri, che risalgono all’ultimo periodo delle catacombe [es.: constantivs et sosanna |sevivi locvm sibi emervnt | praesentis omnis fos|sores, dal cimitero di Commodilla (Mus. Lat. VI,26)]; quindi tutta una serie di loci riservati a presbiteri, titolari dei titoli urbani e dei cimiteri [locvs presbyteri basili titvli sabine, dal cimitero di San Paolo f.l.m.) nonché quello di qualche suddiacono [es.: locvs importvni svbdiac · reg · qvartae, dal cimitero di S. Agnese], per finire con un locus nella cripta di Damaso [locvs tri|sonvs vic|toris in crv|ta damasi, dalla Via Ardeatina] e qualcuno ancora con la professione del defunto, ben evidenziata sull’epigrafe [locvs fortinati | confectorarii, dal cimitero di Ciriaca (Mus. Lat. XII,21)].

 

 
 

 

Con questo termine (in gr. τόπος) si  voleva identificare il tipo di sepolcro di gran lunga più diffuso nel periodo paleocristiano – soprattutto nelle catacombe –, costituito da una cavità rettangolare col lato lungo a vista, dentro il quale il cadavere veniva deposto, senza cassa, avvolto in un lenzuolo, quindi sigillato con malta – nella quale spesso troviamo incassati i più svariati oggetti, forse ad uso mnemonico – e coperto con tegole, mattoni o con sottili lastre di marmo, sopra i quali si graffiva o si incideva – talvolta anche più modestamente sull’intonaco fresco – l’eventuale iscrizione.

 

Davanti al loculo ardeva regolarmente una lucernetta fittile, posata su piccole mense marmoree o fittili anch’esse, in analogia coi nostri lumini, simboleggiante la vittoria della luce sulle tenebre e sui demòni ovvero la luce eterna che illuminerà la sede del Paradiso (L. Hertling-E. Kirschbaum, op. cit., pp. 25-26; V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, op. cit., pp. 75 ss.; per approfondimenti sul tema vd. M. Raoss sub vocem Locus, in E. De Ruggiero, DizEp, IV, Roma 1964-1967, pp. 1460-1829).

 

 
 

 

Tutto ciò detto, appare difficile sostenere che la nostra lapide sia stata apposta solo al momento del trafugamento dei Santi Corpi (S. Moffa, Martiri del Molise…, p. 112; G. Mammarella, Larino sacra. La diocesi…, p. 68; Id., I Santi Martiri Larinesi, in Larino di maggio, pp. 39-40), e ancor meno plausibile che a farlo siano stati i Benedettini, già custodi dei medesimi (Id., I Santi Martiri Larinesi, Termoli, 2001, p. 19), tanto da farla apparire alquanto beffarda, con quell’augurio di «pace» celeste, a fronte di uno spostamento delle loro spoglie mortali da un plurisecolare luogo di culto ove avevano trovato il riposo; o addirittura mendace, visto che il termine locus era ovunque impiegato per connotare un sepolcro, soppiantato soltanto in seguito dal diminutivo loculus – da cui il nostro «loculo» –, entrato regolarmente nel linguaggio archeologico.

 

D’altra parte l’antico Codice letto dal Pollidoro parla esplicitamente di epitaffio che «primario insculptum fuit Sanctorum martyrum tumulo»; e il Tria, che certamente aveva avuto modo di leggerlo, lo definisce «antichissimo»[3]. Difatti pure il Magliano indirettamente conferma:

 

I corpi dei santi Primiano e Firmiano erano racchiusi (scil. al momento del trafugamento) in urna di marmo, sulla quale una iscrizione diceva che erano stati martirizzati sotto Diocleziano[4],

 

opinione, questa, condivisa anche dal Ricci (Fogli abbandonati cit., pp. 44, 68, 71), che non ha difficoltà a ritenerla incisa dai «Larinenses Cristiani» al momento della deposizione dei Santi Corpi [per inciso, faccio notare che, avendo il Ricci sostenuto la deposizione di Casto in un luogo discosto rispetto a quella degli altri due Martiri (ibid., pp. 40, 93), così da giustificare il mancato trafugamento dell’842, credo che proprio questa lapide, in cui il termine locus è riferito a tutti e tre i Santi, smentisca nettamente l’ipotesi stessa].

 

Per ultimo, credo vada confutato, almeno in questa occasione, quanto affermato dal Russi a proposito del rigore filologico piuttosto discutibile attribuito al Pollidoro:

 

è possibile che si tratti di una quelle opere di studiosi locali che l’abate di Fossacesia inventava per attribuire una paternità e, quindi una parvenza di genuinità alle tante iscrizioni, che falsificava per motivi campanilistici[5].

 

In questo caso, proprio la testimonianza del vescovo Tria, che ebbe anch’egli sott’occhi il Passionario in cui era riportato il testo dell’epigrafe funeraria, ci porta ad escludere la malafede del filologo abruzzese.

 

 

Considerati tutti questi elementi – la croce, la dizione «in pace», il termine «locus» – appare assai probabile che la nostra epigrafe sia stata collocata in situ al momento della sistemazione monumentale dell’area cimiteriale in cui erano collocate le tombe, vale a dire all’epoca dell’erezione della basilica cimiteriale di IV-V secolo.

 

In ultima analisi si può dire che l’epigrafe funeraria presa in esame, a meno che si possa dimostrare senza ombra di dubbio che si tratti di un madornale falso dautore, risulta essere d’importanza capitale per poter comprovare l’esistenza storica dei Santi Martiri Larinesi. Constatiamo tuttavia che di essa si è persa ogni traccia.

 

Malgrado ciò, possiamo concludere affermando che sì: Primiano, Firmiano e Casto subirono realmente il martirio sotto Diocleziano, ed ora riposano nella pace di Cristo.

 

 

 

Bibliografia:

 

Augustinus, Inter Epistolæ Hieronymi 131

V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma. Origini, sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica, Regensburg 20022

F. Grossi Gondi, Trattato di epigrafia cristiana latina e greca del mondo romano occidentale, Roma 1920

L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, Roma 1949, rist. anast. Roma 1996, trad. it. [Die römischen katacomben und ihre Martyrer, Wien 1950]

I.M. Iasiello, Samnium. Assetti e trasformazioni di una provincia dell’Italia tardoantica, Bari 2007

A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986

G. Mammarella, Larino Sacra. La diocesi, la genesi della cattedrale, i SS. Martiri Larinesi, II, San Severo 2000

G. Mammarella, I Santi Martiri Larinesi, a cura del Centro di Servizio per il Volontariato “Il Melograno” di Larino e della Chiesa dei SS. Martiri Larinesi in Larino, Termoli 2001

G. Mammarella, I Santi Martiri Larinesi, in Larino di maggio, Larino 2007, pp. 38-40

O. Marucchi, Epigrafia cristiana, Milano 1910

O. Marucchi, Manuale di Archeologia Cristiana, Roma 1908

S. Moffa, Martiri del Molise delle primitive comunità cristiane, in «Almanacco del Molise 1989», II, pp. 105-114

G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi Episcopi, et Confessoris in Cathedrali Templo Larinensi quiescentis…, Romæ 1741

M. Raoss, sub vocem Locus, in E. De Ruggiero, Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, IV, Roma 1964-1967, pp. 1460-1829

P. Ricci, Fogli abbandonati di storia larinese raccolti in continuazione del Tria, Larino 1913, rist. anast. Larino 1987

A. Russi, Teanum Apulum. Le iscrizioni e la storia del municipio, Roma 1976

Tertullianus, De præscriptione hæreticorum36 : PL II

P. Testini, Archeologia Cristiana, Bari 19802

G.A. Tria, Memorie Storiche, Civili ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino Metropoli degli Antichi Frentani …, Roma 1744, rist. Isernia 1989

 

 

 

 


[1] G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi Episcopi, et Confessoris in Cathedrali Templo Larinensi quiescentis…, Romæ 1741, p. 53 ((la trascrizione tra parentesi tonde e la divisione delle righe tramite sbarra sono aggiunte di chi scrive); vd. anche G.A. Tria, Memorie Storiche, Civili ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino Metropoli degli Antichi Frentani…, Roma 1744, rist. Isernia 1989, p. 743, che si rifà al precedente: «ne abbiamo il seguente antichissimo epitaffio, che fu ritrovato scolpito nella lapida del di loro tumolo…».

[2] O. Marucchi, op. cit., p. 130.

[3]  G.A. Tria, op. cit., p. 743. 

[4]  A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986, p. 29, n. 1.

    [5]  A. Russi, Teanum Apulum. Le iscrizioni e la storia del municipio, Roma 1976, p. 15; vd. anche I.M. Iasiello, Samnium. Assetti e trasformazioni di una provincia dell’Italia tardoantica, Bari 2007, p. 13, n. 27.

 

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