S. Pardo traslazione

La “traslazione” del corpo di San Pardo


PETRUS TERMULENSIS (?)

Ingresso

del corpo di S. Pardo in Larino

(fine XIV-inizio XV sec.)

About

 

a tradizione corrente che lega le figure dei Santi Martiri Larinesi Primiano, Firmiano e Casto a quella del Santo vescovo Pardo riporta che le reliquie dei primi vennero trafugate nell’842 – all’indomani della “distruzione” della città di Larino attuata dai Saraceni –, per mano di Lucerini trasferitisi a Lesina dopo un’analoga devastazione operata dall’imperatore  bizantino  Costante

 
 

II  nel 663, nel corso della sua spedizione contro i Longobardi nel Meridione d’Italia; ed anche il vescovo vi avrebbe trasferito la propria cattedra (G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi…, pp. 45, 48-50; G.A. Tria, Memorie Storiche… , pp. 744-745;).

 

 

Credo sia utile, per cominciare, ripercorrere brevemente le gesta del basileus bizantino e fornire le minime coordinate storiche che legano Lesina e Lucera, per meglio intendere gli eventi che più ci riguardano da vicino:

 

l’Imperatore era sbarcato a Taranto all’inizio del 663; da qui mosse col suo esercito verso l’interno, procedendo in un tracciato tortuoso. Assediò invano Acerenza [prov. Potenza], mentre riuscì a prendere Hordona, Æcæ, Luceria ed altri centri minori. Giunto sotto le mura di Benevento, retta dal giovane duca Romualdo (662-677), Costante cinse d’assedio la città. Romualdo chiese di venire a patti, dando in ostaggio la sorella Gisa, talché il basileus tolse l’assedio e si diresse a Napoli. Lungo il percorso venne aggredito dalle truppe del conte Mitola di Capua; poco dopo, a rompere la tregua, si ebbe uno scontro presso Forino [Avellino], quando ormai re Grimoaldo, padre del Duca beneventano, era giunto dal nord coi rinforzi sperati.

 

 
 

 

Da Napoli, il sovrano si diresse a Roma lungo la via Appia, scontrandosi col nemico nei pressi di Formia [Latina]. Il 5 luglio raggiunse Roma, dove si trattenne – ospite del papa Vitaliano – fino al 17; indi tornò a Napoli e scese a Reggio Calabria. Verso la fine dell’anno l’Imperatore attraversò lo stretto di Messina e si stabilì a Siracusa, dove cercò di organizzare un’efficace difesa contro gli Arabi. Qui, il 15 luglio o 15 settembre del 668, fu ucciso dal cortigiano Andrea, figlio di Troilo, mentre era immerso in una vasca nei bagni di Dafne. Il complotto è da ritenere ispirato dalla fazione armena filo-araba in seno alla corte [Paul. Diac., Hist. Lang. V,6-12 : MGH, Script. rer. Lang. et Ital. sæcc. VI-IX, pp. 146-150; Lib. Pont., I, pp. 343-344; breve sintesi dei fatti in R. Maisano, La spedizione italiana dell’imperatore Costante II, pp. 140-168, in partic. pp. 141-143; più addentro all’argomento P. Corsi, La spedizione italiana di Costante II, Bologna 1983].

 

Per quanto riguarda la distruzione di Lucera, la notizia ci viene riportata da Paolo Diacono in questi termini:

 

Igitur cum, ut diximus, Constans augustus Tarentum venisset, egressus exinde, Beneventanorum fines invasit omnesque pene per quas venerat Langobardorum civitates cepit. Luceriam quoque, opulentam Apuliæ civitatem, expugnatam fortius invadens diruit, ad solum usque prostravit.[1]

 

Tuttavia molti appaiono ancora oggi i lati oscuri della vicenda. La storiografia moderna ha difatti ritenuto poco credibile la notizia di un Costante II (641-668) distruttore di città e dissacratore di reliquie, vista l’origine longobarda delle fonti (Paolo Diacono) [P. Corsi, op. cit., pp. 136 ss.; G. Schiraldi, La comunità cristiana di Lucera…, p. 56].

 

La devastazione della città dauna non era del resto resto giustificata, poiché non si ha notizia di una partecipazione popolare alla difesa, sola cosa che avrebbe motivato una così dura reazione dell’Imperatore assediante, il quale non avrebbe avuto alcun interesse ad alterare drammaticamente il quadro socio-economico dell’area (C. D’Angela, Dall’era costantiniana ai Longobardi, pp. 357-358). Per Pasquale Corsi, difatti, la spedizione di Costante II è servita solo come «riferimento emblematico, sia per fornire spiegazioni fabulose di decadenze più o meno illustri, sia per nobilitare – indirettamente – origini troppo recenti» (P. Corsi, L’episcopato pugliese nel Medioevo, p. 25).

 

Alcuni elementi, non del tutto esplicitati nelle fonti antiche, lascerebbero abbastanza chiaramente intendere quali fossero, al contrario, i reali obiettivi della spedizione dell’Imperatore bizantino: il percorso tortuoso prima di arrivare alla capitale del ducato longobardo (Benevento), toccando invece alcuni centri della Lucania (Venosa), dove sappiamo essere stati consistenti gli insediamenti di Ebrei dell’esilarcato ebraico babilonese – che più volte avevano favorito l’espansione araba nei territori da essi abitati (ad es. la Spagna visigotica) –, mostrerebbe quale potrebbe essere stata la premura del papa Vitaliano e di Costante II nello scardinare una potenziale alleanza tra i Longobardi di Benevento e gli Arabi che da più parti assediavano l’Impero d’Oriente, con la complicità di colonie ebraiche ai confini meridionali del ducato (R. Maisano, art. cit., pp. 158 ss.).

 

 
 

 

Che l’obiettivo primario della spedizione bizantina fosse la riconquista dell’Italia meridionale longobarda si è consolidato nella storiografia seriore – anche moderna –, rifacendosi proprio a quanto riportatoci da Paolo Diacono:

 

his diebus Constantinus augustus, qui et Constans est appellatus, Italiam a Langobardorum manu eruere cupiens, Costantinopolim egressu, per litoralia iter habens, Athenas venit.[2]

 

 Sappiamo difatti che le fonti bizantine – Teofane il Cronografo (750 ca.-818 ca.) e gli epigoni Giorgio Cedreno (XI-XII sec.), Giovanni Zonara († 1130 ca.), Costantino Manasse (XII sec.) e Michele Glica († 1204) – ignorano completamente il riferimento alla spedizione militare contro i Longobardi.

 

Per di più l’Imperatore era sbarcato in Italia con l’appoggio del papa Vitaliano (657-672), che sin dalla sue elezione si era mostrato desideroso di ristabilire buoni rapporti con la corte di Bisanzio, in funzione antilongobarda, dopo le dolorose contrapposizioni dei decenni precedenti riguardanti la questione del monotelitismo – l’emanazione del Typos è del 648 -, che avevano trovato un tragico epilogo nella morte del predecessore di Vitaliano, Martino I (649-655), mandato a morire nelle galere di Cherson [Crimea], per diretta volontà del sovrano bizantino.

 

 
 

 

Ma in questo successivo frangente storico, l’Imperatore, riappacificatosi col nuovo Papa, si mostra nella sua reale qualità di liberatore delle città bizantine meridionali, i cui pochi vescovi rimasti sul territorio difficilmente sarebbero fuggiti in questa circostanza,  e pertanto appare poco credibile la fuga del vescovo di Lucera, a motivo dell’assedio portatovi dalle truppe di Bisanzio. Al contrario, possiamo pensare che questo accadimento sia da collocare qualche decennio prima, al momento dell’invasione longobarda (C. D’Angela, loc. cit., p. 357).

 

Rileviamo, tuttavia che la notizia della fondazione di Lesina[3] ad opera del vescovo lucerino – a prescindere dalle reali motivazioni e dal periodo in cui va collocata –, è ritenuta fondata da alcuni storici (P. Corsi, L’episcopato pugliese cit., pp. 53-54; J.-M. Martin-Gh. Noyé, La Capitanata nella storia del Mezzogiorno medievale, pp. 22-23). La sede vescovile lesinese potrebbe aver avuto un carattere temporaneo, rivestendo in pratica la funzione di sede secondaria della cattedra lucerina (J.-M. Martin, La Pouille du VIe au XIIe siècle, Rome 1993, p. 243). Tuttavia, c’è da ritenere che non furono soltanto i timori generati dalla conquista longobarda o dall’avanzata del basileus a far propendere per il suo trasferimento, visto che essa non fece ritorno alla città dauna dopo la sua ricostruzione. Probabilmente a determinare lo spostamento furono fattori diversi, forse anche economici (P. Corsi, Le diocesi di Capitanata in età bizantina…, p. 53).

 

 
 

 

Per altri studiosi, invece, l’origine della sede vescovile lesinese va riferita al trasferimento, nel V-VI secolo, della cattedra episcopale dal vicino centro di Teanum Apulum, di cui il vicus di Lisinam, sul lacus Pantanus [od. Lago di Lesina], era da secoli emporio sul mare. Alla città è attribuito un Calumnioso Alesino episc., che partecipò al Concilio Lateranense nel 649 (C. D’Angela, loc. cit., p. 331; G. Schiraldi, art. cit., p. 56).

 

Ciò che appare comunque certo è che l’esistenza di alcuni vescovi di Lucera, i quali avevano la loro residenza a Lesina, è documentata in una cartula del 1032, menzionante un vescovo Giovanni, in cui emerge chiaramente la dipendenza di Lesina dalla sede vescovile di Lucera:

 

 Ego Iohannes gr(ati)a Dei episcopus sanctæ sedi Lucerie, declaro enim intus civitate Lisine, qui est pertinentie nostre sedis episcopii […] Ego qui supra Iohannes peccator episcopus sanctæ sedis Lucerie.[4]

 

 
 

 

Tornando agli accadimenti che interessano le vicende agiogarfiche di cui stiamo trattando,  sappiamo che, stando sempre alla tradizione, al pio latrocinio delle sacre spoglie dei Santi Primiano e Firmiano nell’842 sarebbe succeduta la rivalsa dei Larinati sul corpo dissepolto del “lucerino” San Pardo – essa pure dunque un furtum sacrum –, «cujus Translatio celebratur VII.Kal. Junii»[5], vale a dire il 26 maggio di quell’anno.

 

 La tradizione riporta poi l’episodio dei buoi che si rifiutarono di proseguire perché assetati, quindi l’intervento miracoloso del nuovo Patrono e la successiva deposizione delle sue reliquie in città.

 

Ma fu proprio questo il modo in cui si verificarono gli eventi?

 

Rileggiamo dunque le fonti che ci sono pervenute, vale a dire le due Vite; l’una – la cosiddetta Vita brevior[6] redatta da un anonimo autore del X secolo, l’altra – la Vita prolixior[7] compilata nel XIII secolo da un levita della Chiesa larinese, tal Radoyno, su incarico di una matrona larinese a nome Mirata.

 

Nella Vita brevior si parla dei Larinati che «omnes se armis præparantes – ovviamente con l’intenzione di assalire i responsabili del furto, ma vi avrebbero presto rinunciato –, properarunt Luceriam» (Vita brevior 4; vd. anche Vita prolixior X). E già a questo punto c’è qualcosa che non quadra, perché si darebbe per assodato il collegamento tra le due città senza ulteriori passaggi: i Larinesi si diressero armati a Lesina, ma poi si fiondarono in direzione di Lucera. Perché? Si cercherà, più oltre, di colmare la lacuna.

 

Appare ad ogni modo curioso, a una prima valutazione, il ritenere che a quell’epoca ci si preparasse ad assaltare un centro abitato – sempre che ciò fosse cristianamente accettabile – muovendosi con carri trainati da buoi: sarebbe stata una disfatta completa!

 

Ma nelle due Vite del Santo, in verità, mai si parla di una carro trainato da buoi sul quale vennero deposte le Sacre Spoglie, ed anzi nella Vita prolixior si dice esplicitamente che «antequam propinquassent portæ Civitatis, Vectores ipsius S. Pignoris sustiterunt, non valentes incedere» (Vita prolixior X)[8], sicché, dopo incessanti preghiere, «B. Pardus Confessor, et Pontifex divino munere motus: et gressus redidit hominum, et prosperum iter eundi ad Civitatem» (Vita prolixior X); e poco oltre si dice ancora che «omnes vectores, et obsecutores ipsius sancti Pignoris elevantes illud cum hymnis, et canticis, et omni honore, introduxerunt in Larinensem Civitatem Corpus B. Pardi Episcopi, et Confessoris, et posuerunt eum in Ecclesiam S. Dei Genetricis, et Virginis Mariæ» (ibid.).

 

Pertanto non furono i buoi a trasportare il Corpo del Santo all’interno della città di Larino.

 


 

 

 

 Il bue, dunque, è un animale che non ha alcun riferimento storico con la traslazione dei resti mortali di San Pardo, così come ci è pervenuta attraverso le fonti più antiche, cioè le due Vite; ed anzi possiamo dire che i termini “bue”, “vacca” o “toro” o qualsivoglia altro tipo di quadrupede appartenente alla specie bovina, come pure “carro”, non sono mai adoperati in alcuno dei due racconti agiografici.

 

Nel nostro testo viene adoperato a un indefinito termine – «vectores» – che, per la sua genericità, non appare inserito negli specifici glossari[9]; tuttavia, risulta abbastanza chiaramente, dalla costruzione della frase, che l’agiografo voleva indicare proprio dei normali «portatori», come difatti traduce una versione in Italiano[10] circolante da anni, rifacendosi ad un Latino più classico.

 

Riguardo al secondo termine - «obsecutores» - annotiamo che la versione in Italiano lo traduce con «obbedienti» - «tutti i portatori obbedienti sollevarono il Sacro Corpo -, come aggettivo riferito ai «vectores». Credo sia più esatto dire che in verità il termine è un sostantivo, e una verifica della esatta grafia andrebbe fatta sul manoscritto originale. Difatti lo stesso brano è riportato, nella trattazione dei Bollandisti riguardante San Pardo, adoperando il termine «obsequitores», che sta a significare «Qui ecclesiæ deserviunt, et obsequia faciunt in illa», dove «obsequium» sta per «Officium Ecclesiasticum præsertim pro mortuis, nostris vulgo – cioè in Francese – Service» (ibid., VI, ad voces, coll. 019c-020b; per il passo citato vd. AA.SS. Mai. VI, Antuerpiæ 1688, pp. 370-373, qui p. 373, presentato anche in G. Mammarella, op. cit., App. pp. 129-133, qui p. 132); e perciò, in questa seconda traduzione, il passaggio suonerebbe: «tutti i portatori e i necrofori sollevarono il Sacro Corpo».

 

 

Ma vediamo come si pronunciano gli storici locali riguardo a questo “evento fondante” del culto del nuovo Patrono di Larino: se il Tria nulla ci dice di specificio, limitandosi a riportare i passi delle due Vite (op. cit., pp. 766-768), il Magliano invece scrive:

 

Trovato quasi intatto (meno un pollice) il Corpo di S. Pardo (scil. i Larinati), lo presero e con suoni ed inni lo trasportarono sopra un carro tirato da buoi a Larino.[11]

 

Sembrerebbe una traduzione quasi letterale della Vita prolixior, a parte quell’aggiunta «sopra un carro tirato da buoi», che si è ormai consolidata, tanto che la Guida della Città di Larino riporta:

 

I larinesi… deposero le reliquie di San Pardo su un carro trainato da buoi e tornarono in Larino, dove giunsero il 26 maggio dell’842.[12]

 

Non diversamente dal Magliano dice il Ricci:

 

i Larinenses… disseppellendo il corpo di S. Pardo, lo involsero in pannilini ed ornando un carro da buoi di frondi e di fiori, ve lo deposero.[13]

 

E Mammarella, da ultimo scrive:

 

Il trasporto da Lucera alla città frentana dei resti mortali del Santo si verificò proprio su di un carro trainato da buoi e probabilmente da allora si celebra questa solenne manifestazione di fede, seppure modificata più volte nel corso dei secoli.[14]

 

Trattasi, come abbiamo visto, di ricostruzioni che non trovano rispondenze nelle fonti storiche più antiche.

 

 

 

 

 

Ricordiamo, a questo punto, che il bassorilievo ligneo un tempo incassato in un confessionale posto sotto il pulpito della Cattedrale di San Pardo, detto «del Vescovo», che riproduce “L’ingresso del corpo di San Pardo in Larino”, in cui è raffigurato un carro trainato da buoi che trasporta una grossa cassa – fin troppo grossa per contenere i resti di un corpo seppur ritenuto incorrotto –, atteso da un vescovo – ma a quell’epoca la città ne era sprovvista – e da alcuni chierici, attribuito con qualche dubbio a un certo Petrus Termulensis, è di epoca assai più tarda (fine XIV-inizio XV secolo), quando cioè oramai il racconto agiografico, così come lo conosciamo, si era strutturato e consolidato nella coscienza del popolo. Del tutto differente anche la raffigurazione dei buoi [sul rilievo: M.S. Calò Mariani (ed.), Due cattedrali del Molise. Termoli e Larino, pp. 86-87 e figg. 67a, b; G.A. Tria, op. cit., p. 307; A. Magliano, Brevi Cenni storici …, p. 53; per l’attribuzione A. Vitiello, La Cattedrale di Larino, pp. 57-58; per la nomenclatura del carro di San Pardo vd. il disegno dell’Autore in N. Stelluti, op. cit., pp. 16-17].

 

 

 

 

 

Parrebbe pertanto che tutto l’apparato decorativo del carro e dei buoi sia stato escogitato successivamente. Rileviamo inoltre che il clero cittadino si pone in attesa del sacro corteo al di là di un piccolo corso d’acqua – il torrente Cigno? –, avvalorando in tal modo l’idea che a condurre le preziose Spoglie sia stato un gruppo composto da laici, benché sopra il carro siano presenti due armigeri, a cui però nel racconto agiografico della translatio non si fa alcun cenno.

 

 
 

 

È assai più probabile, invece, che a ricevere le Spoglie del Santo siano stati i monaci benedettini del monastero di San Primiano, guidati dal loro priore, il quale dobbiamo pensare rappresentasse la principale autorità religiosa della città, visto che il vescovo titolare era allepoca quello di Benevento. Dobbiamo quindi ritenere, così come appare nel rilievo sopradetto, che lincontro avvenne proprio nei pressi del guado sul Cigno, dove la Via Litoranea incrociava un deverticulum che saliva alla vecchia città romana (cfr. A. Magliano, op. cit., p. 31, n.1). Si rende così chiaro che il corteo di chierici scendeva – col sole già tramontato, stando ai due chierici dadofori da quella che doveva essere la basilica longobarda a tre navate, intitolata proprio a San Primiano martire.

 

 

Possiamo congetturare che il ricorso al “bue” sia entrato nell’agiografia soltanto in epoca successiva, chiaramente con l’intento di “nobilitare” tutta la vicenda, visto il significato che esso aveva nell’atavica tradizione pagana (R. Cavallaro, Il carro, i fiori, il “maggio”, pp. 9-12). Nell’antica Roma era in uso il plaustrum, impiegato sia per le cerimonie religiose sia per il trasporto (Dante, Purg. XXXII, 94-96). Ma questo animale era adoperato nelle corse, già dai tempi più remoti, in diverse località d’Italia:

 

L’usanza di tenere queste corse è collegata alla esigenza di meglio solennizzare le varie feste principali che si svolgevano in antico in varie località a partire dal XIII secolo fino ed oltre il XVIII, da Roma a Napoli e in tutte le località principali dell’Italia centro-meridionale e del Regno delle due Sicilie.[15]

 

 

 

 

 

Difatti il vescovo Tria ci riferisce dell’avvenuta assimilazione delle circostanze della Traslazione delle Spoglie mortali del Santo con le modalita in cui si svolgeva, agli inizi del XVIII secolo, la sua festa:

 

in memoria della Traslazione di S. Pardo que’ Cittadini con pia emulazione nel giorno della sua vigilia fanno la corsa di buoi con carri in figura del suo trasporto in essa Città, e il primo, che giunge ne conseguisce il premio, che suole somministrarsi a spese pubbliche … .[16]

 

E tuttavia in origine si può dare per certo che il bue non avesse alcun ruolo nel nostro racconto. Immaginare una coppia di buoi parcheggiati in una qualche parte del Tavoliere, in attesa del provvidenziale rinvenimento di un Corpo Santo da ricondurre a Larino ovvero che essi abbiano accompagnato i Larinesi nel loro girovagare per l’Apulia, appare la cosa meno probabile che possa essere accaduta. Assai problematico ritenere inoltre che un carro trainato da buoi potesse percorrere gli ottanta chilometri circa che separano Lucera da Larino, la qual cosa avrebbe comportato diversi giorni di cammino, tanto da rendere necessari dei cambi, sempre che non si voglia sostenere che i buoi fecero il tragitto di corsa, ed allora dovremmo pensare a un uso ante litteram di sostanze dopanti.

 

 

 

 

 

Nemmeno l’episodio della sorgente miracolosa zampillata dal suolo – che avrebbe generato quella che oggi viene identificata col nome di “Fonte di San Pardo” – è mai menzionato nelle due Vite; e però anche qui gli storici seriori hanno colorito alquanto:

 

sostarono tutti in un istante uomini e animali, senza potersi più muovere davanti alla fontana, che prese poi la denominazione di S. Pardo … .[17]

 

ma giunti i Larinenses cristiani nella località, oggi detta Fontana di S. Pardo, non si poté andare più avanti.[18]

 

In precedenza il Tria si era limitato a riportare che

 

avvicinandosi a Larino, e quei, che lo trasportavano non potendo passare più avanti, i Larinati invocando il sua ajuto, ed eleggendolo per loro Protettore, ottennero per i suoi meriti, e a sua intercessione ciò, che bramavano … .[19]

 

Tuttavia anch’egli riportava la nota leggenda, senza però avvalorarla di suo:

 

Suppongono i Larinati, che [...] quei che lo portavano, in un tratto restarono senza moto in strada, e avanti un certo fonte, lontano dal nuovo Larino assai meno d’un miglio, senza poter continuare il loro camino; del che atterriti quei, che vi erano concorsi, pregarono il Santo, e ottennero l’intento, che s’introducesse in Città, e che perciò indi in poi quel fonte si appellasse, come attualmente da tutti in voce, e nelle pubbliche Scritture si appella, la Fontana di S. Pardo … .[20]

 

Ma il Pollidoro, nel suo Commentarius aveva semplicemente ripreso quanto già ampliamente desunto dalle due Vite:

 

antequam sacrum Corpus Larinum introduceretur, repente vectores subsistere divina virtute fuisse coactos, nec ultrà potuisse progredi, priusquam enixis precibus id à Deo per Sanctum Pardum, effusa obviam Civitas impetrasset.[21]

 

 Infatti nella Vita prolixior si racconta, come si è detto, che«antequam propinquassent portæ Civitatis, Vectores ipsius S. Pignoris sustiterunt, non valentes incedere»(Vita prolixior X), e si annota che «Divina Clementia talia operante» (ibid.).

 

   Senza voler considerare le osservazioni fatte in proposito dal padre Delehaye (infra) su certi motivi ricorrenti nell’agiografia, come quello testè riportato, che hanno come obiettivo quello di legittimare il possesso di una qualche reliquia, possiamo dire che anche l’avvenimento dello zampillo miracoloso serviva ad arricchire tutto il racconto agiografico di episodi che avrebbero potuto suscitare nel popolo l’ammirazione e conseguentemente alimentare la venerazione del nuovo Santo Patrono, così da addolcire l’amara constatazione che oramai le spoglie mortali degli antichi Patroni della Città – i Santi Martiri Primiano e Firmiano – erano finite irrimediabilmente nelle mani di altre comunità cittadine.

 

 

 

 

Se appare tuttavia difficile sostenere che le spoglie mortali del nuovo Patrono potessero essere trasportate a spalla dal suburbio di Lucera a Larino, non resta che ipotizzare l’uso di un qualche altro mezzo di trasporto. A parer mio esse furono adagiate, con tutti gli onori, su uno di quei carri trainati da cavalli normalmente adoperati per muoversi nelle campagne, utilizzato anche per raggiungere la Grotta di San Michele Arcangelo sul Gargano.

 

Per mio conto, in definitiva, le reliquie di San Pardo furono asportate dalla città di Lucera al ritorno da un pellegrinaggio al Santuario garganico di San Michele. In pratica potrebbe essere  accaduto che una “compagnia” proveniente da Larino, composta come d’abitudine da persone appiedate e da carri trainati da cavalli su cui stavano vecchi e bambini, s’incaricasse, dopo l’espletamento della visita al Santuario dell’Arcangelo per propiziare il suo celeste sostegno e magari cercando tra i pellegrini colà convenuti notizie sulle reliquie incustodite di qualche altro Santo, di impossessarsene pacificamente.

 

 
 

 

Tra quelle comitive di pii viandanti non saranno certo mancate conoscenze di tombe venerate e temporaneamente incustodite a motivo delle continue scorrerie saracene, che avrebbero interessato, qualche anno dopo (869), anche il Santuario garganico di San Michele (Hincmar. Rhem., Ann. : MGH, Scriptores I, p. 485; sull’avvenimento cfr. anche C. Angelillis, Il Santuario del Gargano…, II, pp. 266-267; G. Musca, L’emirato di Bari…, pp. 108-109, 136-138).

 

Il riferimento alla città di Lesina nei due racconti agiografici non creerebbe problema, giacché non si ha difficoltà ad ammettere che in quei primi giorni di maggio dell’842 la “compagnia” larinese si sia prefissata l’obiettivo di trovare una soluzione al grave oltraggio subito, vale a dire il furtum sacrum dei resti mortali dei Santi Primiano e Firmiano, avvenuti a seguito dell’incursione saracena di quella primavera ovvero dell’anno prima. È pertanto non inverosimile ritenere che quell’anno i pellegrini larinesi diretti al Santuario del Gargano abbiano tentato un approccio – credo del tutto pacifico – nei confronti degli abitanti della città lacuale, che avrebbero raggiunto percorrendo la Via Sacra Langobardorum lungo la Valle di Stignano, ma che vi abbiano presto rinunciato per non alienarsi la divina protezione nell’impresa che si erano determinati di portare a termine.

 

Dobbiamo pertanto immaginare che, a partire dal 9 maggio di quell’anno – successivo alla festa[22] dell’Apparizione dell’Arcangelo Michele –, la “compagnia” di Larino si sia aggirata per le campagne del Tavoliere alla ricerca di un Corpo Santo di cui appropriarsi; che abbia girovagato per quelle terre per  qualche giorno e che, in prossimità della festa dei Martiri del 15 maggio, abbia tentato un contatto pacifico con gli abitanti di Lesina, dove i corpi dei due Martiri erano custoditi, che abbia camminato per quelle terre per una settimana ancora, valutando il da farsi, e che si sia imbattuta – non stentiamo a credere con l’aiuto divino – nella tomba del vescovo Pardo in un’area cimiteriale del suburbio della città di Lucera – che io proprongo si trovasse in località San Giusto –, benché essa non fosse normalmente toccata dai pellegrini provenienti dal Larinate; talché non è inverosimile ritenere che proprio i Lesinesi, antichi abitatori di Lucera, abbiano dato quella indicazione utile ai componenti la “compagnia” di Larino, poiché quel Santo era ancora assai venerato sin dai tempi dei loro padri.

 

La permanenza della “compagnia” larinese in quel sito si sarà certamente protratta per qualche giorno, poiché era necessario accertarsi della esatta identificazione della tomba del santo Vescovo. Alla fine quei Sacri Resti saranno stati adagiati, con tutti gli onori, su uno dei carri di cui la “compagnia” micaelitica disponeva – sarà stato certamente il più nuovo, bello e funzionale ovvero si sarà trovato qualche espediente per scegliere il carro più degno – e tra canti e preghiere il sacro corteo si sarà messo in marcia per far ritorno a Larino. La Vita prolixior riporta che la processione era accompagnata «da fiaccole accese e da incensi»[23], per cui dovremmo pensare che essa prese avvio al tramonto o nelle prime ore della sera, la qual cosa mi pare invero assai poco plausibile.

 

Difatti la più antica Vita brevior nulla ci dice a proposito delle fiaccole. Si potrebbe ipotizzare che questo particolare presente nel racconto agiografico volesse riproporre il modo in cui si svolgeva il culto liturgico dei Santi Martiri Larinesi durante la statio alla vigilia della loro festa.

 

 

 

Percorso di andata compagnia micaelica di Larino
Ricostruzione del percorso di andata della "compagnia" di Larino nell'anno 842 [da Google Maps; elaborazione P. Miscione]
Percorso di ritorno compagnia micaelica di Larino
Ricostruzione del percorso di ritorno della "compagnia" di Larino nell'anno 842 [da Google Maps; elaborazione P. Miscione]
 

 

Verosimile che, in prossimità delle porte della città – ipotizzabile il guado sul torrente Cigno lungo la Via Litoranea di cui abbiamo detto, sempre che i Larinesi non abbiano preferito il collegamento meridionale, più rapido e diretto – il prezioso reperto sia stato trasportato a spalla fino alla chiesa dedicata alla Sancta Dei Genetrix et Virgo Maria, come difatti è raccontato nelle due Vite. In teoria sarebbe bastata anche una sola persona, vista l’antichità di quei resti, ma le fonti ci riportano chiaramente – e non abbiamo motivo di dubitarne – che «repererunt Sanctum Corpus intactum, minus tantùm uno pollice» (Vita prolixior X), ragion per cui non si ha difficoltà ad ammettere che necessitarono diversi portatori, proprio come riportato nella Vita prolixior.

 

Circa l’ubicazione della Chiesa mariana in cui furono inizialmente deposte quelle Spoglie mortali, che avrà facilmente assunto anche la funzione di Cattedrale, benché già da tempo sprovvista del suo vescovo, e che né la tradizione né le ricerche storico-archeologiche sono mai riuscite a ben localizzare, credo abbia un qualche valore il riferimento alla rinomata fiera che si teneva in quella parte più pianeggiante dell’antico abitato romano, a quel tempo oramai in gran parte abbandonata e che presentava caratteristiche di ruralità (G. e A. Magliano, op. cit., pp. 104, 185).

La nuova «Ecclesia» eretta al Santo «non post multos dies»[24] va a parer mio collocata in un luogo non distante da quello in cui avvenne la prima deposizione.

 

La successiva denominazione di “fiera di San Pardo”, in definitiva, non può che rifarsi a un’origine cultuale riferita alla venerazione delle reliquie del nuovo Santo Patrono, così come quella denominata “di San Primiano”, traeva quasi certamente la sua ragion d’essere dall’antica forma di culto liturgico denominata statio [sulla fiera: G.A. Tria, op. cit., p. 270; vd. anche p. 772; G. e A. Magliano, op. cit., pp. 75, n. (a), 103-104, 274-275 e n. (e); A. Magliano, op. cit., p. 66, n. 1; G. Mammarella, Da vicino e da lontano cit., pp. 47-50].

 

Il Pollidoro difatti conferma:

 

Festum ipsum S. Pardi celebrius reddiderunt Summi Principes Nundinis, quæ magna cum Populorum frequentia quotannis Larini peragi consuevere.[25]

 

Sappiamo, per di più, che sicuramente nel semideserto abitato romano sorgeva un piccolo rione, pure denominato “di San Pardo”, il cui nome avrà avuto certamente un’origine cultuale [G.B. Pollidoro, op. cit., p. 66; G. e A. Magliano, op. cit., p. 185; A. Magliano, op. cit., p. 93; M.S. Calò Mariani (ed.), op. cit., p. 64].

 

Peraltro conosciamo bene dove si tenesse la “fiera di San Pardo” – poi “fiera d’Ottobre” – negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, grazie a una preziosa documentazione fotografica pervenutaci, vale a dire lungo i quattro lati dell’edificio attualmente posto tra gli slarghi oggi denominati Piazza dei Frentani e Largo Pretorio – sito conosciuto come “piano della fiera” – e nelle aree limitrofe, a quel tempo pressoché sgombere di edifici [alcuni esempi in Pilone, 100 anni di fotografie a Larino, ed. N. Stelluti, Larino 2002; sul “piano della fiera” o “piano del Palazzo”: G. e A. Magliano, op. cit., p. 75, n. (a); A. Magliano, op. cit., p. 10].

 

Una diversa etimoliga dei termini “palazzo”e “piano della fiera” si rifarebbe invece alle denominazioni tardoantiche date alle mansiones di particolare pregio, poste in alternativa alle stazioni postali romane [G. De Benedittis (ed.), Il porto romano sul Biferno…, p. 11]. Secondo questa seconda interpretazione, la fiera di Larino si sarebbe pertanto svolta nell’area un tempo occupata da una precedente mansio altomedievale.

 

In ogni caso credo non si sia molto lontani dal vero se si afferma che la chiesa dedicata alla Sancta Dei Genitrix et Virgo Maria, in cui, stando alle Vite[26], furono deposte le spoglie mortali di San Pardo vescovo sia da localizzare nei pressi di questo isolato, se non proprio all’interno di esso.

 

 


 

   

A sostegno di questa ricostruzione ricordiamo che anche la “fiera di Sant’Antonio abate” si teneva in prossimità della chiesa e del monastero omonimi, vale a dire tra l’Anfiteatro e le antiche Terme, nel cosiddetto “piano di Sant’Antonio” [G. e A. Magliano, op. cit., pp. 274-275 e n. (e); A. Magliano, op. cit., p. 66, n. 1; sulla chiesa e sul monastero: G.A. Tria, op. cit., p. 369; G. e A. Magliano, op. cit., p. 186; A. Magliano, op. cit., p. 92].

 

Abbiamo verificato quindi come le tre più rinomate fiere cittadine fossero dedicate a Santi molto venerati – tra cui il Patrono – e si svolgessero nei giorni delle loro feste e nei dintorni di edifici di culto a loro intitolati. Per due di essi – Primiano e Pardo – l’esposizione commerciale traeva la sua ragion d’essere, almeno in origine, dal richiamo di pellegrini che vi si recavano per venerare le loro reliquie; per cui credo sia possibile dare quasi per certa l’ubicazione della chiesa mariana in cui avvenne la prima deposizione del corpo di San Pardo nel sito sopra indicato.

Che poi questo edificio di culto fosse l’antica Cattedrale cittadina – ma nel frattempo privata di un vescovo residente - mi pare altamente probabile.

 

Parrebbe assurdo, difatti, sostenere che il primitivo edificio di culto in cui avvenne l’originaria deposizione fosse situato nel borgo medievale posto a valle, senza che nei suoi pressi si tenesse una qualche esposizione commerciale nel contesto della festa religiosa, così come d’altronde avviene ancora oggi in tutte le sagre paesane degne di questo nome (G. e A. Magliano, op. cit., p. 185).

 

Registriamo, tuttavia, che in maniera diversa la pensano diversi Autori, i quali sostengono che il primitivo edificio di culto in cui avvenne la prima deposizione si trovava nel borgo medievale (G.A. Tria, op. cit., pp. 246-247, 767; P. Ricci, op. cit., pp. 73, 116).

 

Ricordiamo, in proposito, la valutazione di alcuni storici sulla formazione della Larino medievale, i quali datano l’abbandono definitivo del sito di Piano San Leonardo e l’origine dell’insediamento abitativo «tra VIII e IX sec.» [G. De Benedittis (ed.), Il porto romano sul Biferno…, p. 20], con ogni probabilità anche a seguito dello spopolamento successivo all’occupazione longobarda, e per questo la sua origine va riferita «al più generale incastellamento verificatosi nella Langobardia Meridionale a partire dalla fine del IX secolo» (I.M. Iasiello, Samnium…, p. 90).

 

Tuttavia non si ha difficoltà ad ammettere che le sante Spoglie del vescovo Pardo siano state traslate nella nuova Cattedrale eretta a valle – così come si lascia pure intendere nella Vita prolixior (G.B. Pollidoro, op. cit., p. 68) –, che possiamo pacificamente ritenere abbia avuto un suo nucleo già prima della edificazione del grandioso edificio inaugurato il 31 luglio 1319 – ipotizzabile la fine del periodo di soggezione alla sede beneventana –, all’interno del quale esse furono definitivamente deposte l’anno successivo (ibid, p. 71; G.A. Tria, op. cit., pp. 769-770).

 

 
 

 

Sappiamo difatti che la diocesi di Larino riebbe la propria autonomia con la nomina del cittadino larinese Azzo o Azzone, che tenne la cattedra per un periodo imprecisato, a partire dall’anno 960 (G. Mammarella, Larino sacra. Cronotassi…, pp. 17-18). Potremmo perciò ritenere che fu proprio lui – o qualche suo immediato successore – a dare impulso al trasferimento dell’abbandonata Cattedrale dall’antico abitato romano, in gran parte spopolato ormai da secoli, al nuovo nucleo urbano altomedievale posto a valle. Non si ha difficoltà ad accettare che il vicus extraurbano abbia trovato proprio nella figura del vescovo un centro morfogenetico (G. Volpe, Il ruolo dei vescovi nei processi di trasformazione del paesaggio urbano e rurale, pp. 85-106).

 

 

La ricostruzione proposta circa la traslazione dei resti mortali di San Pardo poggia, oltre che sui riferimenti al pellegrinaggio micaelico presenti nella cosiddetta “Carrese di San Pardo” – la continua presenza del termine “compagnia”, il tema del pellegrinaggio verso oriente, “addò spunta lu sole”, dove c'è una “bella conca marina”, cioè il golfo di Manfredonia –, anche e soprattutto sulla morfologia del carro addobbato, così come lo conosciamo al giorno d’oggi, che presenta caratteristiche assai simili a quello adoperato per raggiungere il Gargano.

 

Si potrebbe quindi ben sostenere che il carro utilizzato per le corse e successivamente per le prime sfilate nella festa di San Pardo si rifacesse, nella sua morfologia, a quello di cui ci serviva per recarsi al San Michele di Puglia.

 

 
 

 

    Lo stesso Alexandre Dumas père conferma che il 26 maggio, giorno di festa di S. Pardo

 

i contadini ornavano i loro carri di ghirlande e di fiori, di drappi e banderuole di tutti i colori; essi vi attaccavano dei buoi dalle corna dorate e li bardavano con nastri variopinti.[27]

 

Dalla documentazione fotograficia si può verificare che l’addobbo era in origine assai ridotto. Per quello assai semplice e del tutto analogo, allestito per il pellegrinaggio al San Michele di Puglia, si sarà provveduto ovviamente solo a ridosso della partenza.

 

 

 

 

 

Che la traslazione delle reliquie del Santo presenti alcuni aspetti non del tutto risolti è opinione condivisa anche da altri. Così un recente studio annota in proposito:

 

È ancora tutta da approfondire la tradizione relativa alla traslazione delle reliquie, che vede coinvolti ben tre centri – Lucera, Lesina e Larino – e le reliquie di altri due Santi – Primiano e Firmiano – conosciuti dalla tradizione di Larino, ma sempre insieme a Casto; inoltre, il particolare della mancanza del pollice dal corpo di Pardo è forse eco dell’esistenza di qualche altro ramo della tradizione riferita alla traslazione delle reliquie di Pardo[28].

 

Ma tutto il racconto agiografico che accomuna i Santi Martiri Larinesi e San Pardo, così come ci è pervenuto attraverso i due redattori medievali, anche se certamente ci fornisce alcuni dati significativi, potrebbe in ultima analisi essere il frutto di una buona dose di fantasia mescolata a dati più o meno accertati, che rientrano nel campo di quelle che un autorevole studioso della materia ha definito “leggende agiografiche” (H. Delehaye, Le leggende agiografiche, Firenze 1910, rist. Sala Bolognese 1983). Così egli commenta a proposito di certi motivi ricorrenti, che troviamo anche nella storia della traslazione di San Pardo:

 

Niente di più comune nell’agiografia popolare… niente di più ordinario…. dei buoi, che si rifiutano di andare innanzi, ora per indicare il luogo misteriosamente predestinato alla custodia di qualche tesoro celeste, ora per assicurare a una chiesa il legittimo possesso della reliquia di un santo.[29].

 

 
 

 

Per concludere, viste le considerazioni espresse a proposito della cosiddetta “Carrese di San Pardo”, si potrebbe definire la festa del Patrono, così come oggi la conosciamo, una “contaminazione” tra il culto liturgico riservato ai Santi Martiri Larinesi e il pellegrinaggio al Santuario garganico di San Michele.

 

 

 

Bibliografia:

 

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     [1] Paul. Diac., Hist. Lang. V,7, ed. cit., p. 14.

[2]  Paul. Diac., Hist. Lang. V,6, ed. cit., p. 146.

[3] La leggenda più accreditata sulla fondazione di Lesina fa riferimento a pescatori dalmati dell’omonima isola [od. Hvar, Croazia], alla ricerca di acque più pescose ( F. Ughelli, Italia sacra sive de Episcopis Italiæ…, VIII, Venetiis 1721, rist. Sala Bolgnese 1973, coll. 310 ss.). Per altri, fuggirono da una persecuzione anticristiana. Le fonti più antiche relative alla fondazione di Lesina sono riportate dal Pollidoro (op. cit., pp. 48-50).

[4] Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), II, ed. A. Petrucci, in FISI 98, Roma 1960, pp. 45-49, doc. 14; cfr. anche A. Pratesi, Note di diplomatica vescovile beneventana, II. Vescovi suffraganei (secoli X-XIII) con una Appendice di documenti inediti, in «Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano» I (1955), pp. 54-56, doc. II.

[5] Vita brevior 1 (vd. nota seguente); vd. anche G.B. Pollidoro, op. cit., p. 61.

[6] Vita Brevior S. Pardi Episcopi et Confessoris. Auctore Anonymo (Cod. Vat. Lat. n. 5834, fol. 132); riportata anche in: G.B. Pollidoro, op. cit., pp. 1-5; G.A. Tria, op. cit., pp. 751-753 (pp. 632-633 dell’ed. del 1744);  G. Mammarella, San Pardo. Patrono principale di Larino e diocesi, Campobasso 2011, Appendice, pp. 106-110.

[7] Prolixior Vita S. Pardi Episcopi. Auctore Radoyno Levita Ecclesiæ Larinen., ex Codice MS. Boviensi : AA.SS. Mai. VI, Antuerpiæ 1688 (= Vita prolixior), pp. 370-373; riportata anche in MGH, Script. rer. Lang. et Ital. sæcc. VI-IX, ed. cit., pp. 589-590; G.B. Pollidoro, op. cit., pp. 6-18; G.A. Tria, op. cit., pp. 753-758 (pp. 634-638 dell’ed. del 1744); G. Mammarella, op. cit., Appendice, pp. 111-123, 130-132.

[8] Nella Vita brevior ci si limita a raccontare che i Larinesi «repererunt Sacrum Corpus intactum… quod cum gaudio elevantes... cum hymnis, et canticis itinere arrepto properaverunt Larinum» (Vita brevior 4).

[9] Il termine «vector», seppure manchi di un lemma ad esso dedicato, è menzionato nei glossari latini, che riportano i passi in cui compare, con i seguenti significati: 1. «victuralis» (C. du Fresne Du Cange, Glossarium madiæ et infimæ Latinitatis..., VIII, Niort 1887, ad vocem, col. 322b) o anche «victerius» (ibid., VIII, col. 321b), «vectarius» (ibid.,VIII, col. 259b), «vectuarius» (ibid., VIII, col. 260a), in fr. «voiturier», tutti col significato di «vetturale, vettore», cioè «chi guida cavalli o muli per trasportare merci o persone», «nel contratto di trasporto, colui che si obbliga a eseguire il trasporto», «che porta, conduce, guida» (Il Nuovo Zingarelli. Vocabolario della Lingua italiana, Bologna 198311, ad voces); 2. «gradarius» (ibid., IV, col. 91c), cioè «equus tolutaris … equus non formosus», in fr. «haquenée», che ha il significato di «cavallo da sella che va all’ambio», «cavallo al trotto»; 3. «vectuarius», «vectuerius» (vd. supra nella nota), «voictura» (ibid., VIII, col. 374a), «voituarius» (ibid., VIII, col. 374b) cioè «qui vecturas facit», in fr. «voiturier», anche nella valenza di «chi fa il noleggiatore di vetture» ovvero «chi dava bestie e veicoli, dietro pagamento, per il trasporto di persone o cose», «vetturino»; 4. «conductor» (ibid., II, col. 491b), cioè «qui conducit» in fr. «conduiseur», cioè «conducente»; 5. «treginerius» (ibid., VIII, 164b), «pro Terræginerius, per abbreviationem, ni fallor, Incola, in terra genitus», in fr. «tregenier», in sp. «Traginero, convector, mulio», da ricollegare a «traginare» e «tragina» (ibid., VIII, col. 148c), cioè «vectura, opera cum curru», «attività svolta col carro», in sp. «tragin», da cui è verosimile derivi il dialettale «traìno», cioè «piccolo carro, carretto»; 6. «supersalientes» (ibid., VII, col. 669b), voce del gergo marinaresco, «sobresalientes llaman otrosi a los omes que son puestos ademas en los navios, assi como ballestreros, e otros omes de armas, e estos non han de fazer otro officio, si non defender a los que fueren en sus navios, lidiando con los enemigos», in fr. «seursaillans», in Italiano medievale «suprassagliente», in gr. ε̉πιβάτης [si veda anche il glossario bilingue – Francese/Inglese – J.F. Niermeyer (ed.), Mediæ Latinitatis Lexicon minus, I, Leiden 1976, ad voces]. Appare abbastanza chiaramente che il significato che più si adatta al nostro testo è quello riportato al n.ro 4, cioè «conductor» o, al limite, quello riportato al n.ro 1, che assume un senso del tutto simile di «chi guida cavalli o muli per trasportare merci o persone». Difatti il Pollidoro così chiosa: «antequam sacrum Corpus Larinum introduceretur, repente vectores subsistere divina virtute fuisse coactos, nec ultrà potuisse progredi, priusquam enixis precibus id à Deo per Sanctum Pardum, effusa obviam Civitas impetrasset» (op. cit., pp. 63-64).

[10] Vita di San Pardo, Patrono della Diocesi e della Città di Larino, trad. it. A. Vitiello (ma anche A. Mastantuono), Larino 1977, pp. 31-50 (= N. Stelluti, Larino. Carri & Carrieri di San Pardo 1990/91, Campobasso 1992, pp. 60-64).

[11 ] G. e A. Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003, p. 158, nota (b).

[12] Guida Città di Larino, edita dal Comune di Larino, Termoli 2008, p. 69.

[13] P. Ricci, Fogli abbandonati di storia larinese raccolti in continuazione del Tria, Larino 1913, rist. anast. Larino 1987, p. 72.

[14] G. Mammarella, Da vicino e da lontano. Sacro e profano nella ricostruzione di fatti emblematici della storia di Larino e del circondario, Larino 1986, p. 102.

[15] N. Stelluti, op.  cit., p. 13.

[16] G.A. Tria, op. cit., p. 772 (vd. anche pp. 164-165). Cosa s’intenda con la locuzione «in figura del suo trasporto» mi pare piuttosto opinabile. Alla p. 165 è semplicemente detto «in memoria del trasporto».

[17] G. e A. Magliano, op. cit., p. 159.

[18] P. Ricci, op. cit., p. 72.

[19] G.A. Tria, op. cit., p. 767.

[20] Ibid., p. 246.

[21] G.B. Pollidoro, op. cit., pp. 63-64.

[22] Ricordiamo che il giorno 8 maggio, quale dies festus riservato all’Apparizione dell’Arcangelo Michele sul Gargano, è ricordato per la prima volta dal monaco longobardo Erchemperto († 890 ca.), proprio in quegli anni: «octavo Ydus Maias, quo beati Michahelis archangeli sollempnia nos sollempniter celebramus» [Hist. Lang. Benevent. (774—889), 27 : MGH, Script. rer. Lang. et Italic. sæc. VI-IX, edd. G.H. Pertz-G. Waitz, Hannoveræ 1878, p. 244]. Ci si riferisce alla battaglia avvenuta l’8 maggio del 663.

[23] «ac thimiamatibus præcedentibus, et faculis coruscantibus» (Vita prolixior X). Il particolare dell’incenso, presente anche nella Vita brevior (4), mi pare un chiaro abbellimento del redattore medievale.

[24] Vita brevior 4; Vita prolixior X. Rileviamo qui l’incongruità della notizia riportataci dalla Vite. Certamente l’edificazione di una chiesa in pochi giorni sta a significare la volontà dell’agiografo di dare al culto del nuovo Patrono un edificio sacro autonomo e indipendente.

[25] G.B. Pollidoro, op. cit., p. 63.

[26] Vita brevior 4: «Sacrum Corpus B. Pardi Episcopi posuerunt in Ecclesia S. Dei Genitricis, et Virginis Mariæ, usque quo sibi dignam fabricarent Ecclesiam»; Vita prolixior X: «introduxerunt (scil. vectores et obsecutores) in Larinensem Civitatem Corpus B. Pardi Episcopi, et Confessoris, et posuerunt eum in Ecclesiam S. Dei Genetricis, et Virginis Mariæ, usquequo sibi dignam fabricarent Ecclesiam, in qua poneretur. In qua non post multos dies positus est».

[27] A. Dumas père, Un Regno insanguinato. Romanzo storico, Milano 1924, rist. anast. Campobasso 1988, p. 45.

[28] A. Campione-D. Nuzzo, La Daunia alle origini cristiane, Bari 1999, p. 89; alla p. 90 definite «confuse» le vicende della traslazione.

    [29] Ibid., pp. 44-45; vd. anche pp. 46-47, n. 4, in cui si dà conto di un analogo caso relativo alla traslazione delle reliquie di S. Aussenzio sull’isola di Cipro. Altro caso notevole è quello della traslazione del corpo di S. Giacomo Maggiore a Compostella, che avvenne proprio su di un carro trainato da buoi, messo a disposizione dalla regina Lupa, che proprio in direzione del suo palazzo si sarebbero diretti, senza che nessuno li governasse, tanto che la regina vi fece edificare una chiesa (Liber Sancti Iacobi-Codex Calixtinus, III,1).

 
 

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Il pellegrinaggio al Gargano e la "traslazione" del corpo di San Pardo
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Commenti: 2
  • #1

    Lorenzo Di Maria (domenica, 31 maggio 2020 00:26)

    Sono estasiato. Non conoscevo queste ricerche, e ne sono rimasto affascinato come non mi succedeva da tanto. Ho letto anche quella sulla Carrese e quella su San Casto a Trivento: stesso effetto. E da innamorato perso della nostra festa e dunque ovviamente della narrazione che la accompagna, mi sento incredibilmente arricchito da queste ricostruzioni. Da brividi, sono senza parole, davvero.

  • #2

    Pino Miscione (domenica, 31 maggio 2020 02:42)


    Gentilissimo Lorenzo,

    ti ringrazio del generoso commento e dell’apprezzamento per le mie ricerche, le quali a volte ricompongono una storia diversa rispetto a quella già nota e divulgata. Alcuni dei saggi che hai letto sono riproposti, insieme a diversi altri, in una mia pubblicazione uscita lo scorso dicembre – Larino micaelica. Saggi sulla diffusione del Cristianesimo nella città dell’ala e della palma –, la quale ricostruisce la storia cristiana di Larino dagli albori ai nostri giorni. Non c’è ancora stata la possibilità di presentarla ufficialmente, causa virus ma anche per altre ragioni. Tuttavia la fretta non mi assale.

    https://www.rizzolilibri.it/scheda-libro/9788831936408/

    Di seguito due capitoli già pubblicati online (2° e 15°), tanto per dare un’idea dei limiti temporali presi in considerazione e del metodo di lavoro:

    https://www.academia.edu/36570900/Santi_Martiri_Larinesi
    https://www.academia.edu/43139788/Fra_Pio_da_Pietrelcina_nella_Diocesi_di_Larino

    Il libro è comunque già disponibile presso diverse biblioteche italiane, e le prime due copie le ho donate alla Biblioteca Comunale “Bartolomeo Preziosi”. Di seguito l’elenco delle Biblioteche che lo possiedono:

    https://www.facebook.com/Larino.micaelica/posts/120921252722136

    Notizie generali:
    https://www.facebook.com/notes/larino-micaelica-saggi-sulla-diffusione-del-cristianesimo/dove-trovare-larino-micaelica/100912978056297/

    Un caro saluto
    P.M.

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