La Basilica paleocristiana dei SS Martiri Larinesi


BASILICA PALEOCRISTIANA

Larino

Cimitero comunale

(IV-V sec.)

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 el settembre 1948 venne rinvenuto, a ridosso del muro di cinta del cimitero comunale, un significativo manufatto, identificato come «una antica chiesa»[1]. Il ritrovamento si rese possibile grazie allintervento e allintuito del Sindaco di allora, prof. Ugo Pietrantonio. Lo scavo archeologico si svolse sotto la supervisione del  Soprintendente  agli Scavi  e  Monumenti del-

 
 

l’Abruzzo e del Molise Valerio Cianfarani il quale, tornando altrove sull’argomento, la definì come «chiesa cimiteriale, ossia elevata sopra una tomba venerata» (Intervista a «Il Momento-Sera», in U. Pietrantonio, Considerazioni e Osservazioni..., App. doc. n. 1). Così egli ricostruisce la sua genesi:

 

avvenuto il martirio di S. Primiano nell’interno dell’anfiteatro credo che il corpo sia stato deposto fuori della città o di (sic) una tomba privata o in una di quelle sepolture collettive, di cui gli esempi più noti sono le catacombe romane.[2]

 

 
Larino, cimitero
Il cimitero comunale di Larino, al cui interno si trova ormai la Basilica paleocristiana dei SS Martiri Larinesi (giallo), con la vicina Cappella settecentesca (arancione) [da Google Maps; elaborazione P. Miscione]
 

 

Altrove si è già detto della supposta origine della piccola Basilica, che qualche storico locale ha sostenuto derivasse dalla trasformazione di un tempio pagano dedicato al dio Marte che, mutata la natura e la funzione, avrebbe accolto i corpi dei Santi Martiri Larinesi (G. Mammarella, Larino sacra, II, pp. 45-46; Guida Città di Larino, p. 62). Si tratta evidentemente di una ricostruzione che non ha alcuna base storico-archeologica, perché furono semmai le tombe dei Martiri, di cui si conosceva l’ubicazione, a generare un culto, tale da giustificare l’edificazione successiva della Basilica.

 

Quanto alla possibilità che il sito possa essere quello in cui furono decapitati i nostri Santi, avanzata da diversi Autori e che si è già confutata, mi limito a riportare un passo del più grande agiografo italiano del secolo scorso:

 

Assai rari … devono essere stati gli oratori e le chiese erette, nel primo secolo della pace, sui luoghi santificati dal sangue dei martiri; la grandissima maggioranza dei quali lasciò la vita o nei campi destinati alle esecuzioni capitali dei malfattori … o negli edifizî destinati ai giuochi pubblici, campi ed edifizî che proseguirono ad essere adibiti rispettivamente alle esecuzioni ed ai giuochi anche dopo le persecuzioni. Alla basilica edificata presso Cartagine in Sexti, dove ebbe reciso il capo s. Cipriano, io, sul momento, non saprei aggiungere altro. È vero che il concilio Africano del 401 permette la fabbrica di oratorî ubi origo alicuius … passionis fedelissima origine traditur.[3]

 

Non infrequente un’identica problematica circa l’identificazione del luogo del martirio di un santo fatto coincidere con quello della sua sepoltura. A Roma abbiamo il caso emblematico, molto simile al nostro, dell’adolescente di origine frigia Pancrazio, il quale, stando a una tarda passio (BHL, p. 6426; AA.SS. Mai. III, pp. 17-22 [ed. BHL, p. 6421]), sarebbe stato decapitato al di fuori della Porta Aurelia la sera del 12 maggio del 304, appena tre giorni prima dei Martiri Larinesi. La matrona Ottavilla, testimone dell’esecuzione capitale, ne avrebbe raccolto i resti, per tumularli in un sepolcro all’interno delle catacombe sottostanti un terreno di sua proprietà, posto a due miglia dalla Porta. Una basilica vi venne edificata da papa Simmaco (498-514), probabilmente su un edificio preesistente, e divenne la statio conclusiva del tempo pasquale (domenica in albis) [P. Franchi de’ Cavalieri, Della leggenda di S. Pancrazio romano, in Hagiographica, pp. 77-105].

 

Ancora oggi è possibile vedere, nella navata destra della rimaneggiata basilica barocca intitolata al Santo, il presunto cippo di pietra fissato sul luogo detto “del martirio”, dove il quattordicenne Pancrazio avrebbe appoggiato il capo, sul quale compare, a lettere capitali purpuree, la scritta moderna: «† Qui fu decapitato S. Pancrazio». Accanto ad esso è una nicchia con l’unica reliquia scampata alle profanazioni e dispersioni ottocentesche, sovrastata da un bassorilievo barocco raffigurante la scena della decapitazione. Anche qui, dunque, per “facilitare” il culto, si è preferito far coincidere quanto più possibile il luogo dell’esecuzione con quello della sepoltura.

 

 
 

 

Passando a valutare la reale origine della nostra Basilica, ciò che è più probabile è che la nascente gerarchia ecclesiastica cittadina si sia fatta fautrice delledificazione di un luogo di culto più adeguato alle necessità effettive, verificato che a partire dal IV secolo le tombe martiriali divennero ovunque i luoghi privilegiati delle liturgie e dei riti - tra cui la statio liturgica - e la meta di sempre più affollati pellegrinaggi, tali da rendere il culto dei martiri sempre meno confinato al ristretto ambito locale (E. Cattaneo, La «statio» piccolo pellegrinaggio, pp. 245-259).
 

Siamo a conoscenza difatti da uno dei Carmina natalicia di Paolino di Nola, la cui composizione iniziò a partire dal 395, che dalla vicina città di Teanum Apulum [presso lod. San Paolo di Civitate, Foggia] provenivano frotte di pellegrini che si recavano al santuario di Cimitile, presso Nola (vd. infra), dovera venerato il presbitero Felice, il cui dies natalis era il 14 gennaio (Carm. XIV,76 : CSEL XXX, p. 48).

 

Se gli abitanti di Teano si avventuravano a valicare gli Appennini in pieno inverno per venerare un famoso Santo, benché non martire, a maggior ragione lo avrebbero fatto in piena primavera, per venerare i Martiri Larinesi sepolti nella loro città, visto che quel centro «abest ad Larino XVIII milia passuum» (Cic., Cluent. 9,27), che corrispondono a poco meno di 27 chilometri.

Analoghe considerazioni valgono ovviamente, benché non si possegano elementi probanti, per le città più prossime.

 

 

Non inverosimile pensare che i movimenti di terreno, resisi necessari per creare una minima platea su cui fondare la costruzione, e le stesse opere di fondazione, abbiano comportato danni alle sepolture sottostanti, così da sacrificare anche parti architettoniche relative a precedenti sistemazioni funerarie di tipo più o meno collettivo (vd. infra); si vedano, ad esempio, i casi delle basiliche ad corpus di SantAgnese e di S. Lorenzo f.l.m. a Roma, dei Santi Alessandro, Evenzio e Teòdulo nel suburbio, edificate su complessi catacombali (S. Carletti, Le antiche chiese dei martiri romani, pp. 57-62, 64-66, 75-78; P. Testini, Archeologia Cristiana, pp. 240-241, 243-246, 249-250; V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma, pp. 27-28, 62).

 

 

L’edificio si trova a una quota di circa 420 m s.l.m., appena fuori del perimetro della cinta muraria dell’antica città romana, in una zona caratterizzata da pendii piuttosto scoscesi, tali da far pensare alla presenza, nelle sue immediate vicinanze, di un agger ovvero terrapieno difensivo, rinforzato da un muro in opera poligonale, presente sul territorio urbano fin dal IV secolo a.C. in funzione anti-romana, che difatti ritroviamo altrove, ad esempio in località Guardiola e probabilmente anche nella parte S-SO dellantico abitato, parallelamente al torrente Vallone della Terra (A. Di Niro, Le necropoli della zona costiera, in Samnium, pp. 65-66; E. De Felice, Larinum, pp. 41, 108-110, 116; Id., Larinum: spazio urbano e territorio, p. 143).

 

 
 

 

Annotiamo che invero l’area era già stata parzialmente utilizzata per seppellirvi i morti in epoca assai più antica (Id., Larinum cit., pp. 47-48, n.ro 1,19). Più a valle infatti, a meno di cento metri, in direzione nord-nord-est, lungo la strada che conduceva a Teanum Apulum, sussiste una zona in cui sono state rinvenute diverse tombe arcaiche, datate dal corredo funebre al 550-400 a.C. (G. e A. Magliano, Larino, pp. 32, 134-135; N. Stelluti, Epigrafi di Larino, I, pp. 49-50).

 

 Per mancanza di fondi il significativo edificio cultuale venne interrato, in attesa di tempi migliori, quindi nel 1980 si provvide a riportarlo alla luce e a restaurarlo, sotto la supervisione dell’archeologa Di Niro, la quale diede notizia della «esistenza di una struttura muraria di età più antica al di sotto della pavimentazione» (E. De Felice, Larinum cit., p. 47, n. 211).

 

 
 

 

Dell’antica chiesa restavano, al momento di quest’ultimo scavo archeologico, la parete curva dell’abside, con brevi resti della cupola – nel frattempo del tutto atterrata –, il muro laterale nord pressoché integro, mentre quello laterale sud era quasi raso al suolo. È ancora visibile il muro perimetrale anteriore, con l’ingresso delimitato da due blocchi di calcare. Il paramento, leggibile soprattutto nel lato nord, è costituito da fasce di blocchetti di calcare alternate a file di mattoni (opus vittatum), che il Lugli così descrive nella sua trattazione sistematica sulla tecnica edilizia romana:

 

In Roma si può considerare il modo tipico di costruire […] dall’età di Massenzio in poi […]. Questo sistema perdura con molta frequenza nell’età paleocristiana e nel primo medioevo: è preferito nelle opere murarie delle catacombe romane e nei sepolcri ad inumazione posteriori ai Severi; si accomuna con le basiliche costantiniane e con la trasformazione al culto di vecchi edifici pagani: diventa quasi il marchio dell’Impero decadente e del cristianesimo trionfante, nei numerosi restauri ai vecchi edifici dell’Urbe, adattati alla nuova fede.[4]

 

 
 

 

Ancora il Cianfarani (Scoperte e scavi cit., p. 377), riferendosi a questo tipo di paramento, ci fa sapere che esso «non ha trovato confronti nella regione o fuori, per la bontà dei materiali adoperati e per la regolarità delle strutture»; talché, arriva a qualificare la costruzione «di notevole nobiltà architettonica» (Intervista a «Il Momento-Sera» cit.).

 

Possiamo perciò ritenere che la Chiesa locale abbia commissionato la nuova opera – il primo vero edificio di culto di tutto il territorio – a maestranze provenienti da fuori, probabilmente itineranti. D’altronde sappiamo che sin dalle epoche precedenti «Le manifestazioni architettoniche all’interno della città […] furono caratterizzate, con sorprendente immediatezza, dall’adozione di tecniche e tipi edilizi ricalcate dalla capitale e dalle più evolute città tirreniche (ad es. Ostia)» (A. Di Niro, Larinum e Larino, p. 125).

 

Tenendo in considerazione esempi analoghi, credo si possa dire che la muratura in opus vittatum era certamente “a faccia vista”, abbellita da pochi semplici motivi, così come era usuale per gli edifici di culto dell’epoca, quali croci, oculi ciechi, monogrammi, ecc., ricavati con gli stessi mattoni adoperati per la costruzione. La copertura sarà stata certamente a capriata lignea con travi incatenate, probabilmente lasciate a vista; embrici in laterizio avranno coperto i due spioventi del tetto. L’illuminazione naturale sarà stata garantita da poche finestre poste sulla facciata esposta a oriente ovvero da oculi; a quella artificiale avranno soddisfatto lampade e candelabri a più bracci (O. Marucchi, Manuale di Archeologia Cristiana, pp. 363 ss.; F.W. Deichmann, sub vocem Tardo Antico: Architettura, in EUA, XIII, Roma 1963, coll. 602-608; P. Testini, op. cit., pp. 561-602).

 

Specialmente nel dies festus, le chiese cimiteriali erano rischiarate a giorno da lampade disposte a corona all’ingresso del presbiterio, accese da ceri infissi sulla croce sorretta da chierici, che la processione conduceva fino al luogo della statio liturgica (E. Cattaneo, loc. cit., p. 257); talché San Paolino di Nola poteva descrivere la basilica stazionale di San Felice a Cimitile in questi termini:

 

sic nox splendor diei

fulget et ipsa dies cælesti inlustris honore

plus nitet innumeris lucem geminata lucernis.[5]

 

 
 

 

È possibile che la nostra Basilica sia da identificare con un edificio raffigurato in un rilievo ligneo (fine XIII-inizio XIV secolo), un tempo incassato in un confessionale posto sotto il pulpito della Cattedrale di San Pardo, detto «del Vescovo», che riproduce “L’ingresso del corpo di San Pardo in Larino”, attribuito con qualche dubbio a un certo Petrus Termulensis (A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, p. 31, n. 1; per il rilievo vd. anche G.A. Tria, Memorie Storiche…, p. 307; M.S. Calò Mariani, Due cattedrali del Molise. Termoli e Larino, pp. 86-87, fig. 67a; A. Vitiello, La Cattedrale di Larino in Larino di maggio, pp. 57-58).

 

Tuttavia, tenuto conto della datazione del manufatto artistico, è presumibile che esso rappresentasse la successiva basilica a tre navate, annessa al monastero benedettino di San Primiano, edificata tra la fine del VII e gli inizi dellVIII secolo, probabilmente su impulso dei locali Signori longobardi in sinergia coi monaci benedettini, custodi delle reliquie martiriali.

 
 

 

Quanto alla datazione della nostra più antica Basilica, il Soprintendente Cianfarani ritenne che un suo inquadramento cronologico andasse collocato  a «circa due secoli dopo l’editto di Costantino», valutazione che la identifica come «chiesa paleocristiana» (Intervista a «Il Momento-Sera» cit.). In fase di relazione tecnica (Scoperte e scavi cit., p. 377), egli, pur ritenendo difficile, allo stato dei lavori, dare una datazione più precisa, antepose almeno di qualche decennio la costruzione: «ci sembra non possa abbassarsi oltre il secolo V».

 

L’insigne archeologo definisce chiaramente l’edificio come «chiesa cimiteriale, ossia elevata sopra una tomba venerata» (Intervista a «Il Momento-Sera» cit.).

 

In questo tipo di chiesa l’officiante celebrava solitamente coram populo, vale a dire rivolto verso i fedeli, proprio per lasciare libera la confessio al di là dellaltare, così da permettere la venerazione delle reliquie finanche durante la celebrazione eucaristica, poiché esse rappresentavano l’altare vivente della fede cristiana (L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, p. 62; G. Liccardo, Architettura e liturgia, pp. 69-70, 148; J.A. Jungmann, Missarum Sollemnia, I, Casale Monferrato 19632, p. 213; J. Braun, Der Christliche Altar in seiner geschichtlichen Entwicklung, München 1924, pp. 412 ss.). Per questa ragione, solo in questo particolare tipo di chiesa, l’abside era generalmente costruita a ovest, mentre la facciata rimaneva a est, proprio per consentire la preghiera del celebrante rivolta in direzione della manifestazione della παρουσία del Signore.

 

Si tratta, in realtà, di una regola quasi immutabile, che ritroviamo in numerosi esempi a noi pervenutici: significativa la vicenda della basilica cimiteriale di San Paolo f.l.m., fondata da Costantino, in forme piuttosto modeste, con l’abside e la confessio rivolte verso il Tevere, cioè a occidente, come era normale che fosse; tuttavia, quando essa fu assai ingrandita, per volere degli imperatori Teodosio I (379-395) ed Onorio (393-423), si preferì, per mancanza di spazio verso la prospiciente Via Ostiense, invertire l’orientamento, che è rimasto tale anche dopo la ricostruzione successiva al devastante incendio del 1823. Resti dell’antica abside affiorano nella confessio teodosiana [F. Tolotti, Le confessioni succedutesi sul sepolcro di S. Paolo, in RAC 59 (1983), pp. 87-149].

 

 
Planimetria Via Ostiense, basilica S. Paolo f.l.m.
Roma: Planimetria dell'area adiacente la basilica di S. Paolo f.l.m.: la basilica costantiniana (arancione), con l'abside a ovest; quella teodosiana (giallo) con l'abside a est [da Testini, Archeologia Cristiana, Bari 1980; elaborazione P. Miscione]
 

 

Nelle basiliche cimiteriali l’officiatura non era, almeno nei primi tempi, quotidiana; ragion per cui si faceva uso, in origine, di una mensa lignea di fortuna (Cypr., Epist. 4,2 : CSEL III/2, p. 474; P. Testini, op. cit., p. 675).

Dal IV secolo abbiamo sporadici esempi di costruzioni di altari sulle tombe dei martiri, come nel caso di Marusinac, presso Salona [Dalmazia], sulla tomba del martire Anastasio (304).

 

Infine, la Notitia de gestis concilii Carthaginiensis 16 iunii 401 (Concilia Africæ a. 345-a. 525, ed. C. Munier : CCL 149, p. 204) prescrive che le memoriæ martyrum non si possano stabilire se non nel locus depositionis del corpo o di reliquie, «aut ubi origo alicuius habitationis, vel possessionis vel passionis fedelissima origine traditur» (H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles 19332, p. 88).

 

 
 

 

Ancora il Soprintendente Cianfarani ci relaziona del fatto che il nostro edificio di culto è «orientato E. W.» (Scoperte e scavi cit., p. 377), come in qualche modo conferma la pianta riportata dal De Felice (Larinum cit., p. 48, fig. 21). Tuttavia rileviamo che in verità il suo asse è inclinato verso nord  di 40° circa, e pertanto l’abside rimane esposta a sud-ovest. Ciò potrebbe essere dovuto sia alla presenza di altri manufatti nei dintorni, che ne avrebbero impedito il perfetto allineamento, sia alla conformazione del terreno ovvero alla preesistenza di una strada.

 

 
Larino pianta Basilica paleocristiana
Pianta della Basilica paleocristiana dei SS Martiri Larinesi [da De Felice, Larinum, Firenze 1994]
 

 

La Basilica misura m 7,30 x 15 (E. De Felice, Larinum cit., p. 47); ma considerando l’area interna (m 6,30 x 9,90 ca.), esclusa la zona absidale, la superficie calpestabile si riduce a poco più di 62 m². Possiamo pensare che, nei giorni di grande affluenza, essa potesse contenere al massimo 150/180 persone.


Tuttavia, un santuario martiriale di questa importanza avrà avuto certamente altri edifici di servizio, se non proprio di culto, come ad esempio ritroviamo, benché su scala notevolmente superiore, a Cimitile, presso Nola, dove San Paolino e la moglie Terasia avevano dato origine a un fiorentissimo centro di culto dedicato a San Felice, assai noto e frequentato da gran parte delle genti dell’Italia meridionale (H. Brandenburg-L. Pani Ermini, Cimitile e Paolino di Nola. La tomba di S. Felice e il centro di pellegrinaggio. Trent’anni di ricerche, Città del Vaticano 2002).

 

 
 

 

   Ci è noto comunque che nei santuari, piccoli o grandi che fossero, era assai facile che lo stesso edificio di culto servisse da ricovero di fortuna, così come ci è attestato ad esempio a Canterbury, dove i pellegrini trascorrevano le ore notturne bevendo vino, con la conseguenza di ritrovarsi ubriachi e di arrivare alle mani ovvero di inserirsi bruscamente nei canti delle comunità di fedeli (J. Sumption, op. cit., p. 265).

 

Per quanto riguarda la viabilità dell’area, rileviamo che almeno tre direttrici viarie si diramavano da questo luogo di devozione: due per Teanum Apulum e una per Luceria (E. De Felice, Larinum cit., pp. 34-36, n.ri 2-6, 10-14, 17-19 della tavoletta IGM allegata); senza contare che ad esse si congiungevano altre strade che provenivano da Bovianum e da Buca (presso l’od. Termoli), rispettivamente attraverso il c.d. “Tiro a segno” e la località Carpineto (ibid., n.ri 1-22 e 291 della tavoletta IGM allegata).

 

In effetti, nessun altro luogo pubblico dellantico abitato romano consentiva un facile e comodo accesso da ogni parte si provenisse, tanto che il culto dei Martiri Larinesi trovò anche nella comoda viabilità una ragione ulteriore a che esso si propagasse nelle città limitrofe.

 

 
 

  

   Proprio per questa ragione, il grande afflusso di pellegrini generava naturalmente il fiorire di molteplici attività commerciali nei dintorni dei santuari (nundinæ), che attraevano mercatores provenienti dalla provincia e da quelle vicine. Difatti siamo a conoscenza di unantica fiera dedicata a San Primiano, che si teneva in origine dal 13 al 18 maggio (G.A. Tria, op. cit., pp. 270, 750; G. e A. Magliano, op. cit., pp. 274-275; A. Magliano, op. cit., pp. 65-66). Essa è attualmente ridotta al solo giorno 12 (G. Mammarella, Da vicino e da lontano, p. 49).

  

   Accanto alle fiere ritroviamo quanti, indigenti, approfittavano del grande afflusso di persone per chiedere lelemosina. Concederla rappresentava in effetti uno dei precetti del pellegrinaggio cristiano. I mendicanti erano onnipresenti nei dintorni dei santuari; così sappiamo di quelli che stazionavano nell’atrio della chiesa di San Martino a Tours [Indre-et-Loire, Francia], regolarmente autorizzati a occupare questa strategica piazza, i quali si davano il cambio fra di loro e in seguito si spartivano i guadagni, quasi sempre pagando il fio al personale del santuario addetto alla custodia.

 

   Anche in prossimità della tomba venerata si tentava di muovere a pietà i pellegrini, e Gregorio di Tours ci riporta tutta una serie di storie di poveri che non avevano null’altro per nutrirsi, se non queste più o meno generose elemosine (De virtut. S. Martini 1,40; 2,14; vd. anche E. Delaruelle, La spiritualité des pèlerinages..., pp. 227-228).

 

   Non manvacano purtroppo coloro i quali preferivano metodi più sbrigativi e illegali: i borseggiatori rappresentavano unendemica realtà già da allora (J. Sumption, Monaci santuari pellegrini, p. 267). La chiesa di San Leonardo di Siponto era detta anche «in Lama Volara», a causa dei molti ladri – in Francese voleurs – che la infestavano, tanto che in epoca di decadenza (1260 ca.), veniva definita «spelunca latronum», anche perché vi si aggiravano i Saraceni di Lucera (M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano, p. 57).

 

Accadeva talvolta che, nel giorno di festa di un martire, un oratore venisse designato a tessere le sue lodi davanti alla folla dei fedeli (panegiricus); ma il più delle volte la confusione era tale da impedirgli la parola, tanto da rinuziarvi (Greg. Nyss., In laud. SS. XL mart., oratio I : PG XLVI, col. 749).

 

La grande ressa che si registrava in queste occasioni nei santuari, consigliava perciò di approntare dei percorsi obbligati, talvolta vere e proprie scale di discesa e di risalita («grados ascensionis et descensionis»), così come ci attesta il Liber Pontificalis (I, p. 181) nel caso della basilica di San Lorenzo f.l.m. già nella prima metà del IV secolo, o nell’ipogeo dov’erano venerati i Santi Marcellino e Pietro, sotto papa Damaso I [366-384] (G. Liccardo, op. cit., p. 55; V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, op. cit., pp. 47, 51).

 

E di scale il nostro sito ne abbisognava eccome! E così ancora oggi.

 


 

 

La confusione e l’eccitazione, specialmente nei santuari più rinomati, erano grandi anche nei giorni non particolarmente festivi (J. Sumption, op. cit., pp. 263 ss.; G. Cherubini, Santiago di Compostella, p. 217). Poteva addirittura capitare che all’interno dei santuari avvenissero vere e proprie risse, così com’è riportato nel sermone Veneranda dies del Codex calixtinus (I,17), a proposito di due gruppi di guasconi e di francesi che si fronteggiarono a colpi di pietra all’interno della chiesa di Saint-Gilles [Bouches-du-Rhône, Francia], fino a lasciare a terra alcuni morti; o anche nella stessa Cattedrale compostellana, come risulta da un documento papale del 1207, che lascia intendere uno spargimento di sangue avvenuto al suo interno (G. Cherubini, op. cit., p. 102).

 

Si tratta di spiacevoli episodi che, anche ai giorni nostri, arrivano a coinvolgere addirittura quanti dovrebbero dare il buon esempio.

 
 

 

Il notevole afflusso di fedeli, specialmente nei giorni di festa canonici, richiedeva perciò la presenza di personale adeguato. Ci è noto difatti che i santuari, o monasteri che fossero, disponevano di personale – non necessariamente appartenente al clero – addetto alla custodia (familia e patrocinium sanctæ ecclesiæ). Nei grandi centri di culto riscontriamo che la maggior parte di questi devoti laici entrava a far parte della matricula, costituendo una sorta di factotum utili ad ogni evenienza, veri e propri servientes. Oltre alla protezione del santuario, essi assicuravano accettabili condizioni igieniche intorno alle tombe venerate, si prendevano cura di mantenere l’ordine tra le frotte di mendicanti che assediavano il sacro edificio nonché di disciplinare l’accesso al sepolcro del santo. Talvolta ad essi erano demandati compiti di vera e propria “polizia” interna, affinché non venisse violato il diritto di asilo di quanti lo avessero richiesto (E. Delaruelle, loc. cit., p. 231).

 

Per quanto riguarda i cimiteri – è questo il nostro caso –, sin dalla fine del IV secolo si venne delineando la ripartizione dei ruoli tra figure facenti parte del clero inferiore; abbiamo così i præpositi, addetti alle basiliche cimiteriali – talvolta anche veri e propri presbiteri –; i mansionarii, chierici custodi, aventi le stesse funzioni, ma che potevano avere residenza anche presso le basiliche minori; i cubicularii, o camerieri, istituiti, stando al Liber Pontificalis (I, p. 230) da San Leone Magno (440-461) presso le tombe martiriali, e solo in seguito equiparati alle categorie precedenti (P. Testini, op. cit., p. 158).

 

Ci è nota la molteplice funzione di diversi santuari martiriali, tra cui l’accoglienza e l’assistenza dei pellegrini, la cura dei malati e dei marginali. Si veda ad esempio il noto caso del complesso extraurbano di SantEulalia a Mérida [Extremadura, Spagna] (P. Mateos, Sant’Eulalia de Mérida. Arqueología y Urbanismo, Madrid 1999); più vicino al nostro è il sito di San Pietro a Canosa, dove le recenti ricerche archeologiche hanno individuato un complesso martiriale suburbano, edificato nel VI secolo dal vescovo Sabino, in cui è stata rilevata la presenza di specifici settori destinati a sepolture particolari, come un gruppo di soggetti colpiti da tubercolosi, o anche povere tombe riservate a vari individui caratterizzati da malformazioni e da segni che denotano un’esistenza fortemente disagiata (G. Volpe et al., Il complesso sabiniano di San Pietro a Canosa, Palermo 2007, pp. 1113-1165).

 

 Peraltro siamo a conoscenza della ripetuta pratica di lasciare un ex voto a scioglimento di un atto devozionale positivamente esaudito dal Santo intercessore.

 

La tipologia di questi oggetti è piuttosto varia: si va da quelli di metallo prezioso agli ex voto c.d. anatomici (braccia, gambe, cuori, organi), dalle tavolette dipinte alle armi dei soldati scampati alla morte. Intorno ai santuari più famosi gravitavano botteghe di artigiani e banchi di vendita, per chi li volesse acquistare, presentati nei loro modelli prefabbricati di varie dimensioni e tipologia. I fedeli più abbienti potevano anche sciogliere il voto contribuendo all’arredo sacro del santuario, alla costruzione di altari, al restauro di parti pericolanti, ad opere di beneficenza ed assistenza. Iscrizioni incise o dipinte sugli oggetti ne indicavano il beneficiario (P. Testini, op. cit., pp. 484-486; J. Chélini, Le vie di Dio, pp. 164 ss.).

 

Abbiamo notizia che talvolta si era soliti donare al santuario oggetti utili alla celebazione del divino officio, come ad esempio a San Martino di Tours, cera per le candele (Greg. Tur., De virtut. S. Martini 4,15: un apicoltore consacra al Santo la sua cera) ovvero vino per i calici. Tuttavia, non infrequente il caso che si facesse dono al santuario di beni assai più consistenti: case e terreni (ibid. 3,15) o addirittura schiavi  (ibid. 1,40; cfr. anche 2,57; 4,5; vd. E. Delaruelle, loc. cit., p. 228).

 

Simili oggetti si ritrovano ancora ai giorni nostri nei santuari più frequentati. Notevole è la collezione di ex voto dipinti nel Santaurio garganico di San Michele, che i devoti del luogo chiamano «li quetre dli meracule», cioè «i quadretti dei miracoli» (G. Tancredi, Folclore garganico, pp. 35-36). Nel territorio della diocesi di Termoli-Larino assai cospicua è la collezione di ex voto conservati nel Santuario diocesano della Madonna della Difesa a Casacalenda.

 

 
 

 

Qualche autore è arrivato a ipotizzare che la nostra Basilica paleocristiana rivestisse il ruolo di ecclesia cathedralis (P. Ricci, Fogli abbandonati…, p. 59; G. Mammarella, op. cit., p. 46; G. Nigro, Il Molise paleocristiano dalle origini a Gregorio Magno, p. 99); tuttavia appare quanto mai problematico identificare in quest’area il primitivo complesso episcopale della città. Difatti anche in quelle realtà urbane in cui, in via del tutto eccezionale, è esistito il complesso episcopale presso un santuario martiriale extraurbano, più accurate indagini hanno verificato che lo spostamento extra-mœnia è stato determinato da fattori esterni (L. Pani Ermini, Santuario e città fra tarda antichità e altomedioevo, pp. 868 ss.).

 

Nello studio citato si fanno gli esempi di Velletri e Arezzo, le cui cattedrali furono trasferite – la prima su diretta disposizione di papa Gregorio Magno (590-604) – presso santuari suburbani a causa dell’invasione longobarda; stesso discorso per la sede episcopale di Forum Cornelii [od. Imola], dove lo spostamento nel santuario martiriale pare avvenuto nel VI secolo, in seguito all’invasione ungara. Analoghe considerazioni, purché contestualizzate, potrebbero essere fatte per altri casi pure indicati nello studio, quali Palestrina, Canosa, Brindisi, Ancona, Sulmona, Corfinio, Sulci, Olbia, Porto Torres; per altri ancora invece, quali Trento, Vercelli, Modena, Concordia Sagittaria, sarebbero state preponderanti le calamità naturali.

 

Registriamo poi il caso di Luceria, dove la cattedrale pare fosse ubicata proprio presso una delle porte della città, benché la cinta muraria antica non sia stata chiaramente individuata. Stessa ubicazione suburbana, presso una necropoli paleocristiana, parrebbe avere anche quella di Æcæ [od. Troia]. Tuttavia in questi casi gli edifici paleocristiani extra mœnia assunsero, in epoca medievale, il ruolo di centro nevralgico dello sviluppo urbano. Non così sarebbe stato, in ogni caso, a Larino, anche perché altrove, nel frattempo, si era spostata la popolazione residente (C. D’Angela, Dall’era costantiniana ai Longobardi, pp. 331, 335; A. Campione-D. Nuzzo, La Daunia alle origini cristiane, pp. 20-21, 82 ss.; 95-96).

 

Si potrebbe quindi ipotizzare che anche a Larino l’instaurazione del potere civile longobardo, da collocare poco dopo la metà del VII secolo, che possiamo ritenere mirasse a prendere possesso di un isolato dov’era venerato l’Arcangelo Michele, ritenuto protettore di quel popolo - assai verosimilmente da collocare in prossimità dellantica cattedrale -, abbia contribuito a un momentaneo trasferimento dell’insula episcopalis presso la basilica martiriale di San Primiano, prima della definitiva soggezione alla sede beneventana, che gli storici locali fissano all’anno 668 (G. e A. Magliano, op. cit., p. 162; A. Magliano, op. cit., p. 28; per dettagli sulla questione vd. G. Mammarella, Larino sacra. Cronotassi, iconografia ed araldica dell’Episcopato larinese, I, pp. 14-17).

 

Le ragioni di tale accadimento sono evidentemente da ricercare nel desiderio del vescovo beneventano  Barbato (664-682) e del duca Romualdo I (662-687) di garantirsi il controllo delle direttrici al santuario Garganico – diocesi finitime comprese –, divenuto nel frattempo meta di pellegrinaggio di portata europea.

La successiva fondazione del monastero benedettino intitolato a San Primiano (ante 726) avrebbe ulteriormente valorizzato il sito martiriale.

 

 
 

 

Le più recenti indagini archeologiche – invero assai datate –, eseguite nel 1980 dalla Soprintendenza Archeologica del Molise, hanno ipotizzato «l’esistenza di una struttura muraria di età più antica al di sotto della pavimentazione» (E. De Felice, Larinum cit., p. 47, n. 211), e tutto lascia presupporre che ci si potrebbe trovare davanti a una più antica struttura funeraria, resti di un’edicola votiva o anche parti architettoniche relative a più sepolcri di martiri, edificate quando il culto veniva reso ancora in modo embrionale.

Questa notizia sembra avvalorata dai precedenti scavi del Cianfarani, il quale ipotizzò la presenza di sepolture collettive di tipo catacombale; per contro, sempre all’interno del manufatto, ritenne di aver individuato «delle sepolture… più tarde della fondazione della chiesa stessa» (Intervista a “Il Momento-Sera” cit.). Lo stesso Soprintendente ci relaziona che le tombe, senza corredo funebre, si trovavano significativamente all’interno dell’abside (Scoperte e scavi cit., p. 377).

 

Possibile, in teoria, che possa trattarsi delle sepolture dei primi vescovi di Larino, visto che fino al VII secolo prevalse la consuetudine di inumare i reggitori delle chiese locali all’interno dei santuari martiriali, mentre solo in seguito li si depose nelle chiese cattedrali (J.-Ch. Picard, Le souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Rome 1988, pp. 251-252, 723).

 

Va in ogni caso illustrato che questa particolare tipologia di chiesa – generata dalla deposizione di Corpi di “morti eccellenti” sarà stata certamente caratterizzata da quel significativo fenomeno definito come depositio ad sanctos, che consisteva nel cercare un posto in cui scavare la propria tomba«quod multi cupiunt et rari accipiunt» (ICUR I, 3127) –  il più prossimo a sepolture venerate  (P. Testini, op. cit., pp. 129-130, 610; P. Brown, Il culto dei santi, pp. 46 ss.).

Valga ad esempio questo significativo passo della letteratura martiriale: «Et Pompeiana matrona corpus eius (scil. Maximiliani) de iudice meruit… et sub monticulo iuxta Cyprianum martyrem secus palatium condidit. Et ita post tertium decimum diem eadem matrona discessit, et illic posita est» (Acta Maximiliani 3,4).

 

Del resto, ancora ai giorni nostri, sopravvive un detto assai eloquente «jirz’n da san Pr’miane» ossia «andarsene da San Primiano» che ripropone in maniera sintetica quale dovesse essere, sin dalle epoche più remote, il desiderio di riposare in un posto quanto più possibile vicino al “morto eccellente” appartenuto alla comunità.


Le tombe dei defunti eccezionali erano immuni dai fatti connessi alla morte. Questo avveniva non solo perché le anime degli occupanti erano in paradiso, ma perché la pace profonda del loro sonno prima della resurrezione si manifestava anche nelle loro ossa.[6]


 



esempi di depositio ad sanctos

 

 

Resta sottinteso che solo uno scavo più accurato potrebbe dirimere definitivamente la controversia, che purtroppo la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise non ritenne di portare avanti, visto che nessuna statuetta di Ercole o di Venere era spuntata fuori. Ciò consentì che «un monumento di così rilevante importanza non solo per la storia del cristianesimo primitivo in generale, ma anche e soprattutto per la vicenda storica del Molise di cui finora si hanno scarse testimonianze» restasse semisepolto, aggredito dal cemento e ricoperto da sterpaglia (lettera del prof. Testini al Sindaco di Larino, del 21 ottobre 1977, in U. Pietrantonio, op. cit., App. doc. n. 12).

 

Dispiace constatare che ciò avvenne nel più completo disinteresse delle autorità ecclesiastiche dal parroco al vescovo dellepoca che, pur non avendo magari alcuna responsabilità diretta, non fecero alcunché per evitare il disastro.

 

 

 Tutto ciò detto, a me personalmente sorge un dubbio circa la reale destinazione del significativo manufatto, poiché alcuni elementi, quali ad esempio l’ingresso asimmetrico, lascerebbero ventilare un suo uso non necessariamente riservato al culto, quanto piuttosto una sua destinazione funeraria a carattere familiare.

 

Difatti, non era infrequente che, a partire dal IV secolo, i mausolei, a carattere privato, sorgessero in prossimità o si addossassero proprio a una chiesa martiriale, come accadde, a una scala superiore alla nostra, nella Basilica Apostolorum sulla Via Appia (poi di San Sebastiano), a quella di San Pietro in Vaticano – dove sorsero i mausolei degli Anici, di Sant’ Andrea e di Santa Petronilla – o anche alla basilica di Sant’Agnese sulla Via Nomentana e a quella dei Santi Marcellino e Pietro sulla Via Labicana. Essi potevano essere destinati ad accogliere una sola tomba ovvero più sepolcri, disposti anche su più piani (P. Testini, op. cit., pp. 90-91 e p. 601, n. 2).

 

 
 

 

Il nostro edificio larinese potrebbe essere in realtà uno degli ipotizzabili mausolei posti a ridosso della chiesa cimiteriale dei Santi Martiri Larinesi – che quindi sarebbe ancora da individuare in un’area limitrofa, cosa assai ardua, vista l’onnipresenza di manufatti cimiteriali moderni –, i quali potevano avere un orientamento non necessariamente identico all’edificio principale.

 

Si veda ad esempio una costruzione più tarda (V-VI secolo), molto simile nella pianta e realizzata anch’essa con filari alternati di mattoni e tufelli, nella necropoli subdiale di Ponte della Lama presso Canosa, che però ha un orientamento esattamente opposto al nostro, avendo l’abside rivolta a nord-est, oltre all’ingresso perfettamente simmetrico (C. D’Angela, loc. cit., pp. 341-342; G. Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, p. 106; A. Campione-D. Nuzzo, op. cit., pp. 44-46).

 

 
 

  

Conosciamo almeno un altro edificio di culto paleocristiano rinvenuto nella zona, sempre nel territorio dell’antico municipium di Larinum, benché successivo alla nostra basilica, individuato di recente (2007) nei pressi dell’antica foce del fiume Biferno, in località Marinelle Vecchie di Campomarino (seconda metà del V secolo-inizi VI secolo). Qui la ricerca archeologica ha individuato «una struttura quadrangolare costituita di laterizi di riuso disposti in piano e legati con malta gialla», unitamente a «piccoli lacerti di intonaco rosso e bianco... tipici di chiese paleocristiane»; nei pressi anche un’iscrizione funeraria su lastra di marmo – la terza rinvenuta nel territorio regionale –, il cui testo è di incerta ricostruzione.

 

In epoca bizantina l’area venne occupata da una necropoli. Il sito, che vide una notevole frequentazione tra il V e il VI secolo, decadde fino al completo abbandono tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo [G. De Benedittis (ed.), Il porto romano sul Biferno tra Storia e Archeologia, pp. 16, 96-97, 119; G. De Benedittis-M. Pagano, Il porto tardo romano sulla foce del Biferno, p. 4].

 

 
 

 
    Registriamo inoltre, nella vicina villa rustica presso San Martino in Pensilis (c.da Mattonelle), il rinvenimento di diverse lucerne di tipo cristiano, del V secolo, affiorate un po’ dovunque nell’area di scavo (V. Ceglia, La villa rustica di San Martino in Pensilis, in Samnium cit., p. 276, n. 14).

 

Un secondo antico edificio di culto cristiano, più o meno coevo al nostro, potrebbe essere riconosciuto nell’aula absidata – probabilmente in origine dedicata al culto imperiale – retrostante il tribunal columnatum della basilica di Sæpinum (fine IV secolo), i cui piccoli vani posteriori sono stati identificati come prothesis e diakonikon, indispensabili alla liturgia di quei primi secoli; tuttavia la sua identificazione necessita di ulteriori approfondimenti (V. Cianfarani, Guida alle Antichità di Sepino, Milano 1958, p. 37; M. Gaggiotti, La basilica in Sæpinum, Campobasso 1982, pp. 141-142; Id., La basilica di Sæpinum, in Samnium cit., p. 249).

 

 
 

 

Le vicende della Basilica paleocristiana larinese sono state alquanto sfortunate, per non dire di peggio. Ce ne parla ampiamente lo stesso scopritore, Ugo Pietrantonio:

 

quando (ho), avuto sentore di un progetto di ampliamento dell’area cimiteriale verso la zona dove era stata individuata …, ho ritenuto doveroso gettare un grido d’allarme e una invocazione perché non venisse definitivamente impedito il ritorno alla luce di un insigne monumento. E ciò ho fatto con lettera del 30 Luglio 1977 e successivamente il 19.XI.1981. Il Sindaco di Larino – che all’epoca era l’avv. Egidio Iannucci (N.d.A.) –, con nota n. 11891 del 7.12.1981 così si espresse: “In considerazione delle Sue raccomandazioni faremo sì che l’area antistante da Lei indicata resti libera, in modo che in un prossimo futuro si possa intervenire”. […] A dieci anni di distanza da quella assicurazione ho dovuto constatare che l’area da me indicata era stata coperta tutta di costruzioni in cemento pregiudicando, in tal modo, qualsiasi possibilità di resurrezione! E così ho scritto l’ultima pagina non di appello ma di dolorosa constatazione, con una lettera inviata al sindaco di Larino in data 26 maggio 1991. Oramai non c’era e non c’è più niente da fare.[7]

 

Pur sempre amara, ma con un briciolo di speranza, l’ultima pagina riempita dall’Autore in Appendice:

 

Metterò insieme, alla meglio, i miei ricordi e le mie testimonianze, in maniera che si possa dire, anche nel futuro, che a Larino c’è stata una basilica paleocristiana, facilmente rilevabile ed ora difficilmente riesumabile perché una coltre di cemento l’ha definitivamente sepolta nel cimitero. E così facendo mi auguro che il modesto ricordo possa far sopravvivere la “sepolta” per alimentare e rafforzare la devozione secolare per i “nostri” santi Martiri e l’amore per la nostra Larino.[8]

 

   Venendo ai nostri giorni, verifichiamo lo stato di estremo degrado in cui versa tuttora l’importantissimo edificio, malgrado le meritorie iniziative di privati, che non hanno comunque risolto il problema della tutela e della valorizzazione del bene.

 

 
 

  

La Basilica è oramai pressoché inaccessibile, tranne che per un piccolo varco di poco più di un metro posto accanto all’abside e al muro meridionale, essendo circondata da una tipologia diversificata di manufatti afferenti il cimitero, in cui oramai si trova inglobata: un alto muro di recinzione pertinente il vecchio camposanto ottocentesco, una scala di cemento, un recente colombario, un secondo muro di tufo più basso. Malgrado ciò, essa risulta ancora leggibile nei suoi mal tenuti resti, benché la sterpaglia la aggredisca sempre più.

 

Si è voluto, con queste note, incoraggiare quanti avranno a cuore la riscoperta del sito, facendo mio l’augurio dello studioso che la rinvenne e che ebbe a lanciare il grido di dolore.

 

 

 

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[1] V. Cianfarani, art. Scoperte e scavi, in «Fasti Archæologici» IV (1949), n. 3857, p. 377; vd. anche: D. Priori, La Frentania, II, Lanciano 1959, rist. anast. Lanciano 1980, pp. 36-37; V. Monachino, La prima diffusione del Cristianesimo in Abruzzo, in «Abruzzo» VI/1 (1969), pp. 92, 102; V. Ferrara, La Diocesi di Trivento. (Periodo delle origini), Penne 1990, pp. 432-436 (intervista al Soprintendente V. Cianfarani, lettera del prof. P. Testini), pp. 443, 445 (relazione mons. A.P. Frutaz, del 30 maggio 1978, per conto della Congregazione per le Cause dei Santi); U. Pietrantonio, Considerazioni e Osservazioni su alcune Opere di Storia del Molise recenti e passate, Campobasso 1992, pp. 35-38 e App. doc.; E. De Felice, Larinum, Firenze 1994, pp. 47-48, n.ro 1,18; N. Stelluti, Epigrafi di Larino e della bassa Frentania, Campobasso 1997, I, pp. 49-50; G. Mammarella, Da vicino e da lontano, Larino 1986, pp. 123-125, 155; Id., Larino Sacra. La diocesi, la genesi della cattedrale, i SS. Martiri Larinesi, II, San Severo 2000, pp. 64-67; Id., I Santi Martiri Larinesi, Termoli 2001, pp. 19, 39; D.A. Aquilano, L’organizzazione religiosa delle campagne nella costa meridionale abruzzese e nel Molise, in Alle origini della parrocchia rurale (IV-VIII sec.). Atti della giornata tematica dei Seminari di Archeologia Cristiana, ed. Ph. Pergola, Città del Vaticano 1999, p. 442 e n. 29; G. Nigro, Il Molise paleocristiano dalle origini a Gregorio Magno, VetChr 40 (2003), p. 99; I.M. Iasiello, Samnium. Assetti e trasformazioni di una provincia dell’Italia tardoantica, Bari 2007, p. 88.

[2] V. Cianfarani, Intervista a «Il Momento-Sera», in U. Pietrantonio, op. cit., App. doc. n. 1.

[3] P. Franchi de’ Cavalieri, Un recente studio sul luogo del martirio di S. Sisto II, in Note agiografiche, VI, Roma 1920, p. 160, n. 1.

[4]  G. Lugli, La tecnica edilizia romana, Roma 1957, pp. 643-645.

     [5] Paul. Nol., Carm. XIV, 101-103.

    [6] P. BrownIl culto dei santi. Lorigine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 2002, p. 108.

[7] U. Pietrantonio, op. cit., p. 36; vd. anche App. doc. nn. 9, 16-18, in cui sono riportati i documenti citati.

[8] Ibid.

 

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Commenti: 3
  • #1

    Giuseppe (domenica, 23 agosto 2015 19:39)


    A leggere tutte queste notizie viene da pensare che dietro ci deve essere stato un grande lavoro. Noi non le sapevamo affatto, rimanendo le nostre conoscenze limitate a quei pochi cenni che ritroviamo nelle pubblicazioni indicate anche in questa pagina. Molte grazie.

  • #2

    Franco (mercoledì, 18 novembre 2020 16:59)

    Articolo scritto in maniera molto dettagliata e completa che include anche confronti con altri siti e/o rinvenimenti archeologici, nozioni più generali di archeologia tardoantica e cristiana e un dettagliato riferimento bibliografico.
    Ringrazio vivamente l'autore, mi è stato molto utile nella compilazione della mia tesi triennale!

  • #3

    pinomiscione (lunedì, 23 novembre 2020 15:24)

    Gentile Franco, grazie a lei dell'apprezzamento. Mi auguro che vorrà citare questa pagina del mio sito tra le fonti bibliografiche della sua tesi.

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