Giudizio e morte a Luceria

LUCERA

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bbiamo chiarito, nelle pagine precedenti, che la fase istruttoria del procedimento penale contro i componenti la comunità cristiana di Larinum si sarà certamente tenuta nella stessa città frentana, sotto la piena responsabilità del magistrato municipale.

 

   Secondo le normative dell’epoca,  gli accusati venivano in-

 
  viati con un elogium, o rapporto informativo, ai governatori, i quali detenevano lo ius gladii ovvero il potere di comminare sentenze di morte (Passio Mariani et Iacobi 5; Martyrium Polycarpi 9,2; Acta martyrum Scilitanorum 1; Martyrium Pionii 10,4; 15,3; 19,1; Martyrium Carpi 1; altri esempi in G. Lanata, Gli atti dei martiri come documenti processuali, p. 90, n. 1). Si dava in tal modo una base probatoria al processo vero e proprio, in cui il giudice avrebbe assunto anche la figura di pubblico accusatore.

 

Per questa seconda fase del procedimento penale dovremmo pensare, a parer mio, a qualche altra localizzazione. Del resto, le minime “coordinate agiografiche” relative ai nostri Martiri ci dicono che essi «extra Larinum ... Martyrium compleverunt» (G.A. Tria, Memorie Storiche..., p. 750), per cui si deve ritenere non del tutto illogico che con questa locuzione si volesse tacitamente intendere che essi subirono il martirio «extra territorium Larini».

 

 
Territorio di Larinum
I confini del "municipium" di Larinum, nell'ambito dell'attuale territorio del Molise
 

 

Difatti, va posta nella dovuta luce la genericità dell’espressione «extra Larinum», che ci porterebbe ad escludere, oltre che il riferimento a un tempio di Marte, anche un qualsivoglia sito posto a pochi metri da una porta urbica – come vorrebbe la tradizione –, ed anzi sottintenda che esso si trovasse significativamente al di fuori del recinto delle mura; perché, se così non fosse stato, sarebbero risultate più appropriate le dizioni «ante muros», «iuxta portam urbis», «iuxta urbem», «foris urbis portas», «foris civitatem», «foras muros portæ» ed altre similari, come ad esempio nella passio della martire ostiense Aurea (AA.SS. Aug. IV, p. 761), in cui, a proposito del martire portuense Nonno, si dice che fu gettato «in foveam ante muros urbis, iuxta alveum Tyberis», e fu sepolto «in eodem loco, non longe ab ipso puteo, sed quasi pedes plus minus sexaginta».

 

Per di più, nel più antico «Codex XII. circiter Christi seculo exaratus», di cui ci parla il Pollidoro, nulla di specifico è detto riguardo alla città in cui avvenne il martirio (Vita et antiqua monimenta..., p. 53); talché né lui né conseguentemente il Tria si pronunciano esplicitamente sul martirio avvenuto a Larino, limitandosi entrambi a registrare quanto riportato, l’uno nel Vetus Martyrologium termolese («Idibus Maii ... Alarini Natalis Sanctorum Martyrum Primiani, Firmiano, et Casti»), l’altro nel Proprio napoletano («extra Larinum ... Martyrium compleverunt»).


Con ciò non si vuole negare che, almeno un numero limitato di fedeli cristiani appartenenti alla comunità di Larinum probabilmente quelli detenuti nelle carceri cittadine in attesa del processo, e lì deceduti, se non altri sommariamente giustiziati, in quanto non cittadini abbiano testimoniato la loro fede fino allo spargimento del sangue nella loro città di origine; e perciò non appare in ogni caso affatto fuorviante parlare di Santi Martiri Larinesi.

 

Del resto, la posizione estremamente eccentrica di Larinum nell’ambito del territorio della provincia Apulia et Calabria, al suo limite settentrionale, quasi al confine con la provincia Campaniæ, avrebbe reso assai disagevole per il corrector recarvisi apposta, a maggior ragione se consideriamo come caput provinciæ la città di Canusium (Canosa), distante da Larinum circa 155 chilometri.

 

 

 

La "provincia Apulia et Calabria" al tempo della riforma amministrativa di Diocleziano (290-293 d.C.)
La "provincia Apulia et Calabria" al tempo della riforma amministrativa di Diocleziano (290-293 d.C.): il terrirtorio di Larinum è al confine nord [da Grelle-Volpe, La geografia amministrativa ed economica..., Bari 1994; elaborazione P. Miscione]
 

 

La riforma amministrativa dei Tetrarchi aveva sensibilmente limitato le antiche autonomie municipali e in ogni distretto furono creati numerosi officia periferici dell’amministrazione imperiale, subordinando ad essi le istituzioni di autogoverno cittadine, sottoposte a continue interferenze e a capillari controlli, sicché gli amministratori cittadini divennero semplici collaboratori esterni (F. De Martino, Storia della costituzione romana, pp. 496 ss.).

 

In teoria il governatore si sarebbe dovuto spostare con una certa regolarità all’interno del territorio affidatogli, ed anzi lo avrebbe dovuto percorrere incessantemente (F. Grelle, Canosa romana, p. 162 e App. pp. 234 ss.); tuttavia la prassi amministrativa lo costringeva a prolungare i suoi periodi di residenza nel capoluogo provinciale, soprattutto a motivo della farraginosa organizzazione burocratica, che faceva ampio uso della documentazione scritta e della conseguente archiviazione, tipiche dell’amministrazione tardoantica (ibid., p. 380; F. Grelle-G. Volpe, La geografia amministrativa ed economica..., pp. 24-25; G. Volpe, Contadini, pastori..., pp. 98-99).

 

Abbiamo cognizione difatti che col riassetto amministrativo dioclezianeo, l’ordinamento giudiziario delle provinciæ vide la scomparsa del conventus iuridicus, le assise periodiche durante le quali i governatori rendevano giustizia, spostandosi nelle città a ciò designate [F. De Martino, op. cit., pp. 329, n. 48, 485 ss.; F. Armarelli (ed.), Politica e partecipazione nelle città dell’Impero romano, p. 7].

 

La consistente diminuzione del numero delle circoscrizioni provinciali rese non necessari gli excursus del governatore e del suo numeroso seguito (NDOcc. XLIV,6-14), così come sovente avveniva in precedenza (Martyrium Carpi 1,1; Martyrium Pionii 19,1), consentendo invece che i processi venissero celebrati in un’unica sede territoriale, la città che esercitava – almeno pro tempore – il ruolo di caput proviniciæ (F. Grelle, Iudices e tribunalia..., pp. 183-184).

 

Pur tuttavia, quando ammesso, né il governatore provinciale né gli amministratori potevano scegliere la città sede del conventus, essendo di esclusiva prerogativa dell’Imperatore, che conferiva o sopprimeva tale privilegio (F. Armarelli, op. cit., p. 5). «Sarebbe stato così possibile ottenere un continuo, diretto, capillare coinvolgimento del præses nelle cause portate al suo tribunale, secondo un indirizzo di politica amministrativa che avrebbe perseguito una riorganizzazione gerarchica e burocratica del sistema giudiziario» (F. Grelle, Iudices e tribunalia cit., p. 118).

 

Nel solco di questa linea, un editto dei Tetrarchi, del luglio del 294, ribadiva l’obbligo dei præsides di occuparsi direttamente dell’amministrazione della giustizia, limitando al massimo il ricorso alla delega a sostituti – gli iudices pedanei – per i casi di gravi impedimenti (CI III,3,2: «vel per occupationes publicas vel propter causarum multitudinem»; F. De Marini Avonzo, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, II, pp. 198 ss.)

 

 
 

 

Ebbene, grazie al fortuito ritrovamento di un’epigrafe celebrativa, siamo a conoscenza del fatto che, nella prima età di Valentiniano I (fra il 20 marzo del 364 e il 24 agosto del 367), nella città di Luceria si rese necessaria l’edificazione di strutture più adeguate per lo svolgimento di un’attività giudiziaria sempre più articolata e complessa, probabilmente all’interno della basilica situata nel Foro cittadino, cui contribuirono un ignoto corrector e la curia municipale.

 Questo il testo del significativo documento (A. Russi, Una nuova iscrizione tardoantica da Luceria, p. 41):

 

[Impp. Caess. D.D.] n.n. valentinia[no] | [et Valente Victorio]sissimis semper | [Avg]g. | [...]nvs v.c. corr. | [se]cretarivm tribvnal | vsqve ad consvmmationem | stvdiis cvriae florentis extrvxit

 

L’epigrafe è stata rinvenuta nel territorio del comune di Torremaggiore, al confine con quello di Lucera. È assai probabile, a detta degli archeologi che la rinvennero, che però essa si trovasse in origine proprio nella basilica del Foro lucerino. 

 

Nel testo si fa esplicito riferimento all’erezione ex novo di un secretarium e di un tribunal, benché qualche autore ritenga, con fondamento, che «non si possa escludere un rifacimento o un ampliamento di strutture preesistenti» (L. Pietropaolo, Lucera in età romana, p. 114).

 

 

 

 

Col primo termine (negli acta in Greco τὸ  σικριταριω̣, τὸ σέκρετον, τὸ σήκρητον) si voleva intendere l’ufficio in cui il magistrato esercitava le sue funzioni amministrative o – come nel caso di persecuzioni –, giudiziarie. La sala dell’udienza era divisa in due dal velum, al di qua del quale era il secretarium vero e prorprio, ovvero la camera di consiglio, in rari testi denominata frontisterium (τὸ φροντιστήριον) [G. Lanata, op. cit., p. 226; cfr. Acta Phileæ (testo greco Papyrus Bodmer XX) 16,10; (testo greco Papyrus Chester Beatty XV) 10,10; (textus latinus) 5,47].

 

Il secondo termine, che evoca il giudizio pro tribunali, ci riporta che nella città dauna erano trattati anche i casi penali più gravi, «quelli per i quali l’antica procedura meglio risponde(va) alle nuove esigenze di una giustizia spettacolare terribile», mentre nel secretarium la prassi giudiziaria tendeva a collocarvi le controversie patrimoniali; ed abbiamo tutta una legislazione successiva tesa a limitarla al massimo, al fine di impedire che la riservatezza finisse per divenire facile strumento di corruzione di pubblici funzionari [Cod. Theod. I,12,1 (8 novembre 313); ibid. I,16,6 (1° novembre 331)] (F. Grelle, Canosa romana cit., pp. 188-189].

 

Lo stesso processo di Gesù di Nazareth avvenne pro tribunali: «Pilatus ergo, cum audisset hos sermones, adduxit foras Iesum et sedit pro tribunali in locum, qui dicitur Lithostrotos, Hebraice autem Gabbatha» (Gv 19,13; cfr. anche Mt 27,19).

Tuttavia la letteratura martiriale ci riporta diversi casi di condanne di martiri avvenute proprio nel secretarium (Acta martyrum Scilitanorum 1; Acta Eupli 1,1; Acta Cypriani 1,1).

 

Il giudice poteva processare e condannare nel secretarium, ma a precise condizioni: che fossero aperte le porte (Cod. Theod. I,16,9), alzato il velum (ibid. XIII,9,6) e ammesso il popolo (ibid. XI,7,20); quando ciò non avveniva, la sentenza veniva letta, a mezzo di un banditore, al pubblico che attendeva all’esterno (cfr. Acta Martyrum Scilitanorum 16: «Saturninus proconsul per præconem dici iussit...»; cfr. G. Lanata, op. cit., p. 87).

Va detto che proprio l’epigrafe lucerina certifica che la scelta dell’una o dell’altra struttura era demandata alla valutazione del corrector (M. Gaggiotti, Le iscrizioni della basilia di Sæpinum..., p. 123).

 

 

 

 

 Il significativo documento epigrafico lucerino testimonia l’accresciuta importanza della città dauna alla metà del IV secolo, che già sotto Costantino e in onore del quale era appellata Civitas Constantiniana (CIL IX,801). «La presenza del governatore a Luceria doveva essere frequente e consueta, [...] Lucera diveniva pertanto una delle sedi nelle quali periodicamente doveva recarsi il corrector per amministrare la giustizia per tutto il distretto circostante» (G. Volpe, op. cit., p. 115; F. Grelle, Iudices e tribunalia cit., p. 117.); talché possiamo fondatamente ritenere che sin dall’epoca dioclezianea essa costituisse un centro nevralgico nell’organizzazione giudiziaria della provincia, assumendo una rilevanza distrettuale, benché tale ruolo, qualche decennio dopo, si renda chiaramente profilato nella città di Canusium [od. Canosa]; mentre, al contrario, al principio del secolo esso era conteso fra diverse realtà urbane, quali Beneventum [od. Benevento] – ricadente in essa per pochi decenni (nel 333 ca. passò alla Campania) –, Æclanum [od. Mirabella Eclano, Avellino], Venusia [od. Venosa, Potenza], Sipontum [presso od. Manfredonia, Foggia] e probabilmente anche Tarentum [od. Taranto], Brundisium [od. Brindisi] ovvero Herdonia [od. Ordona, Foggia] (F. Grelle-G. Volpe, op. cit., pp. 28 ss.; G. Volpe, op. cit., pp. 91 ss.).

 

In quest’elenco vediamo che Larinum non è compresa.

 

 
 

 

Possiamo perciò tranquillamente assumere che le azioni giudiziarie contro i cristiani di Larino muovessero da Lucera; tanto che dobbiamo pensare che a questo remoto ricordo rimasto nella memoria collettiva siano dovuti alcuni riflessi presenti nei testi agiografici che raccontano del trafugamento dei corpi dei Martiri Larinesi ad opera dei Lucerini trasferitisi a Lesina, cui fece da rivalsa il trafugamento del “lucerino” San Pardo.

  

  Peraltro, la città di Lucera ha continuativamente svolto un significativo ruolo nell’ambito giudiziario anche nei secoli a venire, fino a quando il Tribunale penale e civile è stato ridimensionato in epoca moderna, a vantaggio di quello di Foggia.

 

 

Dobbiamo quindi immaginare i nostri Fratelli Larinati – già tratti in arresto – prelevati dal Castellum aquæ, adattato a carcere, da un drappello di milites, e fatti salire su uno o più carri coi polsi legati e le catene ai piedi. Da qui il triste convoglio avrebbe sferragliato per poche centinaia di passi sui basoli della strada fino alla porta urbica posta a oriente della città, per imboccare la strada che conduceva a Lucera. Cominciava l’ultimo tratto della loro personale Via Crucis.

 

 


 

 

Giunti in città nel corso della stessa giornata, saranno stati ricondotti in galere probabilmente meno di fortuna, in attesa del processo, poiché in quella realtà urbana più rilevante saranno certamente esistite strutture più adatte per tenervi persone tratte in arresto dalle varie civitates e dai vici sui quali il governatore provinciale aveva giurisdizione.

Ipotizzabile una localizzazione di questa più capiente prigione in unarea non molto distante dal Foro cittadino.

 

È quindi assai probabile che qualche giorno prima delle Idi di maggio del 304, l’alto funzionario imperiale abbia dato inizio al procedimento penale contro i martyres designati provenienti da Larino proprio all’interno del tribunal della città di Luceria, al fini di rendere effettivi gli editti di persecuzione sul territorio della provincia. Il teatro di questa drammatica azione va quindi inquadrato ancora una volta nell’area del Foro, recentemente ricollocato poco più a sud dell’odierna Cattedrale – dove un tempo si riteneva sorgesse –, nei pressi di Porta Troia, nell’area del Mercato Vecchio, all’incrocio del cardo maximus (direzione SO-NE) col decumanus maximus (direzione ESE-ONO) [E. Lipollis-M. Mazzei, L’età imperiale, p. 263, fig. 313].

 

 

 

 

La prassi voleva che il governatore-magistrato, che assumeva anche la figura di pubblico accusatore, prendesse posto su uno scranno posto al centro di un’aula (Martyrium Carpi 2; Martyrium Pionii 19,2; Acta Cypriani 3,1; Martyrium Agapæ 3,1; per il processo a Gesù di Nazareth cfr. Mt 27,19: «Mentre egli (Pilato) sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: Non avere a che fare con quel giusto (Gesù) ... »); egli era assiso solitamente su una specie di palco – la catasta [Passio Perpetuæ et Felicitatis 5,6; 6,2; Acta Phileæ (textus latinus) 1,2; Mariani et Iacobi 6,7] – avendo ai suoi lati, disposti a semicerchio, un certo numero di assistenti (cohors amicorum), componenti il consilium (Acta Cypriani 3,4), tra cui anche advocati [Acta Phileæ (textus latinus) 8,2], che poteva consultare in caso di difficoltà di ordine giuridico, nonché il notarius o exceptor, addetto alla stesura del protocollo giudiziario [γράφοντος negli Atti in lingua greca (Martyrium Pionii 9,1)].

 

Lo coadiuvavano anche diversi stenografi-segretari (G. Lanata, op. cit., pp. 15 ss). Ci è noto difatti che sin dal I secolo d.C. la burocrazia imperiale aveva dimostrato tutta la sua scrupolosa cura nel conservare i propri atti ufficiali, servendosi di quste figure (ibid.). La riforma tetrarchica aveva poi notevolmente appesantito le procedure, facendo sempre più ricorso alla documentazione scritta e alla sua conservazione.

   L’ufficio del governatore poteva contare anche su alcuni commentarienses, segretari addetti ai commentarii (κομενταρησίου, κομενταρήσιος), registri amministrativi delle autorità.

 

 


 

 

Nei casi in cui era consentita la presenza del pubblico, esso partecipava anche vivacemente, imprecando e chiedendo talvolta punizioni esemplari [Acta Phileæ (textus latinus) 7,8s; Martyrium Pionii 10,4; Martyrium Polycarpi 12,2.3; Martyrium Lugdunensium (V),1,10]. Il giudice aveva la facoltà di servirsi della tortura, e spesso minacciava di farlo al fine di ottenere la confessione della colpa [Martyrium Polycarpi 11,1; Martyrium Lugdunensium (V),1,25; Passio Agnetis in Prud., Peristeph. XIV,15-20; Acta Iustini (recensio B) 5,5; Martyrium Cononis 5,5; Passio Irenæi 4,3].

 Tuttavia, nel caso dei cristiani, visto che il presunto delitto era proclamato a voce alta e non di rado col sorriso sulle labbra, essa mirava più che altro a farla negare, addivenendo all’abiura mediante il sacrificio agli dei pagani o all’Imperatore (Martyrium Carpi 10; Martyrium Apollonii 8; Passio Fructuosi 3,5; Passio Mariani et Iacobi 11,6).

 

  La tortura come modo di estorcere una confessione qualsiasi ci è documentata anche nell’orazione ciceroniana che più ci riguarda da vicino: «non id agi ut verum inveniretur sed ut aliquid falsi dicere cogerentur» [(La tortura) si svolgeva, non per scoprire il vero, ma per costringere i torturati a dire qualcosa di falso] (Cic., Cluent. 63,177).

 

 
 

 

L’interrogatorio non di rado abbisognava di più sedute (Acta Apollonii 11) e l’uso dei tormenti, dove ritenuto utile, poteva continuare anche per giorni [Martyrium Lugdunensium (V),1,18; Martyrium Eupli (BHG, p. 630)], per cui poteva accadere che la morte sopravvenisse in questo drammatico contesto [Cypr., Epist. 10,2: «tolerastis usque ad consummationem gloriæ durissimamam quæstionem… finem doloribus quem tormenta non dabant coronæ dederunt»; (ibid., 10,4): «Mappalicus… in agonis promissi certamine coronatus est»; Eus., Hist. eccl. VIII,6,4].

 

 Il termine tecnico per l’aggiornamento di una seduta è dilatio (ύπέρθεσις, α̉ναβολή, ύπερβολή), usata sia dagli avvocati per ottenere un qualche beneficio che dagli stessi giudici, vuoi per compassione, vuoi nella speranza di poter smuovere l’imputato dal suo proposito [Eus., De mart. Palæst. VI : PG XX, col. 1481; cfr. Acta Martyrum Scilitanorum 11,13; Acta Apollonii 10; Martyrium Pionii 20,4; Acta Phileæ (textus latinus) 6,12; vd. anche G. Lanata, op. cit., pp. 155, 240].

 

 
 

 

Non infrequente la pratica della tortura anche da parte dei carcerieri, per puro sadismo, durante la custodia tra una seduta e l’altra [Acta Phileæ (testo greco Papyrus Bodmer XX) 1,7-9; 2,1; Martyrium Pionii 18,10; vd. anche l’incoronazione di spine, gli sputi e le percosse a Gesù di Nazareth (Mt 27,29s; Mc 15,17.19; Gv 19,2s)].

 

 

Tornando al nostro caso, approssimandosi le Idi maggio del 304, in applicazione del IV editto di aprile, che prevedeva la condanna a morte dei rei che si rifiutavano di sacrificare agli imperatori, vennero celebrati i processi riguardanti i rappresentanti del clero e tutti gli altri cristiani di Larino, quasi certamente nel corso di procedimenti separati. La condanna per decapitazione avrà riguardato coloro i quali detenevano la cittadinanza romana – e tra questi ovviamente i nostri tre Santi –, mentre per gli schiavi cristiani o comunque tutti i non cittadini era del tutto plausibile dannarli alle bestie o alla crocifissione.

 

 
 

 

Dove poi sia avvenuta l’esecuzione della condanna a morte per decapitazione dei Santi Martiri Primiano, Firmiano e Casto, che abbiamo visto era quasi sempre pubblica, escluse o quantomeno ridimensionate le ipotesi che la volevano a Larino, nelle immediate vicinanze della cosiddetta Porta Orientale – Sipontina in questo sito – ovvero all’interno dell’Anfiteatro cittadino, non è argomento che si possa accertare una volta per tutte, non essendo ben chiaro dove si tenessero le esecuzioni capitali nella città di Luceria; ma certamente essa andrà inquadrata in un’area damnatorum posta lungo una delle strade di accesso.

 

Se è da escludere la via verso sud che portava a Æcæ, a motivo del carattere elegante delle tombe monumentali ai suoi lati, benché più vicina all’area del Foro, ritengo più probabile che essa si trovasse sulla via che usciva a nord-ovest, in direzione di Teanum Apulum, anche in considerazione della localizzazione assai prossima di una necropoli molto estesa e frequentata in gran parte dal popolo minuto.

 

 
Le antiche strade uscenti dal centro urbano di Luceria
Le antiche strade uscenti dal centro urbano di Luceria; a nord la direttrice che conduceva a Teanum Apulum (in viola), ricollocata un po' più ad est di quanto ipotizzato [da Marin, Topografia storica della Daunia antica, Napoli 1970; elabor. P. Miscione]
 

 

A provvedere a dare corso alla sentenza di morte erano, specialmente in età imperiale, i soldati: «Ώς  δὲ  όστρατιώτης  τὰ  ξύλα ε̉πιτιθεὶς ύφη̃πτεν,  ό άγιος  Κάρπος κρεμώμενος ει̃πεν·» [Quando il soldato, accatastate le fascine, diede loro fuoco, il santo Carpo sospeso al legno disse…] (Martyrium Carpi 40); «ε̉πὶ̀  του̃̃  ξύλου καὶ  παρέδωκε  τω̣̃  στρατιώτη̣ πει̃ραι τοὺς ήλους» [Si distese sulla croce e lasciò che il soldato conficcasse i chiodi] (Martyrium Pionii 21,2); relativamente a Gesù di Nazareth cfr. anche Mt 27,31: «Dopo averlo deriso, (scil. i soldati) lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo»; Gv 19,23: «I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato – e la tunica»; 19,32: «Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui» (cfr. anche Lc 23,33.36).

 

 I carri dei condannati alla decollatio vennero dunque condotti, sotto scorta di un drappello di milites, lungo la strada sopradetta e qui lo spiculator avrebbe loro reciso la testa.

 

  Sovrintendeva all’esecuzione della pena un centurione. Ritroviamo questa figura di ufficiale romano in alcuni passi di Seneca: «centurio supplicio præpositus» (De ira I,10); «centurio agmen periturorum trahens» (De tranq. an. 14), come pure è documentata nel caso di Gesù di Nazareth: «Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù … furono presi da grande timore» (Mt 27,54; cfr. Mc 15,39.44s; Lc 23,47).

 

 
 

 

Se poi condanna ad bestias ci fu effettivamente per qualche membro della comunità cristiana larinese rimasto anonimo, anch’essa andrebbe collocata nell’Anfiteatro della città in cui si era tenuto il processo, vale a dire Lucera.

 

 
Planimetria generale dell'Anfiteatro di Lucera
Planimetria generale dell'Anfiteatro di Lucera [da Bartoccini, Anfiteatro e gladiatori in Lucera, «Japigia» 7, 1936]
 

 

   L’anfiteatro lucerino venne edificato, quasi certamente all’interno delle mura urbane, al momento della fondazione della colonia augustea (27 a.C.-14 d.C.), a spese e su terreni di proprietà di un certo Marcus Vecilius Campus, membro di una nota famiglia lucerina, prefetto dei fabbri, tribuno militare, duoviro iure dicundo e pontefice, dedicato alla locale comunità e allo stesso Augusto. Ce lo riporta un’epigrafe:

 

m(arcus) vecilivs m(arci) f(ilius) l(ucii) n(epos) campvs praef(ectus) fabr(um) tr(ibunus) mil(itum) iivir ivr(e) dic(undo) pontifex | amphitheatrvm loco privato svo et maceriam circvm it(em) sva pec(unia) in honor(em) imp(eratoris) caesaris avgvsti | coloniaeque lvceriae f(aciundum) c(uravit)

 

   I due assi misuravano m 131,20 x 99,20 (quello di Larinum li aveva di m 97,80 x 80), mentre l’arena era di m 75,20 x 43,20 (Larinum: m 59,20 x 41,40), e poteva ospitare dai 16.000 ai 18.000 spettatori (10.000 circa a Larino) [R. Bartoccini, Anfiteatro e gladiatori in Lucera; F. Schettini, L’anfiteatro augusteo di Lucera, pp. 3-33]. L’Anfiteatro di Lucera è stato certamente adoperato per munera, cioè combattimenti di ludi gladiatorii, venationes, probabilmente per naumachie, ma assai plausibilmente per le esecuzioni capitali, comprese la damnatio ad bestias dei martiri cristiani (R. Barone, Lucera e il suo Anfiteatro, p. 140).

 

 
Percorso dal Foro all'Anfiteatro di Lucera
Il percorso dal Foro cittadino (rettangolo giallo) all'Anfiteatro (ovale giallo); in verde, la prima ipotesi di localizzazione del Foro, a ridosso della Cattedrale
 

 

   Dal Foro di Luceria, i littori aprivano il solenne corteo, seguiti dai suonatori di strumenti a fiato, quali buccinæ, corni, tube e liuti. I musicanti avrebbero suonato anche durante le varie fasi più notevoli, allinterno dellarena. La pompa circensis introduceva quindi leditor, ossia lorganizzatore dei giochi, cui seguivano portatori di cartelli recanti le motivazioni della condanna a morte dei rei (tituli, vd. infra) nonché le indicazioni delle varie coppie di gladiatori che si sarebbero affrontate. Chiudevano il corteo i gladiatori stessi, rivestiti delle loro armature colorate e lucenti, quindi i venatori che avrebbero simulato scene di caccia, mentre in coda stavano i condannati a morte.

  

   Percorso verso nord buona parte del cardo, il corteo avrebbe deviato verso oriente sfilando lungo la strada rettilinea che menava all’arena cittadina, fino a farvi ingresso attraverso la porta sanavivaria (Passio Perpetuæ et Felicitatis 10,13; 20,7).

Lungo il tragitto, possiamo ritenere che i condannati a morte siano stati fatti bersaglio di oggetti lanciati dalla folla inferocita. Ci è difatti nota la ferocia della plebaglia pagana, come nel caso di quel grido ricorrente riportatoci da Tertulliano: «Christianos ad leonem!» (Apol. 40,2; Id., De pudic. 22,3: «leone concesso»).

 


 

    

Si tratta di un atteggiamento fanaticamente anticristiano del popolo che ritroviamo assai spesso, come ad esempio durante la violenta persecuzione di Vienne e Lione: «Καὶ πρω̃τον μὲν  τὰ  α̉πὸ  του̃  όχλου  πανδημεὶ σωρηδὸν ε̉πιφερόμενα  γενναίως  υ̉πέμενον ε̉πιβοήσεις καὶ πληγὰς καὶ συρμου̃ς καὶ διαρπαγὰς καὶ πάνθ’ όσα η̉γριωμένω̣  πλήθει ώς πρὸς ε̉χθροὺς καὶ πολεμίους  φιλει̃ γίνεσθαι» [Essi hanno sopportato valorosamente la sequela di ingiurie inflitte loro dalla massa solidale. Sono stati insultati, malmenati, trascinati al suolo, sono state loro stracciate le vesti… tutto quel che una folla inferocita sa infliggere a quanti ritiene a sé ostili e nemici] (Martyrium Lugdunensium [V],1,7); «Καὶ  περιαχθεὶς κύκλω̣  του̃  α̉μφιθεάτρου ... καὶ του̃  δήμου σφόδρα σφιγω̃ντος ε̉π’ αυ̉τω̣̃» [Gli venne fatto fare (scil. ad Attalo) il giro dell’anfiteatro… E la folla fremeva di eccitata ostilità a vederlo] (ibid. 1,44); «καὶ  διὰ  τὸ̀  ε̉μμένειν ευ̉σταθω̃ς  καὶ  ε̉ξουθενει̃ν  αυ̉τοὺς η̉γριώθη πρὸς αυ̉τοὺς τὸ  πλη̃θος ώς μήτε τὴν ήλικίαντου̃   παιδὸς οι̉κτει̃ραι μήτε τὸ  γύναιον αι̉δεσθη̃ναι» [Ma essi (scil. la schiava Blandina e il giovane Pontico) resistettero così fieramente e con tale disprezzo che la moltitudine s’inferocì contro di loro, tanto da non avere pietà di sorta per la giovane età del ragazzo, né alcun riguardo per il sesso debole] (ibid. 1,53; vd. anche ibid. 1,38-39.50.57.60).

 

La spietatezza delle masse non risparmiava le donne: «Et cum populus illos in medio postularet, ut gladio penetranti in eorum corpore oculos suos comites homicidii adiungeret, ultro surrexerunt et se quo volebat populus transtulerunt» (Passio Perpetuæ et Felicitatis 21,7); e nemmeno un vescovo già molto in là negli anni: «’Εκ τούτου ου̃ν πα̃ν τὸπλη̃θος, θαυμάσαν τὴν γενναιότητα του̃  θεοφιλου̃ς καὶ  θεοσεβου̃ς γένους τω̃ν Χριστιανω̃ν, ε̉πεβόησεν˙ ‹ Αι̃ρε τοὺς α̉θέους˙› » [Al che la folla tutta, colta alla sprovvista dal coraggio mostrato da un membro della stirpe così timorata e pia dei cristiani, levò un grido: “Morte agli atei!”»] (Martyrium Polycarpi 3,2).

Perfino Seneca aveva equiparato a un omicidio la morte nell’arena di vittime indifese e definito complici gli spettatori (Epist. 7,3); e il Santo vescovo di Cartagine aveva qualificato i ludi gladiatorii come «libido crudelium luminum» (Cypr., Ad Donat. 7 : CSEL III/1, p. 8).

 

Si ripete, in ogni epoca, l’urlo assassino contro i seguaci del Nazareno (cfr. Mc 15,8 ss.: «La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere… Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso»).

 

 


 

 
   È tuttavia ipotizzabile che, in prossimità del combattimento, i dannati alle bestie possano essere finiti reclusi in celle poste a ridosso o meglio all’interno dell’Anfiteatro stesso: «transivimus in carcerem castrensem: munere enim castrensi eramus pugnaturi» (Passio Perpetuæ et Felicitatis 7,9). Abbiamo notizia di almeno quattro carceres, destinati alla ritenzione delle belve ma, al bisogno, anche a trattenere in catene i condannati a morte, rinvenuti nell’Anfiteatro lucerino, al terminale degli ingressi posti sull’asse minore, all’altezza del podium (R. Barone, op. cit., p. 169, fig. 9; E. Lippolis-M. Mazzei, op. cit., p. 262).

 

 
 

  

   Oltre al direttore dei giochi (editor) e al corrector Ulpio Aleno cui, se effettivamente presente, sarà stato ovviamente riservato il posto d’onore nella “loggia imperiale” dell’arena (pulvinar), collocata su un versante della cavea, al di sopra del podium – ma della cui localizzazione all’interno del nostro Anfiteatro non si hanno elementi certi –, avranno partecipato all’avvenimento le personalità di rilievo, le autorità municipali con le loro famiglie, i magistrati, i sacerdoti del culto di Stato e gli ospiti d’onore, ai quali erano riservate le gradinate che costituivano il podium; in quelle del primo mænianum – ovvero ima cavea – avranno preso posto i cavalieri (equites); nelle altre del secondo mænianum (media cavea) avranno avuto accesso, salendo direttaemente dai vomitoria, gli spettatori di non elevato rango sociale (ærarii); nell’ultimo mænianum (summa cavea), si saranno messe a sedere persone di modeste condizione e donne del popolo minuto.

 

   Alla distribuzione dei posti sovrintendevano i dessignatores, i quali distribuivano tesseræ recanti l’indicazione del settore di gradinata destinato a ciascuno (così anche in quello di Larino: A. Vitiello et al., L’anfiteatro di Larino, pp. 108-110).

 

 
 

 

I summa supplicia costituivano l’intermezzo dell’ora di pranzo. Una descrizione particolareggiata dell’ordo muneris ci è riportata in Passio Perpetuæ et Felicitatis 19-21: al primo turno («in commissione spectaculi») Revocato e Saturnino furono esposti ai leopardi; in un secondo turno, toccò a quest’ultimo da solo affrontare gli assalti di un orso, mentre Saturo affrontava un cinghiale, quindi l’orso, ma rimanendo illeso, per poi essere assaltato, «in fine spectaculi», da un leopardo; Perpetua e Felicita furono destinate a una vacca feroce. Tutti vennero infine giugulati al centro dell’arena. Non infrequente che, anche all’interno dell’arena, i condannati ad bestias subissero preliminarmente altri tipi di sevizie [cfr. Martyrium Lugdunensium (V),1,37-40.51-56: sferze, azzannamenti delle fiere, graticola].

 

 
 

 

I condannati alle belve erano collocati sopra un palchetto di tavole – pulpitum o pons –  con un piano inclinato sui due lati opposti, sopra il quale era rizzato un palo cui la vittima poteva venire legata per essere esposta agli assalti delle fiere, così come è rappresentato, ad esempio, in una lucerna cristiana raffigurante un martirio (BAC 1879, tav. III); un martire cristiano, posto su una predella, in mezzo a due leoni, è ritratto in una pittura murale del I secolo, all’interno delle catacombe di Domitilla [cfr. Passio Perpetuæ et Felicitatis 19,3: «etiam (Revocatus) super pulpitum ab urso erat vexatus»; ibid., 19,6: «(Saturus) Et cum ad ursum substrictus esset in ponte, ursus de cavea prodire noluit»]. A Lione, in un primo assalto, la schiava Blandina subì gli azzannamenti delle fiere sospesa a una traversa [Martyrium Lugdunensium (V),1,41].

 

 
 

 

Per la damnatio ad bestias erano usati leoni, leopardi, tigri, cinghiali, orsi, questi ultimi considerati i più temibili nei ludi dell’anfiteatro (Passio Perpetuæ et Felicitatis 19,4); imprigionata in una rete, per offrire più presa, e gettata contro un toro, fu la fine della schiava Blandina [Martyrium Lugdunensium (V),1,56]; ci è pervenuto anche il caso di una inconsueta ferocissima vacca, che si avventò contro Perpetua e Felicita, pure avvolte in reti (Passio Perpetuæ et Felicitatis 20).

 

Per quanto riguarda l’approviggionamento di tali bestie, ci è noto che, circa un secolo dopo i nostri fatti (398/401), gli orsi necessari provenivano da «transmarini loci» – probabilmente imbarcati in Dalmazia o ad Aquileia e provenienti dall’Europa centro-settentrionale –, fatti sbarcare nei porti apuli e da qui, vista la richiesta del personaggio in questione – l’oratore e uomo politico Simmaco, noto polemista anticristiano –, inviati a Roma (Symm., Ep. IX,135). Le bestie necessarie all’allestimento dei ludi lucerini saranno state fatte arrivare, molto probabilmente, dal vicino porto di Siponto ovvero di altra città apulo-calabra più meridionale.
 

 
 

 

È verosimile che una parte dei cristiani della comunità di Larino, nonché di altre realtà urbane di cui poco o nulla sappiamo, rimasti ignoti e di condizione sociale inferiore, in quanto non cittadini – per lo più schiavi –, abbia trovato la morte proprio venendo esposta alle fiere all’interno di questa arena extra-cittadina.

 

Al ricordo della damnatio ad bestias, sedimentatosi nella memoria collettiva, sono probabilmente da ricondurre le modalità del martirio dei tre Santi a noi noti, così come li ha tràditi la pietà popolare che, come abbiamo visto, li vorrebbe condotti all’interno dell’arena – ma di Larino – per subirvi il martirio, con le fiere che si rifiutarono di toccarli.

  

Tuttavia, nemmeno possiamo escludere del tutto che l’Anfiteatro lucerino sia stato adoperato per eseguire altri tipi di condanna, come sommarie decapitazioni di rei di infima condizione sociale nonché di dannati alla crematio [vd. protomartiri romani sotto Nerone (Tac., Ann. XV,44); Martyrium Carpi 36 (venne arso vivo a Pergamo, pare nel 250 sotto Decio); Passio Fructuosi 3,1 (qui il vescovo di Tarraco – Tarragona, Cataluña –, subì il supplizio del fuoco insieme ai due diaconi Augurio ed Eulogio, nel corso della persecuzione di Valeriano (21 gennaio 259)]. Nelle arene cittadine si allestivano anche crocifissioni [rare attestazioni: Edictum del munus da svolgersi a Cumæ il 5 e 6 ottobre, comprendente 20 coppie di gladiatori, la venatio e i condannati alla crocifissione (CIL IV,9983a; C. Vismara, Il supplizio come spettacolo, p. 36)].

 

 
 

 

Per quanto riguarda l’esecuzione della sentenza vera e propria, era consuetudine che il condannato fosse preceduto da un’insegna – titulus (πίνακος) –, scritta quasi sempre in Latino, lingua ufficiale, sulla quale erano indicati il suo nome e la ragione della condanna [Martyrium Lugdunensium (V),1,44].

 

Se si esclude qualche caso del tutto eccezionale di donne o persone di elevato ceto sociale, messe a morte all’interno delle carceri [A. Amore, I Martiri di Roma, pp. 221-223, 237-238; vd. anche il caso del Battista (Mt 14,8-10; Mc 6,25-28)], si trattava di un avvenimento pubblico, consumato all’aperto, con la vittima atteggiata sollemni more. Esso richiamava una gran folla di persone, sia che si trattasse, cosa del tutto ovvia, di ludi del circo, sia che invece consistesse in una assai poco spettacolare decapitazione, come difatti avvenne nel caso di Cipriano di Cartagine, mandato a morte pubblicamente – primo fra i vescovi africani – il 14 settembre del 258, la cui fine, non dovette essere molto dissimile da quella di altri martiri, compresi i Santi Fratelli Larinati:

 

 
   

Poi [Cipriano] fu condotto nel campo di Sesto, dove si tolse il mantello e lo distese nel punto in cui intendeva inginocchiarsi, poi si tolse la dalmatica e la consegnò ai diaconi, restando con indosso la sola veste di lino; e si mise ad aspettare il carnefice. Arrivato che fu il carnefice, ordinò ai suoi di dargli venticinque aurei. I confratelli gettarono ai suoi piedi salviette di lino e asciugamani; Cipriano si coprì lui stesso gli occhi, ma non riuscendo a legare le bende da solo, il prete Giuliano e il suddiacono Giuliano gliele legarono. Poi il vescovo Cipriano fu giustiziato, e il suo corpo, per proteggerlo dalla curiosità dei gentili, fu rimosso da lì e portato tra fiaccole e torce nel cimitero del procuratore Macrobio Candidato, sito nella via delle Capanne presso la piscina, con gran gioia e tripudio. Pochi giorni dopo il proconsole Galerio Massimo morì. [1]

 

 

 

Bibliografia:

 

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F. Armarelli (ed.), Politica e partecipazione nelle città dell’Impero romano, Roma 2005

Atti e passioni dei martiri, edd. A.A.R. Bastiaensen-A. Hilhorst-G.A.A. Kortekaas-A.P. Orbán-M.M. van Assendelft, Roma-Milano 20076

BAC - Bullettino di  Archeologia Cristiana del Comm. G.B. De Rossi, Roma 1879

R. Barone, Lucera e il suo Anfiteatro, «La Capitanata» 2 (1983), pp. 135-173

R. Bartoccini, Anfiteatro e gladiatori in Lucera, «Japigia» 7 (1936), pp. 11-98

P. Brown, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 2002

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Eusebius Cæsariensis, Historia ecclesiastica VIII : PG XX

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F. Grelle, Canosa romana, Roma 1993

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G. Lanata, Gli atti dei martiri come documenti processuali, Milano 1973

E. Lippolis-M. Mazzei, L’età imperiale, in La Daunia antica. Dalla preistoria all’altomedioevo, ed. M. Mazzei, Milano 1984, pp. 253-314

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L. Pietropaolo, Lucera in età romana. L'organizzazione dello spazio urbano. Tesi di dottorato discussa nella.a. 2006-2007 presso lUniversità degli Studi di Napoli “Federico II”

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Prudentius, Peristephanon hymnes XI, ed. J. Bergman : CSEL LXI

Th. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta..., Parisiis 1689 (altre edd.: Amstelædami 17132, Amstelædami-Veronæ 17313, Amstelædami 18034, Amstelædami 18595, Parisiis 1859, Ratisbonæ 18593 [rist. 1ª ed. 1689])

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Seneca, De ira 1

Seneca, De tranquillitate animæ 14

Seneca, Epistulæ 7

Symmachus, Epistulæ, IX, in O. Seeck, Q. Aurelii Symmachi quæ supersunt : MGH, Auctores antiquissimi (ed. nova), Berolini 1883, rist. 1961

Tacitus, Annales XV

Tertullianus, De pudicitia 22, ed. Ch. Munier : SCh  CCCXCIV

Tertullianus,  Apologeticum 40 : PL I

G.A. Tria, Memorie Storiche, Civili ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino Metropoli degli Antichi Frentani..., Roma 1744, rist. Isernia 1989

C. Vismara, Il supplizio come spettacolo (Catalogo della Mostra), Roma 1990

A. Vitiello-A. Schizzi-M. Antonicelli-D. Wrzy, L’anfiteatro di Larino. Studio architettonico, «Conoscenze», 6, Campobasso 1990, pp. 73-114

G. Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, Bari 1996

 

 

 


  [1] Acta Cypriani (recensio altera) 4,1-3.

 

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Commenti: 4
  • #1

    Anonimo (domenica, 26 luglio 2015 23:48)


    E però così ci vieni a togliere i Martiri nostri!! E non si fa!!

  • #2

    pinomiscione (lunedì, 27 luglio 2015 12:45)


    Anch'io avrei preferito collocare la morte a Larino, ma non posso non tenere conto dei fatti storici, e che cioè Lucera era all'epoca più rilevante di Larino - lo è anche adesso - e che il governatore provinciale quasi certamente vi si recava - o addirittura vi stazionava - per amministrare la giustizia in tutto il territorio circostante. Anche le successive vicende, legate al trafugamento dei Lesinesi e alla "traslazione" di S. Pardo, portano acqua al mio mulino. Ma ripeto: anch'io avrei preferito accreditare la versione canonica.

  • #3

    dr. Aimone M.N. (martedì, 04 agosto 2015 00:35)


    Da antico dauno non posso che compiacermi di questo avvenimento tanto glorioso per il trionfo della fede, che lei colloca nella città di Lucera. Una ricostruzione precisissima e accuratissima delle vicende finali di questi Martiri, che io conoscevo di fama, specialmente San Primiano di Lesina, o di Larino che dir si voglia. Molto ammirato di questo lavoro "certosino" eppure mai noioso, anche perché le parti in grassetto aiutano tanto a fissare le parole-chiave dell'intero discorso. Mi sento anche di esprimere l'apprezzamento per la rilettura della vicenda biografica che lei fa di San Pardo. Un Santo che da queste parti vanta ancora una solidissima memoria. I mie apprezzamenti per tutto questo lavoro e un saluto.

  • #4

    pinomiscione (martedì, 04 agosto 2015 20:53)


    Ricambio il saluto e ringrazio.

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