Le prime tombe dei Martiri Larinesi


BEATO ANGELICO

Sepoltura dei Santi

Cosma e Damiano

(1438/1440)

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  opo l’esecuzione della condanna a morte, logica vorrebbe che qualche persona più facoltosa e ardita, tra i parenti, gli amici o anche i compagni di fede non smascherati dalla repressione, si sia incaricata, arrischiando di venire coinvolta in qualche maniera nei procedimenti anti-cristiani, di rivolgere una supplica alle autorità competenti al fine di  riottenere i corpi dei Martiri  [Mar-  
 

tyrium Carpi, Papily et Agathonicæ 47; Acta Maximiliani 3,4; Passio Fructuosi 6,1; per i condannati al rogo si chiedevano ovviamente le ceneri (Ulpian., Dig. XLVIII,24,1); per quelli ad bestias quei pochi brandelli umani rimasti].

 

Questo atto era necessario nei casi di condannati a morte: «Corpora animadversorum quibus libet petentibus ad sepulturam danda sunt»  (Paul.,  Dig. XLVIII,24,3; cfr. Acta Maximiliani 3,4: «Et Pompeiana matrona corpus eius de iudice meruit… et sub monticulo iuxta Cyprianum martyrem secus palatium condidit»; indirettamente conferma il  Martyrium Lugdunensium(V),1,61: «Ούτε  γὰρνὺξσυνε βάλλετο ήμι̃ν πρὸς του̃το ούτεα̉ργύρια έπειθεν ούτελιτανεία ε̉δυσώπει» [Non potevamo difatti contare a tale scopo (scil. la riconsegna dei corpi) né sulla complicità delle tenebre né sulla forza di persuasione del denaro né sull’effetto delle più insistenti implorazioni].

 

 
 

     

Ritroviamo la norma anche nel caso di Giuseppe di Arimatea, che rivolse un’analoga richiesta a Pilato perché gli fosse consegnato il corpo di Gesù di Nazareth per seppellirlo (Mt 27,58; Mc 15,43; Lc 23,52; Gv 19,38).

 

Tuttavia, in tempo di persecuzione generalizzata, questa procedura era comprensibilmente assai più rischiosa. Ci è noto difatti che durante la persecuzione dioclezianea la pratica dell’insepoltura venne rafforzata, evidentemente con l’intenzione di evitare la propagazione del Cristianesimo (P. Allard, Histoire des persécutions: la persécution de Dioclétien…, IV, 1, p. 360). 


 


 

  

   C’è da chiedersi a questo punto: qual era la sorte dei corpi dei condannati alla decollatio?

 

Ebbene, se si fosse trattato di una esecuzione in terrorem et in exemplum, era necessario che ad essa fosse convocato il popolo, e la testa recisa del reo venisse lasciata esposta sul luogo dell’esecuzione capitale, in cima ad una pertica o affissa ad una parete (Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, p. 915; P. Franchi de’ Cavalieri, S. Agnese nella tradizione e nella leggenda, p. 12, n. 3; Id., Un recente studio sul luogo del martirio di S. Sisto II, p. 154 e n. 3).

 

 


 

 

Nelle passiones martiriali, invero, non si parla quasi mai di teste esposte in terrorem, se non nel caso della passio S. Callisti I,270,35: «quos præcepit capitis subire sententiam et per diversas portas urbis Romæ capita eorum sospendi ad exemplum Christianorum» (B. Mombritius, Sanctuarium seu Vitæ Sanctorum, I, p. 270, 35); qualche accenno è rintracciabile nella passio S. Theodoti Ancyr. 32: «Nuntiantibus autem in Theotecno famulis suis, jussit eos istic manere, in loco ubi positum erat caput, et cadaver custodire» (Th. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta, p. 350), come pure nella passio S. Bonifatii 15: «Quæsumus, ostende nobis et caput ejus. Cum autem contemplati fuissent caput Sancti Martyris conservi ipsius, risit in Spiritu Sancto» (ibid., p. 290), e nella passio SS. Leonis et Marini 2: «in delubrorum postibus antistitum et innocentium sanguine rorantia spolia pendebant» (in B. Mombritius, op. cit., II, p. 95, 52).

 

La sentenza di morte contro Didimo suona: «caput tuum excidetur, … reliquum corpus tuum igni tradetur» (acta SS. Didymi et Theodoræ virg.6, in Th. Ruinart, op.cit., p. 400). Il tronco, quindi, esposto anch’esso più o meno a lungo, veniva incenerito e disperso ovvero riconsegnato ai parenti, su loro istanza, per la sepoltura.

 

 
 

 

Per quanto riguarda la testa, esistevano diverse soluzioni: ci è noto il caso dei quattro corpi acefali rinvenuti a Cuma nel 1853, con maschere di cera a completarli, dal De Rossi ipotizzati cadaveri di condannati alla decapitazione, le cui teste non furono riconsegnate alle famiglie (Bull. dell’Ist. Archeol. 1853, pp. 66 ss.).

 

Abbiamo, per contro, anche il caso inverso della sola testa riconsegnata ai parenti per la sepoltura, come nelle note vicende – non riferite a martiri – dei generali Publio Quintilio Varo († 9 d.C.) [Vellei. Pat., Hist. Rom. II,119,6] e Caio Avidio Cassio († 175 d.C.) [Script. Hist. Aug., Avidius Cassius IV,25,3] nonché il più remoto di Istièo († 493 a.C.), tiranno di Mileto (Herod., Τη̃ς μετὰ  Μάρκον βασιλείας ι̉στορίαι VI,30) [riferimenti sui punti sopradetti, più specifici ed ulteriori, in P. Franchi de’ Cavalieri, loc. cit., pp. 154, n. 4; 155, nn. 1 e 2].

 

 
 

 

I testi agiografici ci riportano poi alcuni casi limite, alquanto leggendari, come quello di Dionigi, vescovo di Lutetia [od. Parigi], martirizzato intorno al 270 insieme al prete Rustico e al diacono Eleuterio, il quale, secondo una passio (BHL, p. 2178 o Post beatam et gloriosam), avrebbe trasportato la propria testa dal luogo della decapitazione Montmartre ovvero mont du martyre  a quello della sua sepoltura, consegnandola alla nobile Catulla, che possedeva quel terreno, dove in seguito sorse una grande basilica a lui dedicata.

 

 Detto questo, benché non si abbiano prove sufficienti a dimostrarlo, possiamo presumere che non ci siano state particolari difficoltà a riconsegnare i corpi dei Martiri Larinesi condannati alla decollatio nella loro integrità, caput et reliquum corpus.

 

 

 

 

 

Era in ogni caso neccessario restituire i corpi a chi poteva dimostrare di essere proprietario dei sepolcri nuovi occorrenti.

 

Secondo la legge romana il corpo del giustiziato doveva essere semplicemente interrato, ricoperto appena da qualche zolla o arbusto – «cineres vel corpora lævi cespite obruta», dice il giurista Marciano –, come a voler evidenziare che la concessione di evitare il ludibrio del cadavere corrispondeva sì a un’esigenza civica, anche per il graduale radicarsi di un sentimento di humanitas, ma ribadiva pur tuttavia il principio giuridico di negare la sepoltura ai condannati a morte, per infliggere loro il vagabondare in eterno (insepulta sepultura) [Ulpian., Dig. XLVIII,24,1: «Corpora eorum qui capite damnantur cognatis ipsorum negando non sunt: et id se observasse etiam divus Augustus libro decimo de vita sua scribit. Hodie autem eorum, in quos animadvertitur, corpora non aliter sepeliuntur, quam si fuerit petitum et permissum, et nonnumquam non permittitur, maxime maiestatis causa damnatorum»].

 

Avendo essi perduto ipso iure i diritti civili e pertanto – pœna etiam post mortem manet – non potendo costituirsi, a loro favore, la proprietà del sepolcro, che era a fondamento dello ius funeraticium, non resta che ipotizzare – anche nel nostro caso – la donazione da parte di uno o più soggetti terzi delle sepolture singole o comuni occorrenti (V. Capocci, Gli scavi del Vaticano..., pp. 199-212; Id., Sulla concessione e sul divieto di sepoltura..., pp. 266-310).

Difatti abbiamo notizia che Giuseppe di Arimatea depose il corpo di Gesù di Nazareth dalla croce, «lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto» (Lc 23,53; cfr. anche Mt 27,60; Gv 19,41).

 

Tali sepolture di fortuna saranno state certamente assai modeste; pensare a una tomba lussuosa sarebbe fuori luogo, proprio per i motivi sopra ricordati.

 

 

 

 

Si dovrebbe dare dunque per assodato che esse siano state scavate nel luogo che oggi ben conosciamo, vale a dire l’area dell’attuale cimitero comunale, a quell’epoca posta a ridosso di una porta urbica. Dopo il rilascio del necessario permesso (cfr. Mc 15,45), che dobbiamo ritenere concesso senza particolari problemi – vuoi per magnanimità o per data pecunia –, in esse i nostri Martiri sarebbero stati deposti.

 

Da una osservazione preliminare, parrebbe verosimile che ciò possa essere effettivamente accaduto, sempre che si siano trovati uno o più soggetti tanto coraggiosi da esporsi, in quel drammatico contesto – quando cioè la proibizione della sepoltura poteva venire usata come rappresaglia contro i Cristiani, in un periodo in cui, in base al IV editto di persecuzione (aprile 304), erano pubblicamente accusati –, a richiedere alle autorità di governo della provincia una deroga alla legge, e cioè di essere in possesso dei sepolcri nuovi necessari. Se qualcuno si arrischiò a farlo, dovette essere o un personaggio in vista o un vero temerario.

 

 
 

 

Agli inizi del IV secolo, quando non erano ancora ben definiti i ruoli all’interno delle comunità cristiane, era ancora poco chiaro a chi spettasse organizzare l’espressione di un culto; tanto che, il più delle volte, erano il patrono o la patrona influenti ad incaricarsi, grazie alla loro posizione vantaggiosa, di riottenere il corpo di un martire. Nelle passiones romane dal I al IV secolo incontriamo spesso la figura leggendaria della matrona Lucina (B.SS., VIII,277), meno frequentemente cimbattiamo nel presbitero Joannes (A. Amore, I Martiri di Roma, passim).

 

Ci è pervenuto comunque che nel 304 a Salona [Dalmazia], la prima memoria cristiana a noi nota, eretta sulla tomba del martire Anastasio, fu voluta da Asclepia, una nobildonna benestante, in un edificio previsto anche per sé e per altri membri della sua famiglia (P. Testini, Archeologia Cristiana, p. 314; P. Brown, Il culto dei santi, pp. 47-49).

 

Si veda ancora il caso di Giuseppe di Arimatea (Mc 15,43) «membro autorevole del sinedrio», che offrì il suo sepolcro nuovo e «con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù» (lo accompagnava Nicodèmo [Gv 19,39]). Consideriamo poi anche il fatto che in questo contesto gerosolimitano, seppur drammatico, non si era in tempo di persecuzione sistematica contro i seguaci di Cristo. La concessione del suo corpo andava ricondotta, in definitiva, ad un atto di ordine pubblico, voluto da Pilato al fine di preservare una pace fittizia e manifestare un apparente riguardo verso la popolazione locale. Cionondimeno, questo atto pietoso di Giuseppe di Arimatea avvenne «di nascosto, per timore dei Giudei» (Gv 19,38).

 
 
 

 

Tuttavia, nel nostro particolare caso, va posto nella giusta luce il regime di piena persecuzione in cui ci si trovava – l’augusto senior Diocleziano abdicò al suo alto ufficio solo il 1° maggio del 305, e il più tollerante usurpatore Massenzio salì al potere oltre un anno dopo –, per cui ritenere praticabile il trasporto di tre o più corpi di giustiziati e addirittura la loro inumazione in un terreno così prossimo al centro abitato di Larino, a pochi metri da una porta urbica, mi pare davvero poco plausibile.

 

Emerge pertanto assai più convincente la verosimiglianza della deposizione provvisoria dei Martiri di Larino in una qualche area di sepoltura nel suburbio di Lucera, in attesa che tempi migliori avessero consentito il trasferimento nella loro città di origine; benché nell’uso cristiano si desse al carattere provvisorio di una sepoltura un significato un po’ diverso dal nostro (cfr. Acta Cypriani 4,3: «eiusque corpus propter gentilium curiositatem in proximo positum est. Per noctem autem corpus eius inde sublatum est ad cereos et scolaces in areas Macrobi Candidati procuratoris, quæ sunt in via Mappaliensi iuxta piscinas, cum voto et triumpho magno»).

 

Questo delicato passaggio avrebbe, a ragione, creato un insanabile dissidio tra le comunità cristiane di Larino e di Lucera, che si sarebbe perpetuato nei secoli.

 

 


 

 

Difatti, non possiamo non ritenere che anche nella più rilevante città di Luceria il credo cristiano abbia fatto numerosi proseliti. Così difatti Giorgio Otranto (Italia meridionale e Puglia paleocristiane, pp. 203-234, qui p. 230): «la vitalità e l’importanza del municipium dauno fanno ragionevolmente ipotizzare una presenza cristiana almeno per il III secolo»; parimenti dice Donatella Nuzzo (La Daunia alle origini cristiane, pp. 87-96, qui p. 87): «si può ipotizzare la cristianizzazione del centro nel III secolo»; talché possiamo ritenere assai probabile che i martyres designati provenienti da Larino fossero ben conosciuti nella città dauna, se non addirittura dare per certo che essi  abbiano avuto, già durante la loro breve permanenza tra le mura cittadine, numerosi sostenitori se non addirittura dei veri e propri seguaci, fors’anche fino al comune martirio.

 

Le modalità di diffusione del culto dei martiri ci riportano quale fosse la considerazione, all’interno di una comunità, di testimoni della fede seppur provenienti da altre realtà urbane: «sanguine mutavit patriam», sentenziò espressamente papa Damaso I (366-384) a propostio del martire cartaginese Saturnino[1], che proprio a Roma però colse la palma del martirio, durante la persecuzione di Valeriano; «te Græcia misit; sanguine mutasti patriam» è detto del greco Sant’Ermete (A. Ferrua, op. cit., n. XLVIII, 1-2, pp. 195-197, qui p. 195); per i santi Felicissimo e Agapito, due dei sette diaconi di Sisto II (257-258), martirizzati durante la stessa persecuzione di Valeriano, ancora papa Damaso scrive: «unica in his gaudet Romanæ gloria plebis» (ibid., n. XXV, 5, pp. 152-156, qui p. 154); e infine, degli “orientali” Santi Pietro e Paolo, colonne della Chiesa romana e universale, si poteva affermare con certezza: «Roma suos potius meruit defendere cives» (Dedica ai SS Pietro e Paolo in S. Sebastiano, in ibid., n. XX, p. 142).

 

 Allo stesso modo, dunque, avrebbero potuto dire i Lucerini, e con identico vigore, dei martiri Primiano, Firmiano e Casto e di tutti gli altri a noi rimasti ignoti, la cui memoria nella locale comunità cristiana sarebbe stata certamente ravvivata dalla seppur temporanea sepoltura nel suburbio della città.

 
 
necropoli lucera
Veduta aerea delle aree funerarie extraurbane di Lucera
 

 

Le necropoli lucerine riportate alla luce o almento individuate sono concentrate in quattro angoli opposti rispetto al perimetro urbano, alluscita delle direttrici viarie principali:

 

la prima, a est del centro abitato, in contrada Seggio, lungo la via per Arpi, non molto distante dallarea occupata in seguito dallAnfiteatro, adoperata per seppellirvi i morti sin dal III sec. a.C. (L. Pietropaolo, Lucera in età romana, p. 120).

 

   La seconda, la più estesa di tutte, posta a nord delle mura urbiche, fuori la medievale Porta San Severo, nell’area dell’attuale cimitero, lungo la strada che anticamente conduceva a Teanum Apulum. Tra il 1920 e il 1922 vi furono rinvenute alcune decine di tombe, con coperture a tegole giustapposte a doppio spiovente – cosiddette “a cappuccina” –, ascritte al II e al III secolo d.C.; vi abbondavano anche umili sepolture in fosse terragne ovvero a cassa con semplici rivestimenti di mattoni; rinvenuto qualche sporadico esempio di tomba ad ara. Essa conobbe una lunga frequentazione, dal I sec. a.C. fino almeno al III sec. d.C. (E. Lippolis-M. Mazzei, L’età imperiale, in La Daunia antica, p. 293 e n. 114; C. D’Angela, Una necropoli di età imperiale a Lucera, pp. 335-344; G. Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, p. 120 e n. 170; M. Mazzei, Lucera, in La Daunia Romana…, p. 130; L. Pietropaolo, op. cit., pp. 120-121).

 

La terza si trovava nel settore occidentale, probabilmente in un'area all'interno delle mura e tuttavia in gran parte disabitata, posta in località Piano dei Puledri – alle pendici del Monte Albano –, già frequentata fin dall’epoca arcaia e verosimilmente ancora in uso in età medievale. Nel 1913 vi furono rinvenuti alcuni sarcofagi; alcuni corredi funerari sono ascrivibili al IV secolo a.C.; se ne ipotizza la frequentazione ancora in epoca longobardarda (E. Lippolis-M. Mazzei, op. cit., p. 293 e n. 113; G. Volpe, op. cit., p. 120 e n. 170 per altri riferimenti; vd. anche L. Pietropaolo, op. cit., p. 122).

 

Una quarta necropoli era ubicata lungo la via extraurbana che a sud conduceva a Æcæ, affiancata da sepolture monumentali, tra le quali ricordiamo quella riservata ad Aurelius Romanus (CIL IX,795), databile all’età di Commodo (180-192) [E. Lippolis-M. Mazzei, op. cit., p. 293 e n. 115; G. Volpe, op. cit., p. 120 e n. 169; L. Pietropaolo, op. cit., pp. 119-120].

 

In tutte e quattro le necopoli, la stele funeraria è il solo tipo diffusosi costantemente, con evidenti evoluzioni tipologiche, almeno fino al II sec. d.C., destinata ad una committenza di rango sociale inferiore, e tuttavia sufficientemente benestante, laddove semplici fosse nel terreno ovvero strutture a cassa o anche con copertura “a cappuccina” rappresentavano il luogo del riposo eterno per la maggior parte degli humiliores (L. Pietropaolo, op. cit., pp. 125-126).

 

 
 

 

Per la localizzazione delle sepolture dei Martiri Larinesi, propenderei per il secondo sito, vale a dire la deposizione in una necropoli presente lungo la strada che menava a Teanum Apulum, che era abbiamo visto la più estesa di tutte, poiché quella frequentata dalla plebe cittadina.

 

Essa, peraltro, tra quelle ancora frequentate in epoca tetrarchica, era la più vicina allAnfiteatro lucerino, dove i condannati alle belve avevano ottenuto la palma del martirio; mentre per i dannati alla decollatio tra cui certamente i Martiri Larinesi a noi noti vi è da ritenere che sia stata recisa loro la testa in unarea damnatorum posta nelle adiacenze, ma pur sempre lungo la strada che conduceva a Teanum Apulum, sicché la sepoltura di fortuna sarebbe stata di facile espletamento in questo sepolcreto immediatamente suburbano.
 

Lungo di esso, per di più, a circa venti chilometri dalla città – precisamente in territorio di Turris Maioris (Torremaggiore), ricadente nella Diocesis Civitatensis – ritroviamo, secoli dopo, una reminiscenza cultuale legata al più venerato dei nostri Santi, una chiesa dedicata a San Primiano che ancora pagava le decime nellanno 1310 [unc. IV] (Rationes decimarum Italiæ nei secoli XIII e XIV, p. 14, n.ro 167). Ritengo possibile che il culto vi sia stato generato da unantica memoria legata alle primitive tombe dei Martiri Larinesi.

 

 

 

diffusione nome primiano
La diffusione del nome "Primiano" in alcuni centri della Daunia (viola), lungo l'asse viario da Lucera a Lesina (giallo) [da Google Maps; elaborazione P. Miscione]
 

 

La difussione del nome “Primiano” in numerosi centri della Daunia, attestato fino ai giorni nostri, che la traslazione dell’842 a Lesina avrebbe ancor più alimentato, non fa che avvalorare questa mia ipotesi: oltre a Lesina e a Torremaggiore, lo ritroviamo ad Apricena, Poggio Imperiale, Serracapriola, San Paolo di Civitate, San Severo, Lucera, nella stessa Foggia – abitato tuttavia sorto in epoca assai più tarda –; sintomo certo di un antico culto che dev’essersi diffuso assai precocemente; mentre sporadica è la presenza del nome in zona garganica e a sud del capoluogo dauno.

 

A ben guardare, si tratta di centri urbani piccoli, medi e anche rilevanti (Foggia), situati lungo una fascia della larghezza di 20/25 chilometri circa, che si estende in direzione Sud-Nord, dal luogo dell’ipotizzata prima sepoltura di Primiano (Lucera, anni 304-306), a quella della successiva “traslazione” (Lisinam [od. Lesina], anni 842-1598), località posta a terminale ultimo sul mare di questa direttrice, a poco più della stessa distanza.

 

 
 

 

In via subordinata, si potrebbe anche ammettere che i corpi dei Martiri Larinesi siano stati trafugati dai compagni di fede nottetempo da Lucera (Acta Iustini 6,2; Martyrium Carpi, Papily et Agathonicæ 47; Passio Fructuosi 6,1), magari con la complicità di qualcuno ben ricompensato [Martyrium Lugdunensium (V),1,61; Acta Maximiliani 3,4] e, in attesa di tempi migliori, deposti provvisoriamente in un luogo sicuro, seppur precario, che certamente non poteva essere un sito ubicato accanto a una porta della cinta muraria di Larino, lungo una strada assai trafficata, poiché ai governatori provinciali era demandato il controllo sulle sepolture lungo la pubblica via (Ulpian., Dig. XI,7,38: «Ne corpora aut ossa mortuorum detinerentur aut vexarentur neve prohiberentur quo minus via publica transferentur aut quominus sepelirentur, præsidis provinciæ officium est»).

 

Un argomento contro è però il numero dei corpi da trafugare – da tre a qualche decina –, e il lungo tragitto da effettuare circa 80 chilometri , che avrebbe enormemente compromesso la buona riuscita della sottrazione forzata.

 

 
 

 

Pertanto appare assai più realistica la prima ricostruzione proposta, vale a dire la provvisoria tumulazione dei Martiri Larinesi in una necropoli suburbana di Lucera, nei quali essi vennero deposti nei giorni successivi all’esecuzione capitale.

 

In questo luogo, nei giorni e nei mesi seguenti la loro tragica fine, saranno stati visitati, seppure nella semi-clandestinità, da parenti ed amici provenienti da Larino, come pure da quanti, nella città di Lucera, non avevano dimenticato il loro estremo sacrificio.

 

 

 

Bibliografia:

 

P. Allard, Histoire des persécutions. IV. La  persécution de Dioclétien et le triomphe de l’Église, Paris 1890

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P. Brown,  Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 2002

B.SS.  -  Bibliotheca Sanctorum, ed. I. Vizzini, VIII, Roma 1967 

A. Campione-D. Nuzzo,  La Daunia alle origini cristiane, Bari 1999

V. Capocci, Gli scavi del Vaticano. Alla ricerca del sepolcro di S. Pietro e alcune note di diritto funerario romano, in «Studia et Documenta Historiæ et Iuris» 18 (1952), pp. 199-212

V. Capocci, Sulla concessione e sul divieto di sepoltura nel mondo romano ai condannati a pena capitale, in «Studia et Documenta Historiæ et Iuris» 22 (1956), pp. 266-310

C. D’Angela,  Una necropoli di età imperiale a Lucera, «Archivio Storico Pugliese» 39 1/4 (1986), pp. 335-344

A. FerruaEpigrammata Damasiana,  Città del Vaticano 1942

P. Franchi de’ Cavalieri,  S. Agnese nella tradizione e nella leggenda, (Römische Quartalschrift, Supplementheft X), Roma 1899

P. Franchi de’ Cavalieri, Un recente studio sul luogo del martirio di S. Sisto II, in Note agiografiche, VI, Roma 1920, pp. 147-178I 

Herodianus, Τη̃ς  μετὰ  Μάρκον βασιλείας ι̉στορίαι  VI [Storia dell’Impero dopo Marco Aurelio]

E. Lippolis-M. Mazzei,  L’età imperiale, in La Daunia antica. Dalla preistoria all’altomedioevo, ed. M. Mazzei, Milano 1984, pp. 253-314

M. Mazzei, Lucera, in La Daunia Romana: città e territorio dalla romanizzazione all’età imperiale. Atti del 17° Convegno Nazionale sulla Preistoria, Protostoria, Storia della Daunia, ed. A. Gravina, San Severo 1999, pp. 129-134

B. Mombritius,  Sanctuarium seu Vitæ Sanctorum, novam editionem curaverunt duo monachi Solesmenses, 2 voll., Paris 1910, rist.  Hildesheim-New York 1978 

Th. MommsenRömisches Strafrecht, Leipzig 1899 

G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane. Saggi Storici, Bari 1991 [ma 1990]

L. Pietropaolo, Lucera in età romana. L’organizzazione dello spazio urbano. Tesi di dottorato discussa nell’a.a. 2006-2007 presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Rationes decimarum Italiæ nei secoli XIII e XIV. Apulia, Lucania, Calabria, ed. D. Vendola, Città del Vaticano 1939, rist. anast. Roma 1970

Th. Ruinart,  Acta primorum martyrum sincera et selecta. Ex libris cùm editis, tum manu scriptis collecta, eruta vel emendata, notisque & observationibus illustrata, Parisiis 1689 (altre edd.: Amstelædami 17132, Amstelædami-Veronæ 17313, Amstelædami 18034, Amstelædami 18595, Parisiis 1859, Ratisbonæ 1859 [rist. 1ª ed. 1689])

Scriptores Historiæ Augustæ  :  Avidius Cassius IV 

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Velleius PaterculusHistoriæ Romanæ II

G. Volpe,  Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, Bari 1996

 

 

 

 


  [1]«sanguine mutavit patriam nomenque genusque, Romanum civem sanctorum fecit origo»(A. Ferrua, Epigrammata Damasiana, Città del Vaticano 1942, n. XLVI, 4-5, pp. 188-190, qui p. 188). Saturnino era nato a Cartagine e, durante la persecuzione di Decio, venne arrestato, torturato ed esiliato a Roma, unitamente ad altri confessori. La palma del martirio, che non aveva colto in patria, la ottenne a Roma, dove pare abbia dovuto subire altri tormenti prima della vittoria finale. L’anno della morte non è ben conosciuto, ma si propende per il 257-258, durante la persecuzione di Valeriano. Nel carme damasiano si racconta del carnefice Graziano, deciso a fargli rinnegare Cristo, ma che alla fine si convertì e, per intercessione di Saturnino, ottenne «confessus abire», cioè di morire anch’egli da martire (A. Amore, op. cit., pp. 52-54).

 


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