La leggenda della “damnatio ad bestias” nell’Anfiteatro


ANFITEATRO

S. Primiano

davanti alla Porta nord-ovest

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  ncora ai giorni nostri, sopravvive una tradizione orale che racconta di una condanna ad bestias dei Santi Martiri Larinesi, eseguita nell’Anfiteatro di Larino. Così la pensano diversi storici locali (V. Ferrara, La Diocesi di Trivento, p. 363; N. Stelluti, Epigrafi di Larino, I, p. 49). Il Ricci (Fogli abbandonati…, p. 40) propende per l’Anfiteatro come luogo di tortura, tesi questa condivisa anche dal vescovo di Larino  Vincenzo  La Rocca (1829-1845),  così co-  
 

me si evince dalla lapide da lui fatta murare all’interno della Chiesa della Visitazione, ora declinata col titolo di Beata Maria Vergine delle Grazie (G. Mammarella, Da vicino e da lontano, II, p. 130). Lo stesso Soprintendente agli Scavi e Monumenti dell’Abruzzo e del Molise Valerio Cianfarani, probabilmente all’oscuro della memoria che parlava di decapitazione, avvalora l’ipotesi[1].

 

 
 

 

   L’Anfiteatro di Larino, classificabile tra quelli di media grandezza, edificato per volontà testamentaria di Quintus (Cærinuus [?]) Capito – il nomen è solo ipotizzabile –, un notabile locale di rango senatorio, era stato inaugurato sotto Tito intorno all’81 d.C., e poteva contenere oltre 10.000 spettatori seduti (G. e A. Magliano, Larino, p. 142, ep. 35; CIL IX,731; per altri riferimenti si rimanda alla Bibliografia a fondo pagina).

 

 
 

 

In quel drammatico frangente – dice il popolo – le fiere avrebbero rifiutato di assaltare i tre Martiri Larinesi, talché se ne rese indispensabile la decapitazione.

 

In quell’occasione, Primiano, prima di subire l’inutile attacco, avrebbe pronunciato le parole: «gente pessima di Larino!» [«genda pès’me de Larine!» è detto nel vernacolo locale], espressione poi rimasta proverbiale per indicare la cattiva indole dei Larinesi. Si tratta chiaramente di parole del tutto inverosimili e inappropriate se poste sulla bocca di un candidato al martirio.

 

La “leggenda agiografica” relativa al mancato sbranamento è accolta da qualche studioso locale (C. Cappella, Termoli e San Basso nella loro storia millenaria, p. 183).

  

 
 


   Un tale accadimento ci è effettivamente pervenuto, ad esempio, nel caso dei martiri subregoli – re vassalli – di origine persiana Abdon e Sennen, che secondo la leggendaria Passio Polychronii et sociorum (AA.SS. Iul. VII, pp. 141-149), furono condotti a Roma dall’imperatore Decio (249-251) per il suo trionfo e, dopo essersi rifiutati di fare il sacrificio pagano davanti al Senato, vennero inutilmente condannati ad bestias, e perciò flagellati e finiti dai gladiatori, per poi essere deposti nel cimitero di Ponziano sulla Via Portuense (A. Amore, I Martiri di Roma, pp. 227-228). Nel 281, in Frigia, si consuma nell’anfiteatro di Synnada [od. Şuhut, Turchia] il martirio di Trofimo e Dorimedone, damnati ad bestias dal tribunale provinciale; tuttavia né un orso né una pantera e nemmeno un leone assaltarono i due commartiri, sicché vennero decapitati (AA.SS. Sept. VII, pp. 9-33 = BHG2, p. 1853). Qualcosa di simile ci è raccontato da quel che avvenne a Cesarea di Mauritania a proposito di Santa Marciana (AA.SS. Ian. I, p. 569): un leone lanciatosi contro la donna, si drizzò all’improvviso e le mise gli artigli sul petto; quindi, dopo averla fiutata, la lasciò senza farle alcune male («martyris corpus odoratus eam ultra non contigit»); tuttavia, la giovane venne infine sbranata da un leopardo. Un caso un po diverso riguarda San Gennaro: qui la condanna alle belve (orsi) non sarebbe avvenuta a causa del ritardo del proconsole a recarsi nellarena (Acta Bononiensia : BHL 4132); per cui il Santo e i suoi socii vennero tutti decapitati nella Solfatara di Pozzuoli (305).

 

 
 

 

La leggenda della damnatio ad bestias dei nostri Martiri parrebbe esserci pervenuta perché generata da qualche passio medievale andata perduta, probabilmente commissionata dai monaci benedettini custodi dei Corpi Santi, a quei tempi assai in voga in mancanza di atti autentici – che si deve presumere siano stati quasi subito distrutti, a Larino come altrove, a seguito degli editti di Diocleziano –, ma in ogni caso scarsamente attendibile, visto il carattere agiografico-celebrativo teso ad esaltare le gesta di quei testimoni della fede.

 

Questi scritti, che qualche autore ha appropriatamente definito “leggende agiografiche”, erano per lo più racconti fantasiosi – spesse volte veri e propri plagi – senza ormai alcun legame coi fatti del martirio, che riflettevano l’esigenza, nata dalla pietà popolare, di creare un’agiografia qualsiasi, generata dalla fantasia devota, anche a costo di fare a meno di ogni parvenza di autenticità (H. Delehaye, Le leggende agiografiche, Firenze 1910, rist. Sala Bolognese 1983).

 

Spesse volte erano proprio i monaci custodi di reliquie martiriali a commissionare le passiones, come ad esempio quella relativa a San Pancrazio (AA.SS. Mai. III, pp. 17-22), molto probabilmente voluta dai monaci messi a custodia, sin dal tempo di papa Gregorio Magno (590-604), della basilica cimiteriale sulla Via Aurelia, dove le spoglie mortali del martire adolescente erano venerate (A. Amore, op. cit., pp. 252-253).

 

Tuttavia questa ipotizzata passio larinese, di origine medievale, contrasterebbe con quanto ci dice il Tria, che cioè delle loro vicende «non avevano leggenda alcuna» (vd. infra); ragion per cui sarebbe più fondato ritenere che essa sia nata successivamente, forse su “ispirazione” di qualche prelato o storico locali.

 

 
 

 

Sin dai primi decenni successivi alle persecuzioni, è documentata la rarità degli Atti autentici, della qual cosa si lamentavano gli scrittori cristiani. Così ad esempio Sant’Agostino: «cum aliorum martyrum vix gesta inveniamus quæ in solemnitatibus eorum recitare possimus, huius [scil. Stephani] passio in canonico libro est» (Serm. 315,1). Stesso rammarico in Prudenzio a proposito dell’irreperibilità degli atti di Emeterio e Chelidonio, martiri soldati di Calahorra [La Rioja, Spagna], suoi compatrioti, giustiziati sotto Diocleziano, probabilmente trafugati e bruciati dai persecutori: «chartulas… satelles abstulit» (Peristeph. I,75). Così pure l’autore della passio di San Vincenzo di Saragozza deve in questo modo esordire: «Probabile satis est ad gloriam Vincentii martyris quod de scriptis passionis ipsius gestis titulum invidit inimicus» (AA.SS. Ian. II, p. 394).

 

Abbiamo notizia, nel nostro caso specifico, dellesistenza di un manoscritto intitolato In Natali Sanctorum Martyrum Primiani, Firmiani et Casti, redatto tra l’XI e il XII secolo «da qualche affettato e ignorante scrittore», che così principiava: «Temporibus Diocletiani, & Antonimi Imperatorum»; esso era valutato già all’epoca del vescovo Tria (1726-1741) del tutto inattendibile «per gli anacronismi, le contradizioni, e fatti favolosi» che vi si narravano, e pertanto ritenuto «un miscuglio pieno di cose vere, e finte», pur tuttavia incluso tra gli atti della sua ottava Visita pastorale del 1734. Si è avuta notizia che è stato recentemente reperito tra i faldoni dellArchivio Storico Diocesano di Termoli-Larino (G.A. Tria, Memorie Storiche…, p. 743). Ma già il Pollidoro aveva bollato gli Acta come «spuria omninò …, multisque gravibus erroribus, & putidis fabulis infecta» (Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi…, p. 53; sulla questione vd. anche G. Mammarella, Larino sacra, II, p. 64; Id., I Santi Martiri Larinesi, p. 13).

 

 


 

 

Tuttavia il Tria stesso ci riporta con sicurezza quanto segue:

 

Quanto alla specie del Martirio, la fama, e le pitture, che sono tra’ Larinati, e altrove, ci fanno sapere, che questi nostri Santi dopo il tormento dell’Eculeo venissero sottoposti alla mannaja […]. Lo stesso asserisce il ch. Polidori […] Quoad Martyrium, et mortis genus attinet, constans est utriusque Ecclesiæ, cioè di Larino, e di Lesina, traditio, eos coram Præside Christianam fidem confessos, equuleo fuisse tortos, ac demum obtruncato capite ad Christum migrasse[2].

  

E nel Proprio napoletano voluto dal cardinal Carafa nel 1619 si conferma:

 

Primianus Larinas inclytus Christi Martyr, fratres Germanos habuit Firmianum, et Castum. Hi quum simul Christo nomen dedissent, in sævissima Diocletiani, et Maximiani Imperatorum persecutione delati, ob Christianæ Fidei confessionem equuleo torquentur. Frustra verò tormentis, atque blanditiis tentati, ut Idolis sacrificarent, extra Larinum Idibus Maii, Castus verò die sequenti, securi[3] percussi, Martyrium compleverunt.[4]

 

I Santi Martiri Larinesi, denunciati nel corso della persecuzione dioclezianea, sottoposti al tormento dell’eculeo per costringerli al sacrificio pagano, furono alfine condannati alla decapitazione e, se questa notizia è vera, si può escludere, con buona probabilità, che essa possa essere avvenuta all’interno dell’Anfiteatro cittadino, visto che questo tipo di edificio non era adoperato per eseguirvi la decapitazione di cittadini romani.

 

   Va detto che tra le varie forme di condanne a pena capitale cera la cosiddetta damnatio ad gladium. Si trattava di una forma davvero perversa di esecuzione pubblica che consisteva nel mettere due condannati uno di fronte allaltro, uno armato di gladio e laltro inerme, perché combattessero fino alla morte allinterno dellarena. Il prevedibile vincitore, spogliato dellarma, doveva poi combattere di nuovo con un altro condannato - armato del gladium -, e così via, fino ad esaurimento del numero dei dannati. Il lanista o munerario che organizzava fattivamente il ludus aveva un anno di tempo per mandare a morte questo particolare tipo di condannato (Paul. Sent. V,17,2).

 

    Allinterno dellarena venivano eseguite, ad ogni modo, anche condanne per decapitazione. Tuttavia rileviamo che, nel caso di cittadini romani condannati ad gladium, così come riportato da Eusebio di Cesarea nel Martyrium Lugdunensium [(V)1,47], essi non venivano messi a morte nellarena per mano del gladiatore, ma fuori di essa, nel luogo destinato allesecuzione capitale, dal littore a ciò preposto.

 

   Per di più – cosa assai rilevante –, non risulta che nel nostro Anfiteatro sia mai stata ravvisata, nella storia cristiana della città, una qualche forma di culto – men che meno come spazio fruibile –, sola ragione che ne avrebbe potuto perpetuare la memoria martiriale; ad anzi esso venne adoperato per allocarvi sporadiche sepolture ovvero funzioni tutt’altro che nobili (vd. infra).

 
 
 

 

Diversamente, sappiamo che a Tarraco [od. Tarragona (Cataluña), Spagna] il vesovo Fruttuoso venne condannato alla crematio, insieme ai suoi diaconi Augurio ed Eulogio (21 gennaio 259), avvenuta all’interno dell’anfiteatro cittadino. Le loro ceneri, prelevate nottetempo dai fratelli di fede, vennero deposte nella necropoli occidentale della città. Sotto Costantino le reliquie dei tre Santi vennero raccolte in un martyrium all’interno della stessa necropoli. Qui, agli inizi del V secolo, venne edificata una basilica martiriale orientata, con un baptisterium esterno, in cui è registrata l’inumazione ad sanctos.  

 

 
 

  

   Successivamente, una seconda basilica con abside quadrata, venne eretta a settentrione della basilica martiriale, probabilmente ad uso funerario (J. López Vilar, Les Basiliques Paleocristianes del suburbi occidental de Tarraco, I, pp. 243, 253-254, 259). Verso la fine del VI secolo, caduto in disuso l’anfiteatro tarraconense, una basilica visigotica a tre navate venne edificata al di sopra dell’arena, in onore dei tre Martiri, sul locus del loro supplizio. Intorno sorse anche un cœmeterium in uso fino all’VIII secolo. Con la Reconquista cattolica a spese dell’islam, sulla memoria anfiteatrale si costruì una chiesa romanica dedicata a Santa Maria de Miraculo. La città catalana ebbe dunque, a partire dal tardo VI secolo, due memoriæ martiriali, una con le spoglie dei Martiri nel suburbio occidentale, l’altra sul locus della crematio avvenuta nell’anfiteatro cittadino (Aa.Vv., L’Amfiteatre romà de Tarragona, pp. 205-283; X. Dupré Raventós, Edificis d’espectacle…, p. 69; J. López Vilar, op. cit., I, pp. 253-254).

 

 
Pianta Anfiteatro Romano di Tarragona
Pianta della forma originaria e dei vestigi dell'Anfiteatro di Tarragona. Dimensioni: m 110x86 (arena m 60x38), in cui era possibile ospitare 15.000 spettatori [da Historia de la Arquitectura en España]
 

 

Per di più, alcuni sporadici rinvenimenti monetali all'interno del nostro Anfiteatro hanno fatto ritenere che esso, già in età tetrarchica, abbia cominciato a perdere le sue funzioni di edificio per spettacoli (vd. infra).

  

Invero, la tentazione di situare tutto quanto il drammatico avvenimento all’interno dell’arena della città, una delle poche del territorio, era fin troppo ghiotta, così da dare al corso degli eventi di quella lontana primavera del 304 un prestigioso palcoscenico, tale da riportare alla mente altre ben più famose vicende di martiri cristiani, quali Sant’Ignazio di Antiochia, che ormai vecchio subì il martirio a Roma tra il 110 e il 118, i Martiri di Lione del 177-178, i Martiri di Cartagine del 203.

 

 
 

 

Tuttavia non bisogna farsi vincere dal desiderio di dare ai fatti una coloritura romanzesca e limitarsi invece a ricostruire le vicende stando alla nuda evidenza degli elementi in nostro possesso, così come ci sono pervenuti attraverso i secoli. Difatti l’informazione riportataci dal Vescovo laertino, raccolta «dal Capitolo, e da altri Ecclesiastici, e Secolari» (G.A. Tria, op. cit., p. 742), arricchita dalla notizia «che del resto non avevano leggenda alcuna» (ibid.), risulta essere in perfetta sintonia con quanto avvenne in altre città in cui, al tempo di Diocleziano, deflagarono persecuzioni contro i miti seguaci dell’Agnello, che a quell’epoca potevano raggiungere in tutto l’Impero un numero compreso tra i sei e i dieci milioni. Così ne descrive l’avvio Eusebio di Cesarea:

 

Era l’anno diciannovesimo del regno di Diocleziano, il mese di distro, che i Romani chiamano marzo. Approssimandosi la festa della passione del Salvatore furono affissi dappertutto gli editti imperiali con i quali si comandava che le chiese fossero atterrate, le Sacre Scritture gettate in preda alle fiamme e si proclamava che quelli che erano investiti di cariche scadevano se persistevano nella professione di cristiani. Questo fu il primo editto contro di noi. Poco dopo tennero dietro altre ordinanze dove si ingiungeva che tutti i presuli delle chiese di ogni luogo fossero messi in ceppi e poi con ogni mezzo costretti a sacrificare. A Nicomedia i cristiani senza distinzione per ordine imperiale furono messi a morte, parte trucidati con la spada, parte bruciati; un’altra schiera di essi fu legata dai carnefici su barche e gettata negli abissi del mare.[5]

 

 
 

 

Si trattò della più cruenta tra tutte le persecuzioni ed anche la più metodica, visto che mirava a colpire l’istituzione nei suoi gangli vitali, con confische di cimiteri e distruzioni di chiese, esilio e martirio di vescovi e chierici, così da impedire il regolare funzionamento della vita religiosa, nonché – fatto questo del tutto nuovo – perquisizioni negli edifici di culto e nelle case, distruzioni sul luogo, anche di libri sacri, nonché di archivi delle comunità. Chi, non volendo o potendo fuggire, si rifiutava di farlo o anche negava di consegnare quanto era richiesto dai funzionari, era condotto al martirio. Proprio in quell’occasione andò perduto l’archivio della Chiesa romana e questa comunità attraversò i peggiori anni della sua storia, duranti i quali scorse a fiumi il sangue dei suoi figli, in larga parte mandati a morte mediante decapitazione:

  

possiamo stabilire che l’esposizione alle fiere non era il mezzo più comune per la morte dei martiri. Anzi la maggior parte dei martiri romani incontrarono la morte colla spada.[6]

 

Quest’ultima notizia risulta essere assai significativa, soprattutto in virtù del fatto che nell’Urbe esistevano almeno due anfiteatri per il combattimento con le fiere – il Colosseo e l’Anfiteatro Castrense, questultimo eretto però solo al tempo di Eliogabalo (218-222) –, senza escludere del tutto il Circo Massimo che, disponendo in origine di un fossato tra l’arena e le gradinate, consentiva, in linea teorica, questi tipi di spettacoli. Il boia (carnifex, spiculator) esercitava la sua ingrata mansione «al luogo solito delle esecuzioni»[7], con ogni probabilità il Campus Esquilinus, posto davanti alla Porta Esquilina.

 

Il Vescovo di Cesarea, parlando dell’Oriente, così prosegue nel suo racconto di quei tragici eventi:

 

Abbiamo assistito noi stessi a decapitazioni in massa od al supplizio del fuoco; i carnefici erano stanchi e dovevano darsi il cambio. Mentre era pronunziata la sentenza contro gli uni, già altri accorrevano al tribunale e si dichiaravano cristiani.[8]

 
 
 

 

Il fatto che la tipologia del martirio dei nostri Santi – la decapitazione – ci sia pervenuta malgrado fosse nota a tutti l’esistenza in città di un Anfiteatro, per esserne stati i ruderi sempre visibili e chiaramente riconoscibili nel corso dei secoli, rafforza senza alcun dubbio la veridicità dell’informazione.

 

Riguardo alla “leggenda agiografica” relativa alla damnatio ad bestias, va comunque detto, ad onor del vero, che quando il condannato usciva ancora in vita alla fine del combattimento con le belve feroci, seppur gravemente ferito, veniva finito con la spada in un ambiente adiacente la porta libitinaria o libitinensis, detto spoliarium – o anche  camera libitina (Libitina era la dea romana della morte) –, così denominato perché adoperato di solito per alloggiare e spogliare delle loro armature i gladiatori feriti a morte ovvero finire col colpo di grazia alla gola (iugulatio) quelli moribondi; sorte cui erano accomunati tutti i damnati ad bestias rimasti ancora in vita alla fine della lotta, compresi i rei cristiani.

 

 
 

 

Nell’anfiteatro di Larino vi erano due spoliaria sia nella porta libitinaria – come è normale che fosse –, che era posta a sud (la taglia l’od. Via Dante), sia in quella sanavivaria a nord, più piccoli degli altri due, cui si accedeva salendo alcuni gradini, a differenza di quelli posti a sud, complanari al pavimento della porta.

 

 
Anfiteatro di Larino con le 2 porte e i 4 spoliaria
Planimetria dell'Anfiteatro di Larino allo stato attuale, con la "porta sanavivaria" (nord) e la "porta libitinaria" (sud); i numeri indicano i 4 "spoliaria" [da Vitiello et al., L'anfiteatro di Larino, «Conoscenze», 6, Campobasso 1990; elab. P. Miscione]
 

 

Questa anomalia, di cui sono indizio le piccole e scomode rampe di accesso, probabilmente costruite solo in seguito, era forse dovuta alle mutate esigenze di spazio per l’accresciuto numero dei combattimenti tra gladiatori e belve. Negli anfiteatri di dimensioni medio-piccole lo spoliarium tendeva ad assumere anche la funzione di sanarium, ambiente in cui si prestavano le prime cure ai feriti (A. Vitiello-A. Schizzi-M. Antonicelli-D. Wrzy, L’anfiteatro di Larino, pp. 80, 107).

 

 
 

 

Nella iugulatio il colpo di spada veniva inferto alla gola così da toccare le vertebre cervicali, senza provocare una morte immediata. Non infrequente che a dare il colpo di grazia fosse una mano inesperta. Il gladius errans del gladiatore o del boia era ben noto alla letteratura antica (Sen., Epist. 30,8: «gladiator… iugulum adversario præstat et errantem gladium sibi adtempat»; Passio Perpetuæ et Felicitatis 21,9: «Perpetua…, ut aliquid doloris gustaret, inter ossa conpuncta exululavit, et errantem dexteram tirunculi gladiatoris ipsa in iugulum suum transtulit»).

 

In quest’ultimo caso, Perpetua e Saturo e gli altri martiri Thuburbitani, su sollecitazione della folla inferocita, si erano portati dallo spoliarium al centro dell’arena, per dare spettacolo della loro morte: «exinde iam exanimis prosternitur cum ceteris ad iugulationem solito loco» (Passio Perpetuæ et Felicitatis 21,6); vd. anche la decapitazione all’interno dell’arena di Maturo e Santo [Martyrium Lugdunensium (V), 1, 40]; cfr. anche il colpo di daga inferto a Policarpo di Smirne, già sul rogo, dal κονφέκτωρ (Martyrium Polycarpi 16,1).

 

 
 

 

Ma nel nostro caso si lascerebbe intendere che la condanna alle belve si fosse risolta praticamente senza che l’impari sfida fosse avvenuta, coi nostri tre Martiri rimasti illesi, e un colpo di spada dato per premura o pietà dal confector in un piccolo ambiente ai lati di una delle porte dell’arena non equivale in alcun modo all’esecuzione di una sentenza che prevedeva la decapitazione sic et simpliciter.

 

 

Anche il particolare della morte di uno dei Martiri, che stando alla tradizione sarebbe stata differita di un giorno – «Castus verò die sequenti»[9] –, ci porterebbe ad escludere del tutto la damnatio ad bestias, giacché sarebbe totalmente illogico pensare che un procurator munerum organizzasse un combattimento ad hoc, per un solo condannato a morte e a così breve distanza di tempo dal dies muneris principale.

 

Ricordiamo qui il caso di Felicita, durante la persecuzione di Cartagine del 203, la quale, giacché incinta di otto mesi, correva il rischio – per il costume del diritto romano di rimandare l’esecuzione di una donna gravida, che avrebbe accomunato alla condanna anche il nascituro innocente (Ulpian., Dig. XLVIII) – di subire la damnatio ad bestias più tardi, quando se ne fosse presentata l’occasione, assieme a «sceleratos» [delinquenti comuni] (Passio Perpetuæ et Felicitatis 15,2); evenienza che venne scongiurata, giacché la bambina venne alla luce in tempo perché la madre si potesse unire al padre Revocato e agli altri compagni di martirio (15,5). Citiamo anche il caso del vescovo Policarpo, mandato al rogo solo perché i ludi gladiatorii si erano già conclusi (Martyrium Polycarpi 12,2).

 

 
 

 

Per renderci la nostra ipotesi abbastanza plausibile, dovremmo immaginare una serie di giochi gladiatorii che interessarono per alcuni giorni ininterrottamente la città, e perciò dovremmo pensare a un numero piuttosto consistente di condannati alle belve, la qual cosa appare assai poco probabile, in considerazione della cittadinanza romana di cui godevano da secoli gran parte dei suoi cittadini (la lex Plautia Papiria, seguita al bellum sociale, con cui era stato istituito a Larinum il municipium è dell’89 a.C.); circostanza questa che esclude qualsiasi altro tipo di condanna a morte che non fosse la decapitazione.

 

Proprio questa considerazione finale ci porta a ritenere che i nostri Martiri – i quali, dobbiamo credere, in quanto municipes di Larinum, fossero cives romani a tutti gli effetti (e i loro cognomina sembrano attestarlo) – abbiano subito la pena capitale mediante il gladio.

 

Possiamo quindi concludere, con pressoché assoluta certezza, che i Santi Martiri Larinesi, di cui ci è giunto il nome, vennero condannati alla decollatio, e pertanto si può escludere che l’Anfiteatro cittadino[10] possa essere stato il luogo del loro martirio; ed anzi dovremmo pensare che a Larino come altrove vi sia stato un luogo ove si era soliti eseguire questo tipo di condanne a morte, presumibilmente dislocato lungo una delle vie di accesso alla città, così come voleva la consuetudine.

 

Una valutazione plausibile potrebbe far pensare a una localizzazione di una tale area damnatorum nella zona attualmente identificata col toponimo “Tiro a segno” - località difatti non particolarmente amena -, dove passava una direttrice viaria che menava a Sicalenum [od. Casacalenda] e da qui a Bovianum [od. Bojano], nei pressi della quale sono state rinvenute quattro tombe a fossa (E. De Felice, Larinum, pp. 136-137), tali da fra pensare all'esistenza di un sepolcreto in cui inumarvi alla meglio anche i condannati a morte.

 

Ma alcune ulteriori considerazioni ci portano a inquadrare il tragico scenario della morte dei Martiri Larinesi in un tutt’altro contesto urbano.

 

 
 

 

L’Anfiteatro della Larinum romana seguirà una evoluzione non dissimile da altri centri urbani tardoantichi, perdendo le sue funzioni forse a partire dall’età tetrarchica. Il rinvenimento di un «antoniniano di bronzo del 268-270 d.C. rappresenta … un terminus post quem orientativo da cui partire per collocare una fase in cui l’anfiteatro perde le sue funzioni originarie»; una moneta di Costanzo Gallo del 351-355 d.C. testimonia comunque una frequentazione dell’area nella metà del IV secolo (G. De Benedittis-A. Di Niro, L’Anfiteatro di Larinum, pp.  37 e 40, n.ro 7).

 

 
 

 

   Nei secoli seguenti il significativo monumento condivise la sorte della città nella sua decadenza, tanto che tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo venne adoperato per seppellirvi i morti (P. De Tata, Sepolture altomedievali dall’anfiteatro di Larinum, pp. 94-103; Ead., L’anfiteatro romano di Larinum, pp. 134-137), talché se ne ipotizza un suo utilizzo a scopo difensivo in funzione anti-longobarda [A.R. Staffa, Alcune considerazioni sulla presenza longobarda nellItalia centrale adriatica (secc. VI-VII), p. 120].

 

 
 

 

In epoche più recenti esso venne parzialmente adattato a «rimessa, stalla e pollaio» (lettera del 28/02/1925 dell’Ispettore onorario Magliano alla Soprintendenza alle Antichità di Campania e Molise, in A. Di Niro, Larinum e Larino: la difficile convivenza, p. 129) o anche ad ospitare un «miserabile forno» nel settore nord-est dell’ambulacro (G. e A. Magliano, op. cit., p. 87). L’arena invece, veniva occupata da «inetta coltura, dettata da spilorcio guadagno» (ibid., p. 88)[11].

 

 

 

Bibliografia:

 

Aa.Vv., L’Amfiteatre romà de Tarragona, la basílica visigòtica i l’església romanica, (Memòries d’excavació 3), Departament de Cultura de la Generalitat de Catalunya, Tarragona 1990

Acta Bononiensia S. Ianuarii : BHL 4115-4140

P. Albino, Ricordi del Sannio Pentro e della Frentania, Campobasso 1879

A. Amore, I Martiri di Roma, Roma 1975

Atti e passioni dei martiri, edd. A.A.R. Bastiaensen-A. Hilhorst-G.A.A. Kortekaas, A.P. Orbán-M.M. van Assendelft, Roma-Milano 20076

Augustinus, Sermones, 315 : PL XXXVIII

M. Buonocore, La datazione dell’anfiteatro di Larinum, «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti», Serie ottava, Roma 1991, pp. 63-72

C. Cappella, Termoli e San Basso nella loro storia millenaria, «Archivio Storico Molisano» VII (1983-1984), pp. 177-184

Città di Larino, guida edita dal Comune di Larino, Termoli 2008, pp. 41-44

G. De Benedittis-A. Di Niro, L’Anfiteatro di Larinum. Iscrizioni, monete, sepolture, Campobasso 1995

A. Caraba, Delle antichità di Larino. L’anfiteatro, Montenero di Bisaccia Ottobre 1851, Campobasso, Bibl. Prov. “P. Albino”, ms. n.inv. 909, 14 ff., ed. facsimile G. De Benedittis, Campobasso 1983

E. De Felice, Larinum, Firenze 1994

H. Delehaye, Le leggende agiografiche, Firenze 1910, rist. Sala Bolognese 1983, trad. it. [Les légendes hagiographiques, (Subsidia hagiographica XVIII), Bruxelles 19684]

P. De Tata, Sepolture altomedievali dall’anfiteatro di Larinum, «Conoscenze», 4, Campobasso 1988, pp. 94-103

P. De Tata, La città di Larinum nella prima età imperiale romana. L’Anfiteatro, «Almanacco del Molise 1989», II, pp. 69-73

P. De Tata, L’anfiteatro romano di Larinum: le campagne di scavo 1987-1988, in «Conoscenze», 6, Campobasso 1990, pp. 129-137

P. De Tata, L’anfiteatro di Larinum: lettura di un’area archeologica attraverso la fonte ciceroniana, in Pro Cluentio, di Marco Tullio Cicerone. Atti del Convegno Nazionale, Larino 1997, pp. 115-123

A. Di Niro, Larinum e Larino: la difficile convivenza, «Proposte molisane 1982», 1, Campobasso 1982, pp. 122-142

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[1] Intervista a «Il Momento-Sera» del 02 settembre 1948, in U. Pietrantonio, Considerazioni e Osservazioni cit., App. doc. n. 1; V. Ferrara, La Diocesi di Trivento. (Periodo delle origini), Penne 1990, pp. 432-435.

[2]  G.A. Tria, op. cit., p. 744. Il Vescovo laertino ribadisce le circostanze del martirio riportando il testo inciso nel 1598 su di una «lamina di bronzo, posta per isvegliare la pietà de’ Fedeli sopra il tumolo di questi Santi nella Chiesa di Lesina: Christum confessi subeunt tormenta, securim, | Morte sua vivunt, vivere nosque docent. | Felices illi, qui sanctè Numen amarunt, | Felices erimus, si sic amemus item» (ibid.).

[3] In realtà, è assai probabile che non di scure si trattasse, ma di spada.

[4] Ibid., p. 750.

[5]  Eus., Hist. eccl. VIII,2,4-5.

[6]  L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, p. 156; gli unici due casi di martiri romani di cui si hanno i protocolli giudiziari – Giustino e Apollonio – furono decollati (ibid., p. 139); il martirio Sant’Ignazio di Antiochia è l’unico caso storicamente documentato a Roma di un martire condannato al combattimento con le fiere (ibid., p. 154). Che il Colosseo sia stato bagnato dal sangue dei martiri romani è una supposizione consolidatasi soltanto nel XVII secolo (ibid., p. 156). Tuttavia nell’Impero era pur sempre abbastanza comune la condanna ad bestias, ed Eusebio riferisce d’essere stato testimone del martirio di un ventenne divorato dalle fiere (Hist. eccl. VIII,7).

[7] «τὸν συνήθη τόπον» (Acta Iustini 6).

[8]  Eus., Hist. eccl. VIII,9,1-4.

[9] Vd. supra n. 4.

[10] Indicativa, al riguardo, appare la vicenda – invero piuttosto leggendaria – del vescovo beneventano Ianuarius che, dapprima condannato ad bestias con i suoi socii nell’anfiteatro di Puteoli [od. Pozzuoli, Napoli], vide la propria fine mutata in decollatio, eseguita nel forum Vulcani della stessa città – la c.d. Solfatara il 21 aprile (?) del 305 (Passio SS. Ianuarii et sociorum = BHL, pp. 4115-4119, 4132, 4134, 4140).

   [11] Vd. anche A. Magliano, Brevi Cenni storici…, p. 10, n. 1, in cui si conferma che «Nell’onciario del 1747 i corridoi dell’Anfiteatro… si fittavano per stalle di maiali», mentre a p. 23 si aggiunge che erano destinati a «cantine, legnaia e pollaio!».

 

 

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