Il monastero benedettino di San Primiano


MONASTERO DI S. FILIPPO

Fragalà (ME)

(XI sec.)

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alle fonti storiche sappiamo che prima del 726 era sorto, accanto alla Basilica paleocristiana dei Santi Martiri Lartinesi, un monastero benedettino, denominato talvolta nei documenti «di San Primiano» e successivamente anche «di San Benedetto»[1]. Il terminus ante quem di fondazione si evince dal diploma del duca di Benevento Romualdo II:

 
 

In diplomate Romualdi II Beneventanorum Ducis, dato die tricesima mensis Aprilis anno Dominicæ Incarnationis DCCXXVI in Civitate Beneventi pro monasterio S. Benedicti Alarinensis memoratur lignaria Vasariorum Senelli, in Maritima Thermulensi: ex Tabulario Abbatialis Ecclesiæ Sanctæ Mariæ Insulæ Trimeri eadem figulina Sanelli fluvii, quoniam ad jus regale pertinebat, Carolus I Andegavensis utriusque Siciliaæ Rex annuum ejus redditum per suas peculiares literas concessit Nobili Viro Rolando Comiti, et Palatino, anno Domini MCCLXXXIV, Regni anno XVIII, ex Indice quaternionum Archivi Reg. Sic. Post illustre Monasterium Sancti Ioannis in Venere septentrionem versus, ad Olivellum torrentem antiquitus figulina erat nobilis, pertinens ad jus eiusdem Cœnobi in qua ex argilla proximi clivi vasa, et alia formabantur opera, divitia et levitate spectanda: unde non exiguus Benedictini Ordinis Monachis proventus accedebat, ut liquet ex eorum vetustis libris datis et acceptis.[2]

 

 
   

A voler indicare dei limiti temporali più precisi, il Pietrantonio opta per l’«epoca di S. Barbato, probabilmente nel periodo in cui erano duchi di Benevento Grimoaldo II e Gisulfo I (687-706) quando si andava diffondendo tra i Longobardi l’amore e il rispetto alla vita monastica e il culto dei Santi e quando Teudurada, madre di Grimoaldo II fonda chiese e monasteri…» (I Benedettini nella diocesi di Larino, p. 145, vd. anche Id., Il Monachesimo Benedettino…, p. 52).

 

Considerando che è ritenuta accertata dagli storici l’unione della Diocesi di Larino a quella di Benevento sotto l’episcopato di Barbato (664-682), congiuntamente a Siponto, Ascoli e Bovino, si può ipotizzare che proprio all’azione di questo santo vescovo – che tanto aveva fatto pressione sul duca Romualdo I (662-687), per avere sotto la propria giurisdizione il Santuario micaelico del Gargano –, congiuntamente alla vasta opera di espansione monastica operata dagli abati di Santa Sofia di Benevento, si debba l’edificazione del nostro monastero, a motivo della sua strategica posizione di controllo su importanti vie di comunicazione al santuario arcangelico e, in via subordinata, per dare sostegno alla devozione per i Martiri Larinesi (sull’unione con Benevento: G.A. Tria, Memorie Storiche…, p. 679; G. e A. Magliano, Larino…, pp. 176-177; G. Mammarella, Larino sacra, I, pp. 14-17; Id., Larino sacra, II, pp. 25-27; La vicenda è narrata nella Vita Vita Barbati episcopi Beneventani 7; per Siponto i pareri sono discordi).

 

 
   

È tuttavia significativo che l’azione di Barbato mirasse a dare stabilità e protezione all’ormai fiorente culto micaelico, proprio acquisendo giurisdizione, anche senza l’approvazione papale, sulle diocesi finitime a quella sipontina (J. Gay, L’Italie méridionale et l’empire byzantin…, p. 197).

 

In quel periodo, per di più – intorno al 650 –, si registra la stabile presa di possesso, a danno dei Bizantini, di tutta l’area garganica da parte del duca di Benevento Grimoaldo I (647-671). Con la sua ascesa al trono di Pavia (662) era possibile giovarsi della devozione all’Arcangelo Michele – così simile, nella primitiva concezione longobarda, al loro dio Wodan – nel più classico dei modi, vale a dire quale instrumentum regni per l’unificazione di tutti i suoi sudditi, ariani e cattolici, dei suoi possedimenti settentrionali e meridionali (G. Otranto-C. Carletti, Il Santuario di S. Michele…, p. 41; G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane, p. 198).

 

 
   

Nulla conosciamo dellaspetto che il sacro edificio mostrava, in mancanza di qualsivoglia dato archeologico. Limmagine raffigurata in alto, relativa al monastero basiliano di San Filippo di Fragalà, potrebbe evocare la forma originaria del complesso monastico larinese.

 

Il monastero venne edificato «inter murum et muricinum», accanto all’antica Basilica paleocristiana, e venne dedicato a San Primiano. Il Mammarella ci ricorda che, nel caso di un culto rivolto a un gruppo di Santi, era di uso frequente l’intitolazione a quello più venerato (I Santi Martiri Larinesi, pp. 21-23). Possiamo desumere, dagli itinerari ricostruiti sul territorio, che esso si trovasse a poche miglia dalla direttrice che immetteva alla Via Litoranea.

 

Esiste tuttora in zona Piane di Larino una contrada denominata Francesca. Questo nome ricorre talvolta nei codici – è menzionato in un sigillum bizantino dell’XII secolo – come sostitutivo della Via Sacra Langobardorum. Il nome deriva chiaramente dal fatto che su di essa transitavano i viaggiatori provenienti dal nord Europa, comunemente detti Franchi (G. Piemontese, I Longobardi, p. 75; R. De Iulio-L. Ciambrone, Itinerari di pellegrinaggio tra il Sannio e il Gargano, pp. 72-73; M.T. Masullo Fuiano, “La Via dell’Angelo” ovvero la Via Francesca…, pp. 76, 79). Peraltro, proprio attraverso questa nostra contrada passava l’importante tratturo Sant’Andrea-Biferno, che pure ebbe notevole importanza per la diffusione del culto micaelico nell’area daunio-frentana e che qualche studioso ha identificato proprio con la direttrice che, con qualche modifica, portava al Gargano (G. Alvisi, La viabilità romana della Daunia, pp. 49-55). Registriamo, al contrario, che secondo la tradizione orale – non si sa quanto fondata – il toponimo sarebbe da mettere in riferimento con l’esistenza di un convento francescano situato nell’area in questione (E. De Felice, Larinum, p. 177, n. 689).

 

 


   

    In ogni caso il sito ci è ben noto: in posizione panoramica, intermedia tra la valle del Cigno e quella del Biferno, dominante la vasta area pianeggiante antistante, ricca di pascoli e colture anche in quell’epoca, innervata di percorsi tratturali e stradali.

 

 
   

Le fonti storiche e le superstiti strutture architettoniche ci riportano tutta una pluralità di casi di monasteri sorti accanto alle chiese martiriali: a Roma, fin dal IV secolo, esisteva una congregazione di virgines sacræ presso la basilica di Sant’Agnese sulla Via Nomentana, eretta sul sepolcro della Santa da Costantina (338/350), figlia dell’Imperatore della Pace (Lib. Pont., I, p. 180); presso San Lorenzo f.l.m. sorgeva un monastero ancillarum Dei; un monastero venne pure  istituito dal papa Sisto III (432-440) nei pressi della basilica Apostolorum «ad catacumbas», e un altro venne eretto ancora a San Lorenzo all’epoca di papa Ilaro (461-468). Gregorio Magno (590-604) stabilì che una comunità di monaci dovessero «ad sacratissimum corpus beati Pancratii cotidie opus Dei peragere», mentre la Messa doveva essere celebrata da uno dei vecchi presbiteri deputati al culto della chiesa cimiteriale sulla Via Aurelia intitolata al Santo, rimossi perché i fedeli «venientes dominicorum die … missarum sollemnia celebraturi non invento presbytero murmurantes redirent» (Reg. Epist. IV,18; vd. anche A. Amore, I Martiri di Roma, pp. 252-253); esisteva un cenobio anche presso la basilica di San Valentino sulla Via Flaminia, restaurato sotto Niccolò II (1058, 1059-1061), prima della definitiva traslazione delle reliquie del santo Vescovo nella basilica di Santa Prassede (XIII sec.).

 

Fuori dall’Urbe, abbiamo i noti casi di Cimitile, presso Nola, dove San Paolino e la moglie Terasia diedero vita a un famoso cenobio (H. Brandenburg-L. Pani Ermini, Cimitile e Paolino di Nola. La tomba di S. Felice e il centro di pellegrinaggio. Trent’anni di ricerche, Città del Vaticano 2002); in Africa abbiamo i monasteri voluti da Sant’Agostino nonché quello notevole di Bigua, presso le reliquie dei Martiri Scillitani; altri vennero eretti in Egitto, in Siria e in tutto il Medio Oriente (P. Testini, Archeologia Cristiana, p. 161; L. Pani Ermini, Santuario e città…, pp. 863-864).

 

Cresciuta la devozione verso i Martiri Larinesi – soprattutto quando la città venne a trovarsi sulla via di pellegrinaggio verso il Gargano, a seguito dell’Apparizione dell’Arcangelo –, viste le piccole dimensioni della chiesa cimiteriale, i Benedettini stanziati nell’attiguo monastero si saranno incaricati di edificarne una assai più grande, a tre navate, annessa al cenobio: «In antiqua Urbe Larino vetus item fuit Templum S. Primiani Martyris, tribus distinctum navibus cum ædificiis circumpositis» (G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi…, p. 54).

 

Probabilmente questo ampliamento dell’edificio di culto, vista la conformazione del terreno, assai scosceso, determinò la fine, forse graduale, della tumulazione ad sanctos, anche perché nel frattempo si sarà sicuramente cominciato a seppellire all’interno delle chiese intra mœnia del centro abitato trasferito altrove.

 

Fu così che la nuova basilica e il modesto monastero annesso vennero a trovarsi nella parte più pianeggiante di tutta l’area – «inter murum et muricinum» appunto –, mentre la più piccola Basilica paleocristiana rimaneva nel suo sito in forte pendenza, poco più oltre, fuori dal vecchio recinto urbano, ma comunque in qualche modo annessa a tutto il sacro complesso.

 

 
 

 

Si sta parlando dell’area in cui sorge l’attuale Cappella di San Primiano e la parte ottocentesca del Cimitero, quella più a monte. Così infatti la descrive il Pietrantonio:

 

ancora oggi è dato di notare, accanto e nelle adiacenze della cappella stessa di S. Primiano ruderi affioranti di precedenti costruzioni certamente riferibili alla precedente grande chiesa… insieme ad interessanti ruderi… che potrebbero darci maggiori indicazioni sul monastero benedettino.[3]

 

e ancora:

 

Ne esistono (scil. del monastero) ancora oggi i ruderi, ben visibili, sui quali e accanto ai quali nel 1725 è stata costruita l’attuale cappella di S. Primiano.[4]

 

 
   

Non conosciamo, in assenza di scavi archeologici sistematici, difficoltosi anche per la particolarità del luogo, in che epoca venne costruita la grande basilica a tre navate annessa al primo modesto monastero. In ogni caso, potrebbe ben darsi che entrambi siano sorti in seguito a donazioni delle aree interessate, così come sarebbe accaduto più tardi in altri casi, disposte dai proprietari – forse proprio i c.d. “Conti” longobardi di Larino.

Citiamo gli esempi di Santa Maria di Casalpiano, in territorio di San Martino in Pensilis, donata nell’858 da Bertefrido all’abate di Montecassino Bertario [G. Doganioni, Presenze Cassinesi nella Frentania Larinate, pp. 173-174; vd. anche G. e A. Magliano, op. cit., p. 162 e n. (a); G. Masciotta, Il Molise…, pp. 146-147].

 

In verità i duchi beneventani non suddivisero i loro territori in contee, memori delle divisioni da queste causate nei ducati settentrionali, bensì in una pletora di cellule amministrative, raggruppate intorno a un centro più popoloso, denominate actus o iudicariæ e, più tardi, gastaldati, alla cui guida erano i gastaldi.

 

 
   

   Possiamo anzi ritenere che furono proprio essi – i cui duchi beneventani non erano più ariani dal tempo dell’episcopato di San Barbato (664-682) –, preoccupati di dare assetto stabile al loro territorio, a valorizzare al meglio le tombe di quei Martiri già diffusamente venerate da secoli nei loro possedimenti, incoraggiando il pellegrinaggio micaelico e offrendo protezione ai pii viandanti diretti al Gargano [G.B. Pollidoro, op. cit., p. 54: «Longobardi dominantibus opulenta illa (scil. basilica) erat»; cfr. P. Ricci, Fogli abbandonati…, p. 59]; e difatti consistenti proprietà longobarde saranno diffusamente donate ai monasteri del centro-meridione d’Italia, ormai assurti al ruolo di veri e propri punti di riferimento per le classi dirigenti longobarde dopo la fine del Regno d’Italia (M. Cagiano de Azevedo, Principi committenti in epoca longobarda e carolingia, II, pp. 809-833).

 

 
   

Quei nuovi dominatori conoscevano quale fosse la capacità di riattivazione, anche e soprattutto in senso economico, che un monastero benedettino era capace di effondere sul territorio: i monaci restauravano le vie romane, tracciavano strade, battevano moneta, organizzavano fiere e mercati, rimettevano cioè in sesto le economie di intere contrade che sembravano in via di dissoluzione, e in più offrivano protezione, coi loro muri di cinta, agli intimoriti abitanti sparsi sul territorio, favorendone l’insediamento nelle “chiuse”, dove riuscivano a svolgere una pur minima attività produttiva (H. Leclerc, L’orde bénédectin, Paris 1930; G. Doganioni, art. cit., pp. 173-174; U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 152).

 

Proprio per queste ragioni, quegli insediamenti erano spesso oggetto di attacchi, abbattuti e ogni volta tirati su, come accadrà in qualche modo anche al nostro monastero di  San Primiano. Se la civiltà latina  e le antiche tradizioni si salvarono dalla generale rovina di quei secoli, lo si deve ai monasteri, specie benedettini. Non è perciò una pura combinazione il fatto che le donazioni più cospicue, specie dei Longobardi di Benevento, fossero in favore dei monaci di quest’Ordine. E se, venendo al nostro caso specifico, si consideri la circostanza che proprio in quel periodo la città di Larino era rimasta senza il suo vescovo, si comprenderà quali furono gli interessi convergenti del potere politico e dell’Ordine Benedettino a fondare un monastero in un’area così nevralgica per il consolidamento del culto micaelico.

 

 
   

In qualsiasi modo si voglia impostare l’argomento, appare incontrovertibile che la causa determinante del potenziamento del culto dei Martiri Larinesi sia da ricercare nel pellegrinaggio al Santuario garganico di San Michele, enormemente incrementatosi a partire dalla seconda metà del VII secolo, come testimoniato dalle iscrizioni, anche in caratteri runici, rinvenute in esso, tanto da farlo assurgere alla dignità di più importante santuario epifanico dell’Occidente europeo (sulle iscrizioni: C. Carletti, Nuove considerazioni e recenti acquisizioni..., pp. 173-184; M.G. Arcamone, Una nuova iscrizione runica da Monte Sant’Angelo, pp. 185-189; sull’importanza del Santuario:  G. Otranto-C. Carletti, op. cit., p. 37 ; G. Otranto, op. cit., p. 202).

 

Non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui, prima del dominio longobardo, la piccola Chiesa cimiteriale, eretta almeno un paio di secoli prima, fosse stata sufficiente ai bisogni inerenti il culto e che invece, proprio in un momento di depressione demografica della zona daunio-frentana, qual era quello successivo alle guerre greco-gotiche e ai conflitti tra Longobardi e Bizantini, si avvertisse la necessità di ampliarla. I «loca deserta» di Paolo Diacono (Hist. Lang. V,29) o la «silva densissima que habitacionem tantum prestat ferarum latibulaque latronum» del monaco Giovanni (Chron. Vult. I,111,8-9), sono le espressioni che descrivono il paesaggio altomedievale del Sannio pentro e frentano, rivelatrici di una decisa, anche se non drammatica, crisi demografica.

 

Emerge piuttosto chiaramente che solo il gran movimento di pellegrini diretti al Gargano, soprattutto a maggio e a settembre – e tutti sappiamo in che periodo dell’anno si festeggiano i Martiri Larinesi – possa spiegare l’improvvisa necessità di disporre di una chiesa con ben tre navate e di un annesso, seppur modesto, monastero di Benedettini, i quali fra i loro compiti avrebbero ben potuto avere anche quello di fornire loro assistenza materiale e spirituale.

 

 
   

Dalla letteratura agiografica conosciamo i numerosi casi di pellegrini che facevano professione di fede in un ben preciso santuario e si ritenevano particolarmente legati a un determinato santo, tanto da reiterare il pellegrinaggio annuale più volte – da “pellegrinaggio-avvenimento” diveniva in effetti “pellegrinaggio-istituzione” e vita –, fino a chiedere di essere ammessi alla tonsura nello stesso cenobio ovvero a mettersi al servizio delle strutture interne al monastero atte a dare assistenza ai pellegrini (E. Delaruelle, La spiritualité des pèlerinages à Saint-Martin de Tours du Ve au Xe Siècle, pp. 230-231; vi si riportano i numerosi casi di conversioni e di particolare devozione verso San Martino, i cui cenobi si moltiplicarono nella città di Tours [Indre-et-Loire, Francia], fino a dare origine a una vera e propria civitas Martini).

 

 
   

È storicamente provato che proprio Larino fosse scelta come luogo di sosta dalle frotte di pellegrini provenienti dal nord Italia e dall’Europa settentrionale che, soprattutto in prossimità delle due ricorrenze di maggio e settembre, si mettevano in cammino per raggiungere la Montagna sacra all’Arcangelo, percorrendo la Via Litoranea che lasciava la costa a Histonium [od. Vasto, prov. Chieti] (M.S. Calò Mariani [ed.], Due cattedrali del Molise. Termoli e Larino, p. 58; G. Piemontese, op. cit., pp. 71, 74). Ci è noto difatti che la data dell’8 maggio prese piede soprattutto a partire dal IX secolo, diffondendosi notevolmente negli ambienti popolari (G.Otranto-C. Carletti, op. cit., pp. 40-41).

 

Va detto che il passaggio a Larino era pressoché obbligato. È attestato al 765 il passaggio per la città frentana del monaco Magdalveo, vescovo di Verdun [Meuse, Francia], il quale, provenendo dalla Gallia, dopo aver visitato Roma, si diresse al Santuario garganico di San Michele attraversando il territorio del basso Lazio e del Molise; nelle campagne di Larino si immise quindi sulla Via Litoranea, che lo avrebbe condotto colà (Vita sancti Magdalvei episcopi : AA.SS. Oct. II, pp. 499-544; cfr. I. Aulisa-S. Bettocchi, Vie di pellegrinaggio al Gargano, p. 112).

 

A cominciare dalle successive tappe di Teanum Apulum [presso od. San Paolo di Civitate, prov. Foggia]  ed Ergitium [a 10 km a nord di San Severo, prov. Foggia] esisteva la possibilità di scegliere un percorso pedemontano, attraverso la piana del Tavoliere, per giungere a Siponto e inerpicarsi quindi alla volta di Monte Sant’Angelo lungo la Strata Peregrinorum, in compagnia di altre fiumane di penitenti provenienti da Benevento e oltre, ovvero raggiungere il Santuario garganico immettendosi in una strada mediana, la Via Sacra Langobardorum, che passava per la valle di Stignano (San Severo, San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo, Sant’Egidio) o ancora mettersi in cammino un po’ più a nord, lambendo i due laghi di Lesina e Varano (Ripalta, San Nazario, Cagnano Varano, Carpino).

 

 
   

 Si ha motivo di pensare che la maggior parte dei pellegrini provenienti dal Larinate preferisse la prima direttrice – la Via Litoranea –, quella cioè che portava a Siponto lambendo il massiccio garganico, così com’è descritto in modo sufficientemente chiaro nella cosiddetta Carrese di San Pardo[5].

 

Per Larino, dunque, si doveva in ogni caso transitare. Di certo, a quei penitenti in sosta nei dintorni della città o proprio all’interno delle sue mura, non sarà sfuggita l’occasione di visitare la basilica dei Santi Martiri Larinesi, per venerare le reliquie di tre campioni della fede in essa custodite; ed anzi possiamo credere che proprio il monastero benedettino potesse disporre di una struttura assimilabile in qualche modo a un ospizio per pellegrini, così come capitava in altre edifici monastici tenuti dai figli di San Benedetto, proprio lungo quel sacro itinerario che conduceva al Gargano, al fine di dare loro accoglienza e assistenza spirituale.

 

 
   

In ogni caso, abbiamo notizia anche dell’esistenza, all’interno dell’abitato medievale, di un Ospedale per pellegrini (A. Magliano, Brevi Cenni storici…, pp. 40, 58), mentre un altro, intitolato a Sant’Antonio abate, sorgeva ai margini dell’antico centro romano, accanto ad una chiesa e a un monastero omonimi (G.A. Tria, op. cit., pp. 369-372; G. e A. Magliano, op. cit., p. 185).

 

 
   

Nel giorno di domenica era celebrata per i pellegrini la Messa, quasi sempre in una cappella compresa nello spedale ovvero in una chiesa collegata o vicina. Era difatti molto diffusa la tipologia edilizia dell’ospedale a sala, simile a una chiesa, che permetteva al contempo di posizionare i letti lungo le due pareti longitudinali, mentre in quella prospiciente era posizionato l’altare, sì da renderlo visibile a tutti (I. Moretti, Linee di indagine per lo studio dell’architettura ospedaliera nel Medioevo, pp. 218-219; G. Cherubini, Santiago di Compostella, pp. 157 ss.).

 

 
   

Nei monasteri non mancavano conoscenze mediche e farmacologiche, così da poter venire incontro anche ad eventuali problemi di salute di quei viandanti penitenti (J.C. Dousset, Storia dei medicamenti e dei farmaci, pp. 87-92; J. Agrimi-C. Crisciani, Malattia, medico e medicina nel Medioevo, pp. 115-120). Difatti ci è pervenuto che nell’anno 900 il nostro monastero di San Primiano disponeva di una biblioteca costituita di codici di opere mediche: «Medicinale tres, Galienum, aforismum et Genicia et Asclepium et glosa una» (U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 153; M. Inguanez, Catalogi Codicum Cassinensium antiqui, sæc. XIII-XV; D. Priori, Badie e conventi benedettini d’Abruzzo e Molise, II, p. 38).

 

 
   

Poteva capitare anche che a ridosso degli ospedali per pellegrini sorgessero piccoli insediamenti abitativi, come nel caso, ad es., dell’Hospital de Órbigo, ad est di Astorga [Castilla y León, Spagna], sul Cammino di Santiago, passato in seguito agli Ospedalieri di San Giovanni (1184), come pure avvenne in altri casi per altri ospedali più piccoli (J. Passini, El Camino de Santiago. Itinerario y núcleos de población, Madrid 1993, p. 148; G. Cherubini, op. cit., pp. 155-156 per altri riferimenti).

 

 
   

D’altra parte ci è pervenuto dalle fonti che nei pressi del monastero benedettino di San Primiano esisteva un omonimo casale, menzionato in una bolla del 19 novembre 1409 di Alessandro V (1409-1410), antipapa di obbedienza pisana durante il Grande Scisma d’Occidente, a proposito di una controversia tra il vescovo Pietro (1401-1410) e l’Ospedale di Barulo [od. Barletta], riguardante la giurisdizione su di esso (G. e A. Magliano, op. cit., pp. 227, 422; A. Magliano, op. cit., p. 98; G. Masciotta, op. cit., p. 160).

Il casale di San Primiano andò probabilmente in rovina a causa del terremoto del 4-5 dicembre 1456, che provocò a Larino la morte di 1.313 persone, per cui gli abitanti si trasferirono altrove (G.A. Tria, op. cit., p. 250).

 

Il documento mi sembra interessante in funzione del legame che potrebbe celarsi tra i Cavalieri Teutonici che controllavano il complesso abbaziale di San Leonardo di Siponto e la chiesa larinese dedicata allo stesso Santo limosino, ubicata nei pressi del casale di San Primiano, proprio nel rione attualmente denominato “Pian San Leonardo”.

 

Numerosi monasteri benedettini erano disseminati lungo le vie di pellegrinaggio che portavano al Santuario garganico di San Michele: per limitarci alla cosiddetta Via Sacra Langobardorum, vi erano insediamenti benedettini a Ripalta, Santa Maria di Stignano (Cistercensi), San Giovanni de Lama [ora San Matteo] (Benedettini, poi Cistercensi, infine Francescani), San Marco in Lamis, Sant’Egidio [G. Piemontese, op. cit., pp. 74 ss.; per una panoramica: M.S. Calò Mariani (ed.), Insediamenti benedettini in Puglia. Per una storia dell’arte dall’XI al XVIII secolo, 2 voll., Galatina 1981].

 

Tutto lascia pensare che il nostro monastero di San Primiano si sia ingrandito non poco nel corso dei secoli, arricchendosi di proprietà terriere, derivanti da lasciti e donazioni, nonché di una ricca dotazione di sacri arredi e di preziosi ex voto lasciati a scioglimento di un atto devozionale in favore dei Santi Martiri Larinesi.

 

 
   

Intorno all’842 i Saraceni berberi, provenienti da Taranto, cinsero d’assedio la città e la saccheggiarono, seminando grande strage. I resti mortali di Primiano e Firmiano furono trafugati dai Lucerini trasferitisi a Lesina al tempo dell’assedio di Costante II (663). Il corpo di Casto non fu trovato e rimase dov’era sepolto (G.B. Pollidoro, op. cit., pp. 1-73; G.A. Tria, op. cit., pp. 207, 245-246, 744-745; G. e A. Magliano, op. cit., p. 156-157; P. Ricci, Fogli abbandonati…, pp. 67-68).

 

Si deve ipotizzare  che anche i monaci, custodi dei Sacri Corpi, fuggirono davanti agli aggressori saraceni ovvero che furono massacrati e perciò da considerare martiri anch’essi. Il Magliano però sostiene che la chiesa di San Primiano fosse ancora in piedi, ma nulla ci dice – né poteva farlo – della sorte toccata ai monaci e al monastero, giacché erroneamente creduto non ancora eretto (G. e A. Magliano, op. cit., p. 158).

 

Si fa osservare che i Saraceni mai si sarebbero fatti sfuggire un’ambita preda quale poteva essere un monastero, soprattutto se posto proprio all’ingresso della città e nemmeno tanto protetto (inter murum et muricinum). Qualche anno dopo (846) arrivarono persino a saccheggiare la basilica di San Pietro a Roma [G. Musca, L’emirato di Bari (847-871), p. 29]. Nella regione frentana essi distrussero conventi e chiese, compresa l’abbazia di Santo Stefano in rivo maris (D. Priori, La Frentania, II, p. 79, n. 7); nelle zone interne misero a saccheggio per due volte il monastero di San Vincenzo al Volturno (861 e 881), in questa seconda razzia trucidando un gran numero di monaci (G. Musca, op. cit., pp. 66, 130-132). Analoga sorte toccò anche ai più famosi monasteri di Montecassino (883) e di San Clemente a Casauria (916).

 

 


 

 

Dovremmo forse pensare che i monaci fuggirono persino davanti a trafugatori da presumersi disarmati ovvero che furono uccisi da costoro – ma mi pare assai improbabile – o anche – ancora più assurdo – che siano stati complici nel furto sacro? Ma di queste banali osservazioni nessuno pare interessarsi o quasi. Sfugge alla regola il Pietrantonio, che si pone più o meno gli stessi quesiti (I Benedettini cit., p. 145), anche se poi tralascia di considerare quale fu la sorte toccata ai monaci. A parer mio non resta che dare per storicamente fondato il massacro dell’intera comunità monastica, custode da almeno un secolo e mezzo dei Sacri Corpi. Ciò consentì ai Lesinesi, antichi abitatori di Lucera, di rivalersi su un’antica disputa relativa alla custodia delle reliquie dei Martiri Larinesi.

 

 
   

Malgrado questo sciagurato evento, il monastero di San Primiano non cessò di esistere in quanto tale, ed anzi tutto lascia pensare che esso tornò all’antico splendore e alla sua più importante funzione, cioè quella di prestare assistenza ai pellegrini diretti alla montagna garganica.

 

Tanta fu la necessità, per le proporzioni davvero enormi del pellegrinaggio al Gargano, che stava interessando tutta l’Europa che, intorno all’anno 945, malgrado l’avvenuto trafugamento delle reliquie martiriali, si provvide ad ampliare notevolmente il monastero.

 

Ciò non desti meraviglia, visto che non era del tutto raro il sussistere di un edificio di culto, malgrado l’indisponibilità di reliquie venerate; si veda ad es. il caso del martire romano Ciriaco, le cui spoglie mortali, deposte nel cimitero al VII miglio della Via Ostiense, sulle quali il papa Onorio I (625-638) edificò una piccola basilica (Lib. Pont., I, p. 324), furono ripetutamente traslate dai pontefici Paolo I (757-767), Pasquale I (817-824) e Agapito II (946-955); pur tuttavia, ancora al tempo di Leone III (795-816) e Benedetto III (855-858), vi furono fatti lavori di restauro, segno dunque che l’edificio di culto era rimasto pienamente attivo (A. Amore, op. cit., pp. 216-217, ma qui lo studioso francescano avanza seri dubbi sulla veridicità delle traslazioni).

 

Autore dell’ingrandimento fu un prete larinese, certo Leone, di famiglia oriunda di Trivento – il padre era un tale Adelperto – e suo vescovo intruso nel 946, destituito dal papa Agapito II già nel marzo dell’anno seguente. Nello stesso anno 945 il monastero fu dedicato a San Benedetto e donato, unitamente a una piccola biblioteca, dallo stesso Leone, all’abate di Montecassino Maielpoto. Il Magliano e il Ricci ci riportano che anche il prete Leone vi condusse vita monastica[6].

 

 
   

Ci è pervenuto dalle fonti che proprio alcuni monaci cassinesi, tra il 774 e il 778, tentarono di impedire il proseguimento del viaggio di un pellegrino inglese diretto, «cum sociis», a Monte Sant’Angelo; indice di una certa rivalità tra i due santuari e del tentativo degli abati cassinesi di estendere la propria influenza al Santuario garganico, che si manifesterà piuttosto chiaramente tra X e XI secolo (Chron. Casin. 1,13).

 

Queste notizie gettano certamente nuova luce sulla donazione, agli abati di Montecassino, dell’ampliato nostro monastero. Si potrebbe trattare, in definitiva, di una donazione “desiderata” dall’abbazia cassinense, al fine di assicurarsi il controllo su quelle realtà monastiche poste sulle direttrici che conducevano al Santuario garganico di San Michele.

 

Che tali lavori di ampliamento intrapresi a Larino dai Benedettini trovino rispondenza, lo si desume da analoghi casi che ritroviamo in altre zone limitrofe, specie della Puglia settentrionale [M.S. Calò Mariani (ed.), Insediamenti benedettini in Puglia cit., passim].

 

 
   

Una sintetica cronologia ci aiuterà a ricordare quali furono le vicende che interessarono il nostro cenobio nel corso dei secoli successivi:

 

- nel 952 la donazione di Leone venne confermata per due volte, con privilegio dei Principi di Benevento Landulfo II e del figlio Pandulfo I[7];

- sotto l’abate di Montecassino Aligerno ( 986), era priore del nostro monastero un certo Costanzo[8];

- nei privilegi papali per Montecassino da Giovanni XV (985-996) a Urbano II (1088-1099), così come pure nelle donazioni imperiali di Enrico II (1014-1024), Corrado II (1027-1039) e Lotario III (1133-1137), esso figura come dipendenza del suddetto monastero cassinese[9];

- in un documento del gennaio 1006 si descrive il nostro monastero come cella «quæ constructa esse videtur in civitate Alarino, intus murum et antemuralem eiusdem civitatis»[10];

 

- in due bolle, di Vittore II del 1057 e di Niccolò II del 1059, si cita il monastero di «San Benedetto in Alarino», distinguendolo di quello probabilmente più a valle, in agro di Ururi, di «San Benedetto in Pettinari»[11];

- la distinzione è riproposta in un diploma del 22 settembre 1137 dell’imperatore Lotario III di Supplimburgo, compilato dal benedettino Pietro Diacono, bibliotecario dell’abbazia di Montecassino[12];

- in una pubblica scrittura del 27 marzo 1184, l’abate e i monaci del monastero deplorano, piangendo, i danni arrecati al sacro edificio dal conte Roberto III di Loritello[13];

- venne forse abbandonato in seguito alle iniziative avverse ai monasteri intraprese da Federico II[14]; 

 

 
   

- il Magliano, nella sua opera più sintetica, propende per l’abbandono del monastero a causa di un terremoto[15];

- è annoverato tra i demani imperiali del quinquennio 1241-1246. È possibile che i monaci si fossero già spostati – e questa è una notizia interessante – nel dipendente monastero di Sant’Angelo a Palazzo, ubicato nel territorio di Acquaviva Collecroce[16];

- si ritiene – ma non si conoscono diplomi di donazione che lo provino – che alla fine del XIII secolo l’abate di allora, Biagio, abbia donato il monastero, coi suoi beni annessi e connessi, all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni[17];

 
 
   

- pur non essendosi al corrente del diploma di donazione, è certo che con Bolla del 22 settembre 1297, il papa Bonifacio VIII – e questa è altra notizia di un certo interesse – confermò tale concessione con tutti i suoi diritti e privilegi, che andarono a formare la “Commenda di San Primiano di Larino”[18];

- il Tria, fidandosi della lettera di concessione di Bonifacio VIII, opta per la donazione fatta dall’abate Biagio; annota poi come il monastero di San Benedetto di Larino e quello di Sant’Angelo a Palazzo di Acquaviva Collecroce siano stati considerati, come «anche attualmente … uniti»[19];

- il Magliano, riportando i termini di una causa inerente la presunta donazione (vd. infra), ricorda che in quel frangente «fu vivamente impugnata la veracità della supposta donazione e conferma di Papa Bonifacio»; reputa i beni della “Commenda di San Primiano” «altrimenti donati, o meglio usurpati allorché ne furono spogliati i templari»[20];

 

- in un privilegio di papa Callisto III (1445-1458) si cita il nostro monastero, distinguendolo anche qui dall’altro posto più a valle[21].

- intorno al 1720, durante l’episcopato di mons. Pianetti (1706-1725), l’antica chiesa a tre navate e l’annesso monastero vennero abbattuti perché pericolanti. Al suo posto venne iniziata la costruzione dell’attuale Cappella, ultimata dal vescovo Tria, oggi inclusa nel cimitero comunale[22];

- della “Commenda di San Primiano” si ricordano i nomi di due suoi commendatarii: Pelletta[23] (in vita nel 1562) e Cedronio[24] (1785), suo ultimo commendatore, visto che, con la Bolla Dum Collatis, in quell’anno le commende vennero abolite e incamerate nel Regio Demanio[25]. Durante il Regno dei Borboni la “Commenda di San Primiano” fece parte della dotazione dei principi reali; dal 1860 le sue rendite passarono al Demanio dello Stato[26];

 

 


   

Si riporta, a questo punto, il giudizio alquanto negativo sulle “commende”, dato da uno storico locale:

 

Mentre le comunità celestine, a causa della loro origine recente, si trovavano più vicine agli interessi del popolo anche per la loro somiglianza nell’impegno ascetico coi recenti Ordini Mendicanti (Minori, Predicatori, ecc.), i grandi antichi cenobi che affondavano le loro radici nell’ordinamento feudale e che erano in stretto rapporto coll’autorità politica, subirono una crisi più grave. Essi risentirono delle vicissitudini storiche a cui in questo periodo il regno di Napoli fu soggetto, in particolar modo della lunga lotta fra il papato e la casa di Svevia. Per porre rimedio alla situazione di dissesto economico e di decadenza disciplinare, invalse l’uso, da parte della Sede Apostolica durante il periodo della “cattività avignonese”, di affidare (commendare) i monasteri in difficoltà all’amministrazione d’un prelato della curia o anche a qualche ecclesiastico locale bisognoso di aumentare le proprie rendite coi proventi delle ancor ricche abbazie, almeno quanto a possessi fondiari. Le tentazioni di usare di tali proventi per i propri esclusivi interessi anziché per la restaurazione della vita monastica era assai forte e quasi tutti i commendatari vi cedettero. Soprattutto nelle nostre due regioni (scil. Abruzzo e Molise) gli antichi monasteri benedettini furono vittime di questa situazione senza possibilità di ripresa.[27]

 

Parrebbe un giudizio che risulta essere ancora valido ai nostri giorni.

 

Ricordiamo che l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni [Ordo Equitum Hospitaliorum Sancti Johannis Hierosolymitani] fu fondato dal beato Gerardo di Gerusalemme (o anche di Amalfi ovvero di Martigues) dopo la presa della Città santa da parte dei Crociati (1009). I suoi statuti furono approvati dal papa Pasquale II (1099-1118) il 15 febbraio 1113. Esso prese il nome dal Battista, in sostituzione del misconosciuto santo greco Giovanni III Eleymon, patriarca di Alessandria (detto “l’Elemosiniere” dai Latini), i cui membri dal 1309 vennero denominati «Cavalieri di Rodi» e, dal 1530, «Cavalieri di Malta» (P. Jardin-Ph. Guyard, I Cavalieri di Malta, pp. 22-24).

 

 
   

Appare singolare, in ogni caso, come il nome del Battista ricorra più volte in tutta quanta questa vicenda, tanto da far pensare a un ulteriore riferimento: P. Naudon, Le logge di San Giovanni, Roma 1997.

 

Agli inizi del Novecento affiorava ancora qualche rudere dell’antico monastero, sotto il muro del cimitero, nei cui paraggi si rinvenne una lastra di marmo spezzata, le cui uniche parole leggibili erano Preposito Memento (A. Magliano, op. cit., pp. 91-92). Erano inoltre ancora visibili alcuni locali annessi alla Cappella (U. Pietrantonio, I Benedettini cit., pp. 147-148), individuabili nel cosiddetto «romitorio» descritto dal Tria (vd. infra). In data 16 maggio 1899 l’Intendenza Generale di Campobasso verbalizzava la cessione della Cappella di San Primiano – ultimo residuo cultuale di tutto il sacro complesso – all’Amministrazione Municipale di Larino, con obbligo di lasciarla aperta al culto e di non variare alcunché senza la preventiva autorizzazione del Governo (ibid.).

 

   Tutto ciò detto, mi piace tornare per un momento a quanto raccontato dal Tria nelle sue Memorie:

 

Questa adunque è Chiesa antichissima, che fu a tre navi, le quali furono fatte abbattere d’ordine di Monsignor Pianetti, e dato principio a d. picciola Chiesa, è terminata a tempo del nostro governo, con un ben comodo Romitorio per uso di due Romiti, da’ quali si abita per la sua custodia, non lungi dalla strada maestra, che conduce da Larino ad Ururi.[28]

 

Un «ben comodo Romitorio per uso di due Romiti»: così si era ridotto l’antico monastero di San Primiano di Larino, attraverso il quale chissà quanto popolo cristiano diretto al San Michele di Puglia era transitato.

 

 

 

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[1] G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi Episcopi, et Confessoris in Cathedrali Templo Larinensi quiescentis…, Romæ 1741, p. 54; G.A. Tria, Memorie Storiche, Civili ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino Metropoli degli Antichi Frentani, Roma 1744, rist. Isernia 1989, pp. 247, 361-363, 749; V. Bindi, Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, Napoli 1889, rist. anast. Sala Bolognese 1977-1978, p. 703; G. e A. Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003, pp. 163, 165, 182-184; P. Ricci, Fogli abbandonati di storia larinese raccolti in continuazione del Tria, Larino 1913, rist. anast. Larino 1987, pp. 59-60; A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986, pp. 30, 91-92; D. Priori, Badie e conventi benedettini d’Abruzzo e Molise, II, Lanciano 1951, pp. 43-44; G. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni. Il Circondario di Larino, IV, Cava dei Tirreni 1952, rist. Campobasso 1985, p. 153; S. Moffa, Martiri del Molise delle primitive comunità cristiane, in «Almanacco del Molise 1989», II, Campobasso 1989, p. 113; U. Pietrantonio, I Benedettini nella diocesi di Larino, in «Archivio Storico Molisano» IV/V (1980-1981), pp. 139-153; Id., Il Monachesimo Benedettino nell’Abruzzo e nel Molise, Lanciano 1988, pp. 52-53, 422-424; Id., Considerazioni e Osservazioni su alcune Opere di Storia del Molise recenti e passate, Campobasso 1992, pp. 37, 57; V. Ferrara, La Diocesi di Trivento. (Periodo delle origini), Penne 1990, pp. 384-385, 430; G. Mammarella, Da vicino e da lontano. Sacro e profano nella ricostruzione di fatti emblematici della storia di Larino e del circondario, Larino 1986, p. 125; Id., Larino Sacra. La diocesi, la genesi della cattedrale, i SS. Martiri Larinesi, II, San Severo 2000, p. 66 ; Id., I Santi Martiri Larinesi, Termoli 2001, p. 19.

[2] V. Bindi, op. cit., p. 703.

[3] U. Pietrantonio, Considerazioni e Osservazioni su alcune Opere di Storia del Molise recenti e passate, Campobasso 1992, p. 37.

[4] Ibid., p. 57.

[5] «Mi voglio fa na vesta pellegrina, | Mi voglio ire addò spunta lu sole | A là ce nà bella conca marina Dove si battezzava nostro Signore, | E la Madonna a lui vicino stava | E San Giovanni che lu battezzava» [Carrese di San Pardo (lectio altera) in N. Stelluti, Larino. Carri & Carrieri di San Pardo, p. 34].

[6] E. Gattola, Historia abbatiæ Casinensis per sæculorum seriem distributa, I, Venetiis 1773, p. 130: «Obtulit huic Monasterio Ecclesiam Sancti Benedicti, quæ sita est intra eadem Civitatem, cum omnibus rebus, et pertinentiis suis»; G.A. Tria, op. cit., pp. 247, 259, 362; G. e A. Magliano, op. cit., p. 182; P. Ricci, op. cit., pp. 59, 79; A. Magliano, op. cit., p. 91; G. Masciotta, op. cit., p. 153; U. Pietrantonio, Il Monachesimo Benedettino cit., p. 423; Id., Considerazioni e Osservazioni cit., p. 57; G. Mammarella, I Santi Martiri cit., pp. 19-20. Va detto che il Ricci non identifica nello stesso edificio i due monasteri, di S. Primiano e di S. Benedetto.

[7] E. Gattola, op. cit., p. 55; G.A. Tria, op. cit., p. 362; G. e A. Magliano, op. cit., p. 182; G. Masciotta, op. cit., p. 153; U. Pietrantonio, Il Monachesimo Benedettino cit., p. 423; G. Mammarella, I Santi Martiri cit., p. 20.

[8] U. Pietrantonio, Il Monachesimo Benedettino cit., p. 423.

[9] Ibid.

[10] E. Gattola, op. cit., p. 132, citato in U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 146 e in Id., Il Monachesimo Benedettino cit., p. 53.

[11] A. Magliano, op. cit., p. 92; U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 147; Id., Il Monachesimo Benedettino cit., p. 53.

[12] L. Fabiani, La terra di S. Benedetto, II, Abbazia di Montecassino 1968, p. 423 ss.; U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 147.

[13] Dissertazione manoscritta del Pollidori della Biblioteca Napoletana di Storia Patria (cfr. G. e A. Magliano, op. cit., pp. 163, 182; A. Magliano, op. cit., pp. 33, 102; D. Priori, La Frentania cit., II, p. 132; U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 146; G. Mammarella, I Santi Martiri cit., p. 20.

[14] S. Malaspina, Hist. Fior., Cap. 123, p. 10, citato in G. e A. Magliano, op. cit., p. 182 e in U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 146.

[15] A. Magliano, op. cit., p. 91.

[16] G. e A. Magliano, op. cit., p. 182; U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 146.

[17] G.A Tria, op. cit., p. 362: «Come poi fusse passato questo Monastero con sue Grance in Commenda de’ Gerosolimitani, finora per le diligenze fatte presso gl’Autori, che trattano delle Ragioni di questa Sagra Religione, non ci è riuscito porlo in chiaro»; G. e A. Magliano, op. cit., p. 183: «Come avvenisse tale passaggio non si conosce»; P. Ricci, op. cit., p. 59; G. Masciotta, op. cit., p. 153: «Il Monastero, dopo il 1000, passò fra i beni dell'Ordine che assai più tardi fu detto di Malta»; S. Moffa, art. cit., p. 113; V. Ferrara, op. cit., p. 385; G. Mammarella, I Santi Martiri cit., p. 20.

[18] G. Bosio [Bosius], Dell’istoria della sacra Religione, dell’illustrissima milizia di Santo Giovanni Gierosolimitano, I, Roma 16212, p. 16; G.A. Tria, op. cit., pp. 362-363; G. e A. Magliano, op. cit., p. 183; A. Magliano, op. cit., p. 91; T. Badurina, Rotas opera tenet arepo sator, Roma 1950, pp. 51-52; G. Masciotta, op. cit., p. 153; U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 147; G. Mammarella, I Santi Martiri cit., p. 20.

[19] G.A. Tria, op. cit., p. 362.

[20] G. e A. Magliano, op. cit., p. 184. Ricordiamo che dopo la soppressione dell'Ordine dei Templari nel 1312, il papa Clemente V donò i loro beni agli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme (di Malta).

[21] U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 147.

[22] G.A. Tria, op. cit., pp. 361, 363-364, 749; G. e A. Magliano, op. cit., p. 184; A. Magliano, op. cit., pp. 56, 91; G. Masciotta, op. cit., p. 153; U. Pietrantonio, I Benedettini cit., p. 147; S. Moffa, art. cit., p. 113; G. Mammarella, Larino sacra cit., II, p. 66; Id., I Santi Martiri cit., p. 39. Il Ferrara (op. cit., p. 430) ritiene che la demolizione sia avvenuta nel 1715, a seguito dei terremoti del 1688 e del 1772 (!). Probabilmente si tratta di un refuso; la data effettiva dovrebbe perciò essere 1712.

[23] G. e A. Magliano, op. cit., pp. 183-184 e n. (c). Vi è detto di una causa de 1785, in cui questo Pelletta, commendatore nel 1562, era risultato erroneamente quale edificatore della terra di Acquaviva; G. Masciotta, op. cit., p. 153.

[24] G. e A. Magliano, op. cit., pp. 183-184 e n. (c); G. Masciotta, op. cit., p. 153. La causa, in cui si metteva in dubbio la donazione all’Ordine di Malta, era tra l’università di Acquaviva ed il Baly Cedronio, ultimo Commendatore di S. Primiano.

[25] G. e A. Magliano, op. cit., pp. 183-184 e n. (c); A. Magliano, op. cit., p. 91; G. Masciotta, op. cit., p. 153.

[26] A. Magliano, op. cit., pp. 91-92.

[27] U. Pietrantonio, Il Monachesimo Benedettino cit., p. 73.

     [28] G.A Tria, op. cit., p. 361.

 

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Commenti: 1
  • #1

    pinomiscione (domenica, 19 luglio 2015 19:29)


    Il dr. Rino Gliosca, scrittore e poeta croato-molisano di Acquaviva Collecroce, mi ha segnalato che lo stemma gentilizio qui sopra attribuito al Balì Antonio Cedronio è in realtà lo stemma del Gran Maestro Juan De Homedes (GM 1536-1553). Prendo atto della precisazione e ringrazio. Mi limito a precisare che ho preso la notizia da un post di Franco Valente, linkato all'interno del mio scritto.

    Di seguito, una sua comunicazione in proposito:

    gent.mo Pino,
    ti ringrazio per la citazione. Una piccola correzione è dovuta. Lo scrittore e poeta croato-molisano è mio cugino Nicola Gliosca quindi a lui i meriti dei romanzi ed altri scritti.
    Per quanto riguarda gli stemmi di Acquaviva, mi sento di confermare che lo stemma centrale è dei Cavalieri di Malta, quello di destra di Antonio Pelletta (non dei Cantelmo come viene erroneamente attribuito). Dello stemma a sinistra del Gran Maestro Juan De Homedes bisogna dare alcune notizie. Dal punto di vista araldico lo stemma viene definito come "partito di uno e troncato di due" (Bascapè).
    La stranezza dov'è? Lo stemma del De Homedes (e della sua casata) contiene si tre torri su fondo rosso ma un solo albero su fondo d'oro mentre quello di Acquaviva ne ha tre! L'albero è sicuramente un Olmo anche se su molte riproduzioni dello stemma dei De Homedes sembra un pino. D'altronde se vedi qualche foto di olmi in rete, alcuni sembrano tondi ed altri allungati!
    Ora perchè la presenza di tre olmi? Pensavo a quel che in araldica viene definita una brisura (una modifica di un blasone ereditato), ma qui non è proprio il caso! Ho scomodato un professore universitario madrileno, direttore del Collegio Araldico Spagnolo, il quale mi ha risposto nel giro di una mezza giornata confermando che la presenza di tre olmi è un mistero! L'unica spiegazione logica che ha dato e che mi sento di condividere è una libertà artistica da parte dello scultore per equilibrare la presenza delle tre torri.
    Spero di aver solleticato la tua curiosità. A presto!
    Link alle foto:
    http://it.tinypic.com/m/inhfh2/4
    http://it.tinypic.com/a/3bvdi/4

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