« Gladio animadverti placet »

F. BOL

Il console Tito Manlio Torquato fa decapitare

suo figlio

(1661-1663)

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  a sentenza emessa dal governatore provinciale, cui si perveniva a volte anche dopo una certa dilazione per consentire ai rei di ravvedersi, era formulata assai semplicemente: gli accusati venivano portati un’ultima volta davanti al giudice che, in caso di persistenza nel loro rifiuto di effettuare il sacrificio, acclarato il crimen de maiestate, si ritirava coi suoi assessori dietro una tenda (velum) e dettava la sua deliberazione, scritta a grandi lettere da uno scrivano sulla tabella (πινακίδος), contenente lelenco completo dei condannati.  
 

   Seduto su di uno scranno, egli leggeva il decretum. La formula che ricorre è «decretum ex tabella recitavit» (Acta martyrum Scilitanorum 14; Acta Cypriani 3,6; Acta Maximiliani 3,1; «Καὶ α̉πὸ πινακίδος α̉νεγνώσθη» Martyrium Pionii 20,7). Nel caso di procedimento a porte chiuse, esso veniva proclamato a gran voce al pubblico esterno dal banditore (præco), una volta rimosso il velum. Il giudice poteva premettere alla lettura qualche frase giustificativa ovvero una vera e propria motivazione. Nella formula concisa della sentenza era solitamente indicata solo la pena che veniva inflitta: l’esilio, la deportazione, i lavori forzati e la morte, che poteva essere comminata mediante esposizione alle fiere, al fuoco, per decapitazione o crocifissione.

 

 
 

  

   Le categorie di capitis pœnæ sono elencate nel Digesto in ordine di gravità decrescente: «Capitalium pœnarum fere isti gradus sunt. Summum supplicium esse videtur ad furcam damnatio (la croce). Item vivi crematio: quod quamquam summi supplicii appellatione merito contineretur, tamen eo, quod postea id genus pœnæ adinvenentum est, posterius visum est. Item capitis amputatio» (Callistr., Dig. XLVIII,19,28; vd. anche Paul., Dig. V,17,2: «summa supplicia sunt crux, crematio, decollatio»).

 

   In quest’ultimo caso, la formula di protocollo era «gladio animadverti placet» ovvero «gladio animadverti placuit» (Acta martyrum Scilitanorum 14; Acta Cypriani 3,6; Acta Maximiliani 3,1).

 

 Alla lettura della sentenza i martiri designati erano soliti rispondere con un laconico quanto significativo «Deo gratias» [Acta martyrum Scilitanorum 15.17; Acta Maximiliani 3,2; Acta Cypriani (recensio altera) 3,6; vd. anche «Deo gratias agimus» in Acta martyrum Scilitanorum 15].

 

Alla vigilia dell’esecuzione della pena capitale, i condannati – in particolare quelli ad bestias – avevano la facoltà di tenere un ultimo libero pranzo collettivo, al quale poteva assistere anche il pubblico, derivato dall’antica consuetudine di concedere ai gladiatori, alla vigilia della lotta, la consolazione di un’orgia suprema, che si chiamava cena libera, ma che i cristiani appellarono agape. Tertulliano ce ne descrive l’origine (Apol. 39,16: «Cœna nostra de nomine rationem sui ostendit: id vocatur quod “dilectio” penes Græcos»). 

 

Prima dell’esecuzione della condanna era piuttosto frequente che i rei non cittadini fossero sottoposti a flagellazione. I condannati si scambiavano tra di loro il bacio di pace prima di affrontare il martirio.

 

 
 

 

Va comunque sottolineato che lo ius gladii consentiva al magistrato di comminare la pena capitale a un cittadino romano soltanto mediante decapitazione {cfr. Martyrium Lugdunensium (V),1,47: «Καὶ̀όσοι μὲν ε̉δόκου πολιτείαν ‘Ρωμαίων εσχηκέναι τούτων απέτεμνε τὰς κεφαλάς, τοὺς  δὲλοιποὺς έπεμπεν ει̉ς θηρία» [E a quanti di essi risultavano in possesso della cittadinanza romana (scil. il governatore) fece mozzare il capo, mentre gli altri li destinò alle fiere]}. Ci è peraltro noto il famoso caso dell’Apostolo Paolo, cittadino romano (At 22,25-29), che stando a Clemente Romano venne decapitato a Roma alle Aquæ Salviæ, lungo la Via Laurentina, a dispetto degli altri protomartiri romani non cittadini.

 

 
 

 

Va detto che, specialmente nelle province, queste disposizioni di legge non furono sempre osservate; si veda ad esempio il caso di Perpetua che, benché quasi certamente cittadina romana, fu condannata a combattere con le fiere (Passio Perpetuæ et Felicitatis 6,6); al contrario, i martiri Scillitani vennero tutti decapitati, pur non essendo, con ogni probabilità, cittadini romani (Acta martyrum Scilitanorum 14). In questo caso dobbiamo ritenere che il proconsole Saturnino abbia optato per la decapitazione in quanto ritenuta più sbrigativa e facile da eseguire (cfr. Plin., Epist. X,96,3: «perseverantes duci iussi»).

 

 Al reo venivano legati i polsi dietro le reni con le fasciolæ; così ad esempio vediamo negli antichi monumenti San Paolo, i Santi Nèreo e Achìlleo, San Mena, i martiri della casa Celimontana e perfino Isacco sul punto di essere immolato dal padre. Gli occhi venivano solitamente bendati con un orarium (Passio S. Iulii vet. 2: «Et hæc dicens sanctus Julius accepit orarium, et ligavit oculos suos, et tetendit cervicem suam»; Acta SS. Marciani et Nicandri martyrum 3: «Post hæc percussor orariis oculis martyrum circumdatis, iniecto gladio finem eis dedit martyrii»); nella leggenda di San Gennaro, vescovo di Benevento, il fazzoletto con cui il Santo si benda gli occhi, del quale promette di far dono a un povero, è detto orarium (ουράριον); altrove esso era talvolta denominato manualium (Passio Montani et Lucii 15,2: «manualem, quo oculos fuerat ligaturus, in partes duas discidit»). San Paolo, secondo la celebre leggenda, si bendò gli occhi col maforte donatogli da Plautilla (Passio S. Pauli 16).

 

 
 

 

Durante l’età repubblicana la decapitazione veniva eseguita adoperando la scure, simbolo del potere del magistrato, col condannato legato a un palo (Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, p. 918, n. 2). Sembrerebbe, inoltre che, terminata la fustigazione, il reo venisse disteso bocconi sul suolo e così decollato. Durante l’Impero, invece, si preferiva usare il gladio.

 

 
 

 

Al condannato veniva ordinato di inginocchiarsi a terra; tuttavia non mancano eccezioni, che vedevano il condannato ritto in piedi, così come raffigurato ad esempio nella Colonna di Marco Aurelio per alcuni prigionieri, o per San Paolo nei bassorilievi dei sarcofagi, come pure nel caso di molti altri martiri in alcune miniature dei codici antichi, i cui prototipi rimontano al V o al VI secolo, quando la decollazione per gladium era ancora nell’uso comune (P. Franchi de’ Cavalieri, Intorno ad alcune reminiscenze classiche..., p. 143). Più raramente avveniva che il condannato venisse decapitato col gladio imbracciato dal carnefice con la mano destra, mentre reggeva la di lui testa per i capelli con la mano sinistra, così come descritto nella decapitazione di un martire nella pisside Nesbitt (ibid., p. 143, n. 4; cfr. Cic., Petit. cons. 3: «qui stanti collum gladio dextra sua secuerit, cum sinistra capillum eius a vertice teneret»).

 

 
 

 

Al tempo dell’Impero invalse l’uso di giustiziare i rei sul luogo del delitto, ma questa aggravazione di pena pare si applicasse soltanto nei casi degli assassini di strada (Callistr., Dig. XLVIII,19,28): «famosos latrones in his locis, ubi grassati sunt, furca figendos compluribus placuit, ut et conspectu deterreantur alii ab isdem facinoribus et solacio sit cognati set adfinibus interemptorum eodem loco pœna reddita, in quo latrones omicida fecissent: nonnulla etiam ad bestias hos damnaverunt» (vd. anche L. Callu, Le jardin des supplices au Bas-Empire, p. 315, n. 9).

 

Il più delle volte essi venivano crocifissi, sì da permettere a tutti la loro vista e per un maggior lasso di tempo. In Oriente, per l’esecuzione in terrorem, pare prevalesse l’uso dell’impalamento. Tuttavia non mancarono eccezioni a quest’usanza, come nel caso di Avidio Cassio: «milites qui aliquid provincialibus tulissent per vim, in illis ipsis locis in quibus peccaverant, in crucem sustulit» (Script. Hist. Aug., Avidius Cassius VI,4,2) [P. Franchi de’ Cavalieri, Un recente studio sul luogo del martirio di S. Sisto II, p. 148 e n. 2].

 
 
 

 

Abbiamo per contro notizia certa che nella città di Roma i rei cristiani vennero mandati a morte in larga parte mediante decapitazione (L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, p. 156). Il boia (carnifex, spiculator) esercitava la sua ingrata mansione «al luogo solito delle esecuzioni» (Acta Iustini 6), con ogni probabilità il Campus Esquilinus, posto davanti alla Porta Esquilina. Che si trattasse di una zona poco raccomandabile, lo apprendiamo anche da Cicerone (Cluent. 3,36-38), relativamente al dubbio episodio dell’assassinio del facoltoso giovane larinate Asuvio, avvenuto proprio in una cava di arena fuori della porta Esquilina, per mano del dissoluto Avillio, su istigazione di Oppianico.

 

Successivamente, per le esecuzioni capitali nell’Urbe venne adoperata anche l’area del Sessorium, sita nei pressi della residenza di Elena, madre di Costantino (P. Franchi de’ Cavalieri, Intorno al testo della vita e degli atti di S. Cipriano, p. 129, n. 5). Ancora nel 500, il re ostrogoto Teodorico vi fece decapitare un ufficiale, benché accanto al palatium sorgesse la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, voluta proprio da Elena (Lib. Pont., I, Paris 1886, p. 196, n. 75).

 
 

 

San Girolamo definisce questi luoghi areæ damnatorum (In evang. Matth. IV,26). Ci è noto anche il cosiddetto βάραθρον, presso Antiochia, dove, secondo quanto riportato da San Giovanni Crisostomo, venivano decollati i rei (P. Franchi de’ Cavalieri, Note agiografiche, VII, pp. 91-92). Celeberrimo è poi il Golgotha di Gerusalemme (Hier., op. cit. IV,27). Particolarmente evocativa è la macabra descrizione di siffatto luogo nella Passio Theodoti Ancyr. (17): «Cum vero pervenissent ad locum in quo solent rei cruciari, locum horribilem, et quem nemo post solis occasum audebat intrare, (quia istic præcisa capita, aut contis infixa stabant, aut dispersa jacebant igne combusta,) horrore non modico correpti etiam ipsi sunt». In alcune città questo sito era indicato come campus, per cui con la locuzione ducere ad campum s’intendeva ducere ad supplicium (Passio Bonosi et Maximiliani 5: «Meletius episcopus cum fratribus suis et coëpiscopis lætantes eos ad campum usque prosecuti sunt»).

 

 
 

 

La consuetudine di riservare ai supplizi un’area ben delimitata trova una spiegazione logica in virtù del fatto che si tendeva ad espellere queste funzioni poco nobili al di fuori del recinto urbano, così come era da secoli previsto per le sepolture. Per di più sappiamo che tali luoghi tendevano a conservare nel tempo la loro poco ambita funzione, come per l’appunto il Campo Esquilino sopra ricordato.

 

 
 

 

A Larino siamo indirettamente a conoscenza dell’esistenza di questo penoso luogo, in cui vennero mandate a morte le vittime delle proscriptiones sillane nell’82 a.C., «crudelissime interfectis», di cui ci parla Cicerone (Cluent. 8,25). Evidentemente in quel frangente la scure fu il mezzo più adoperato per mandare a morte.

Nulla purtroppo ci dice il grande oratore riguardo all’ubicazione di questo posto di estremo patimento. Nemmeno possiamo tentare una identificazione certa riguardo al luogo dove venne crocifisso lo schiavo Stratone, nel 72 a.C. (Cluent. 66,187), ma certamente esso andrà collocato lungo una delle strade che uscivano dal centro abitato, se non proprio riconosciuto nella stessa area adoperata per dannare a morte le vittime di Oppianico, proscritte nell’82 a.C.

 

Tuttavia, tra tutte le aree adiacenti a direttrici viarie, la più indicata mi sembra possa essere ravvisata in quella zona extra urbem attualmente denominata “Tiro a segno”, che è abbastanza estesa per potervi svolgere azioni del genere e la più angusta e meno amena tra quelle che circondano la città frentana, prossima alla strada che portava a Sicalenum [od. Casacalenda] e da qui a Bovianum [od. Bojano].
 

Per di più, proprio in questarea, sono state rinvenute tracce di almeno quattro tombe a fossa - tipologia la più infima -, orientate est-ovest, poste ad appena m 0,50 dal piano di campagna, che hanno fatto pensare alla localizzazione di un più vasto sepolcreto (E. De Felice, Larinum, pp. 136-137); ed è risaputo che spesse volte in prossimità delle areæ damnatorum erano ubicate necropoli in cui anche i condannati a morte venivano inumati, in tombe di fortuna, ricoperte appena da qualche zolla di terra («cineres vel corpora lævi cespite obruta», dice il giurista Marciano).

Pertanto è ipotizzabile che le quattro tombe rinvenute appartengano a persone messe a morte dopo una condanna a pena capitale.

 

 
 

 

Per quanto riguarda l’esecuzione della sentenza vera e propria, era consuetudine che il condannato fosse preceduto da un’insegna – titulus (πίνακος) – [Martyrium Lugdunensium (V),1,44], scritta quasi sempre in Latino, lingua ufficiale, sulla quale erano indicati il suo nome e la ragione della condanna.

 

 
 

 

Se si esclude qualche caso del tutto eccezionale di donne o persone di elevato ceto sociale, messe a morte all’interno delle carceri, si trattava di un avvenimento pubblico, consumato all’aperto, con la vittima atteggiata sollemni more [A. Amore, I Martiri di Roma, pp. 221-223, 237-238; vd anche il caso del Battista (Mt 14,8-10; Mc 6,25-28)]. Esso richiamava una gran folla di persone, sia che si trattasse, cosa del tutto ovvia, di ludi del circo, sia che invece consistesse in una assai poco spettacolare decapitazione, come difatti avvenne nel caso di Cipriano di Cartagine, mandato a morte pubblicamente – primo fra i vescovi africani – il 14 settembre del 258, la cui fine non dovette essere molto dissimile da quella di altri martiri, compresi i Santi Fratelli Larinati:

 

 

 

 

 


Poi [Cipriano] fu condotto nel campo di Sesto, dove si tolse il mantello e lo distese nel punto in cui intendeva inginocchiarsi, poi si tolse la dalmatica e la consegnò ai diaconi, restando con indosso la sola veste di lino; e si mise ad aspettare il carnefice. Arrivato che fu il carnefice, ordinò ai suoi di dargli venticinque aurei. I confratelli gettarono ai suoi piedi salviette di lino e asciugamani; Cipriano si coprì lui stesso gli occhi, ma non riuscendo a legare le bende da solo, il prete Giuliano e il suddiacono Giuliano gliele legarono. Poi il vescovo Cipriano fu giustiziato, e il suo corpo, per proteggerlo dalla curiosità dei gentili, fu rimosso da lì e portato tra fiaccole e torce nel cimitero del procuratore Macrobio Candidato, sito nella via delle Capanne presso la piscina, con gran gioia e tripudio. Pochi giorni dopo il proconsole Galerio Massimo morì[1].

 

 

 

Bibliografia:

 

A. Amore, I Martiri di Roma, Roma 1975

Atti e passioni dei martiri, edd. A.A.R. Bastiaensen-A. Hilhorst-G.A.A. Kortekaas-A.P. Orbán-M.M. van Assendelft, Roma-Milano 20076

L. Callu, Le jardin des supplices au Bas-Empire, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique,  (CollEFR 79), Rome 1984, pp. 313-349

Cicero, Pro A. Cluentio oratio (L’orazione per Aulo Cluenzio Abito), ed. G. Pugliese, Milano 1972

E. De Felice, Larinum, Firenze 1994

P. Franchi de’ Cavalieri, Intorno ad alcune reminiscenze classiche nelle leggende agiografiche del secolo IV, in Hagiographica, Roma 1908, pp. 123-164

P. Franchi de’ Cavalieri, Intorno al testo della vita e degli atti di S. Cipriano, in Note agiografiche, IV , Roma 1912, pp. 115-138

P. Franchi de’ CavalieriUn recente studio sul luogo del martirio di S. Sisto II, in Note agiografiche, VI, Roma 1920, pp. 147-178I

P. Franchi de’ Cavalieri, Note agiografiche, VII, Roma 1928

L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, Roma 1949, rist. anast. Roma 1996, trad. it. [Die römischen katacomben und ihre Martyrer, Wien 1950]

G. Lanata, Gli atti dei martiri come documenti processuali, Milano 1973

Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire, ed. L. Duchesne, I, Paris, 1886

Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899

Th. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta. Ex libris cùm editis, tum manu scriptis collecta, eruta vel emendata, notisque & observationibus illustrata, Parisiis 1689 (altre edd.: Amstelædami 17132, Amstelædami-Veronæ17313, Amstelædami 18034, Amstelædami 18595, Parisiis 1859, Ratisbonæ 18593 [rist. 1ª ed. 1689])

Scriptores Historiæ Augustæ  :  Avidius Cassius VI

G.A. Tria, Memorie Storiche Civili, ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino Metropoli degli Antichi Frentani…, Roma 1744, rist. Isernia 1989

 

 

 


 

[1] Acta Cypriani (recensio altera) 4,1-3.

 

 

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