La Basilica micaelica di Larino

LARINO

Cisterna romana

(S. Angelo a Palazzo)

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ul finire del 493 o nel gennaio del 494 il papa Gelasio I indirizzò una lettera al vescovo di Larino Giusto, in cui ordinava la consacrazione di una basilica «in honore sancti archangeli Michaelis et nomine», a seguito di donazione di una «re propria quæ Mariana vocatur», edificata da «Priscillianus et Felicissimus viri devoti»[1] 

 
 

Questo il testo della lettera papale:


Gelasio a Giusto vescovo di Larino. Priscilliano e Felicissimo, uomini devoti, per notificazione della richiesta scritta ci suggerirono che nella loro proprietà, che è chiamata Mariana, essi fondarono, in segno della propria devozione, una basilica la quale desiderano che venga consacrata in onore e in nome del Santo Arcangelo Michele. E perciò, fratello carissimo, ricevuta dapprima la donazione che è racchiusa nella richiesta scritta, se interessa alla tua parrocchia (diocesi) – ma “se interessa la tua diocesi” (N.d.A.) – accorda con solenne venerazione la benedizione alla basilica sopra citata. Tuttavia i fondatori sapranno che niente essi devono pretendere da questa basilica se non l’accesso alla processione.[2]

 

Credo utile e necessario, a questo punto, parlare brevemente dei protagonisti della missiva, cominciando proprio da questo significativo Pontefice:

 

 
 

 

San Gelasio I – africano secondo il Liber Pontificalis, ma forse nato a Roma da famiglia africana – governò la Chiesa dal 1° marzo 492 al 21 novembre 496. Il suo pontificato, seppur breve, fu uno dei più importanti del V secolo, e diede risalto al primatus iurisdictionis del vescovo di Roma su tutte le altre Chiese, così come si desume da tutti i suoi scritti. Si impegnò con zelo a ristabilire nella Chiesa Cattolica la disciplina, l’ordine e il diritto gravemente turbati in seguito alle invasioni germaniche. Grande impulso diede all’edificazione di edifici di culto, soprattutto al di fuori di Roma.

Per quanto attiene al culto micaelico, accordò il definitivo parere positivo al momento della dedicazione della Basilica garganica, poi rivelatasi inutile. Egli stesso, stando alla tradizione, si sarebbe recato in pellegrinaggio al Sacro Speco, nel febbraio del 494. È sepolto in San Pietro (Lib. Pont. I, pp. 255-256; BSS, VI, coll. 90-93; DPAC, II, pp. 1440-1441).

 

Justus è il primo dei vescovi conosciuti della Cronotassi ufficiale, incaricato in quegli stessi anni, dallo stesso Pontefice – unitamente a Probus, probabilmente vescovo del saltus Carminianensis (località presso od. San Lorenzo in Carmignano, a 5 km a sud-est di Foggia) – di interessarsi di un increscioso episodio, di carattere liturgico, riguardante un monasterium, verificatosi nella diocesi di Lucera in occasione della Pasqua del 493  (Gelasii I Papæ epist. 3, ed. cit., p. 2; per alcune brevi annotazioni su questo presule rimando a G. Mammarella, Larino sacra. Cronotassi…, pp. 9-10; vd anche PCBE 2, 1250-1251, 2408).

Risulta essere assai significativo il fatto che il primo atto ufficiale conosciuto, menzionante la Chiesa di Larino riguardi un luogo di culto dedicato all’Arcangelo Michele.

 

Quanto ai dedicatari, stando agli studi prosopografici, essi erano due funzionari di origine larinate, stretti da vincolo di parentela – dai nomi evidentemente romani –, che prestavano servizio come palatini al servizio del re ostrogoto Teodorico, il quale risiedeva a Ravenna, sottratta agli Eruli di Odocare da meno di un anno (5 marzo 493). La qualificazione «viri devoti» è quindi da interpretare non specificamente in senso religioso, ma in quello più tecnico, riferito al ruolo civile che essi ricoprivano, poiché in questo modo erano per l’appunto denominati i funzionari di media estrazione dell’amministrazione ostrogotica (PLRE II, pp. 458, 905; vd. anche G. Barker et alii, op. cit., p. 277; P.M. Conti, «Devotio» e «viri devoti» in Italia da Diocleziano ai Carolingi, Padova 1971).

 

Ricordiamo che il territorio della provincia Samnii, di cui Larino faceva parte dalla metà del IV secolo, fu uno dei più interessati dall’occupazione gotica ai danni degli Eruli, scarsamente presenti nelle province meridionali. Gli stanziamenti dei Goti nel Sannio furono, in questo periodo, piuttosto consistenti; ogni anno si recavano a Ravenna, per ricevere donazioni dalle mani del loro re (Cassiod., Var. V,26-27). Alcuni recenti rinvenimenti sepolcrali parrebbero rilevare la loro presenza nel territorio della diocesi di Larino, precisamente a Casalpiano, presso Morrone del Sannio [A. Di Niro-M. Santone-W. Santoro (edd.), op. cit., p. 21].

 

 
 

 

Procopio di Cesarea ci riporta che, da parte ostrogotica, considerevoli furono gli espropri delle terre precedentemente concesse agli Eruli, che riguardarono soprattutto l’Italia centro-settentrionale, ed anzi possiamo tranquillamente assumere che li superarono, a motivo della maggiore consistenza numerica di quel popolo, colpendo i grandi latifondisti di stirpe romana oltreché le terre incolte.

Probabilmente i «beni, e territorj» di Sant’Angelo a Palazzo di cui parla monsignor Tria (vd. infra) sono da ricollegare a queste elargizioni di proprietà fondiarie disposte dal prefetto del pretorio Liberio, posto a capo della deputatio tertiarum, nominata per l’occasione dal rex Italiæ ostrogoto.

 

 

L’epistola gelasiana propone la questione delle ecclesiæ publicæ vel privatæ (Cod. Theod. XVI,5,14), che aveva riguardato la Chiesa sin dalle origini: numerose erano state le chiese e gli oratori edificati da privati, sui quali essi esercitavano il loro potere e le loro pretese.

 

Fu proprio Gelasio I a stabilire precise norme per la fondazione di una nuova chiesa da parte di laici: era necessario che essa fosse consacrata – previa verifica che non custodisse tombe di privati – e che rispondesse a ben precisi requisiti, del cui espletamento era vagliatrice la Sede Apostolica, unica autorità che la poteva autorizzare:

 

sine summi pontificis auctoritate ecclesiam conditam non posse dedicari.[3]

 

Il fondatore era tenuto a rivolgere al Papa una precisa richiesta (petitorium) in cui dichiarava che aveva costruito a proprie spese e su un suolo di sua proprietà una chiesa che intendeva dedicare a un particolare santo. L’atto era necessario al fine di impedire che i fondatori avanzassero in seguito pretese ovvero s’intromettessero nella loro gestione.

 

Disponiamo di alcune formule ricorrenti in queste richieste (Liber diurnus romanorum pontificum, ed. Th.E. Sickel, Wien 1889, trascriz. dai codici esistenti a cura di H. Foerster, Bern 1958, n. 10, pp. 9-10; ed. Foerster, pp. 83-84, 186, 271-272), nelle quali il fondatore domandava al Pontefice di autorizzare il suo vescovo diocesano a consacrare con la celebrazione della Messa e a dotare di reliquie l’oratorio da lui edificato a proprie spese su un proprio terreno; si specificava inoltre che egli aveva provveduto all’arredamento del sacro edificio e a dotarlo di certi beni per la luminaria e per il sostentamento di coloro che vi avrebbero celebrato il divino ufficio, certamente non preti stabili:

 

cui basilicæ, ad luminaria vel ad alimonia ibidem servientibus, offero ill. et ill.[4]

 

Il fondatore prometteva inoltre che non avrebbe avanzato in futuro alcuna pretesa o diritto sull’oratorio, se non quello di accedervi, accordato peraltro a tutta la comunità dei fedeli (C. D’Angela, Dall’era costantiniana cit., p. 324):

 

Promitto… nihil mihi de eodem loco ulterius vindicandum, nisi processionis gratiam, quæ Christianis omnibus in commune debetur.[5]

 

L’edificio di culto oggetto della donazione diveniva, in effetti, proprietà della Chiesa a pieno titolo e senza condizioni (G. Otranto, Le comunità cristiane cit., p. 98).

 

Solo al momento del pieno soddisfacimento di tutte queste condizioni, il Pontefice avrebbe autorizzato la consacrazione della chiesa da parte del vescovo competente, che era tenuto a far sì che gli impegni presi per iscritto dai costruttori fossero mantenuti (ibid., pp. 98-99).

Dal contenuto della lettera in oggetto, dobbiamo presumere che Gelasio l’abbia accompagnata con l’atto di richiesta dei due donatori o copia di esso (ibid., p. 100).

 

 
 

 

Venendo alla nostra lettera, la mia annotazione circa la traduzione italiana  - “se interessa la tua diocesi” – cambia notevolmente il significato della proposizione; ma d’altro canto credo non avrebbe molto senso una costruzione intransitiva, così da far apparire la missiva papale quasi alla stregua di un messaggio pubblicitario. Per contro, la mia traduzione farebbe supporre che il sito si sarebbe potuto trovare fuori della diocesi di Larino. Tuttavia, bisogna tener conto che, in quei primi secoli di affermazione della religione cristiana, era prassi, trattandosi di donazione privata, l’accertamento della giurisdizione episcopale, per evitare successive controversie coi donatori; ciò anche perché solitamente tali donazioni costituivano il primo passo verso altre ben più consistenti, riguardanti terre e proprietà immobiliari annesse, che difatti ritroviamo secoli dopo nel nostro sito (G.A. Tria, Memorie Storiche…, p. 369).

 

La determinazione dell’esatta competenza territoriale era ancor più necessaria, visto che proprio Gelasio aveva enunciato il nuovo principio per cui «territorium non facit diocesim», resosi probabilmente necessario a seguito delle conversioni di massa del V secolo, che avevano notevolmente dilatato i confini delle diocesi.

 

Il provvedimento papale mirava a basare la circoscrizione diocesana non più sull’aggregazione territoriale, bensì sul più importante principio dell’unità della vita liturgico-sacramentale del popolo, e pertanto ne facevano parte coloro i quali, per il battesimo e la cresima, facevano riferimento al vescovo diocesano o a un suo delegato:

 

illud debet summa intentione disquisiri: quis, idest cuius civitatis ex eadem regione, antequam basilica quæ nuper fabricata est fundaretur, baptizaverit incolas; aut ad cuius consignationem sub annua devotione convenerint.[6]

 

Il popolo aveva la facoltà, all’interno della stessa diocesi – non più “territoriale”, ma “personale” –, di scegliere la chiesa in cui praticare il culto:

 

ut unusquisque in vicina sibi ecclesia aut in electa pro suæ mentis baptizetur arbitrio.[7]

 

Per queste ragioni era soprattutto necessario definire con esattezza gli ambiti giurisdizionali del vescovo all’interno della propria circoscrizione, disciplinandone i rapporti col clero, i monaci e la comunità tutta nonché quelli con gli altri vescovi, come per l’appunto nei casi di consacrazione di chiese e oratori in proprietà private (G. Otranto, Italia meridionale cit., pp. 65-67 e n. 194; A. Campione, Introduzione, in A. Campione-D. Nuzzo, La Daunia alle origini cristiane, pp. 18-19).

 

 

Dalle lettere gelasiane traspare tutta la preoccupazione del Pontefice nell’autorizzare tali edifici di culto a fondazione privata, conscio del pericolo che presso di essi continuassero riti e credenze ancora pagane, magiche e superstiziose. Ancora più restrittive furono le norme emanate in futuro dal successore Pelagio I (556-561), il quale vietò categoricamente che un oratorio a fondazione privata si trasformasse in chiesa battesimale e che un vescovo vi insediasse un prete stabile o anche che il fondatore acquisisse nuovi diritti. In seguito, tuttavia, molte furono le deroghe a queste rigide normative, ed anzi si incoraggiarono le fondazioni di oratori privati (C. Violante, loc. cit., pp. 983 ss.).

 

 
 

 

È stato fatto notare che i due donatori larinesi inoltrarono la loro richiesta al papa Gelasio perché proprio in quegli anni stava nascendo il culto micaelico nella vicina area garganica, ed è perciò presumibile che essi vi si siano recati in pellegrinaggio tra i primi. La data convenzionale è quella dell’8 maggio del 490 (1ª Apparizione: episodio del toro). Secondo alcuni autori, la nascita del culto è però da far risalire a qualche decennio prima (G. Otranto-C. Carletti, op. cit., p. 32; G. Otranto, Italia meridionale cit., pp. 191-192).

 

 Così ancora Giorgio Otranto «… non è escluso che queste chiese (scil. di Larino e Potenza) possano essere un riflesso della diffusione del culto micaelico nelle zone circostanti in seguito ai primi pellegrinaggi al monte» (ibid., p. 192); così inoltre Cosimo D’Angela: «Specialmente per il primo centro (scil. Larino) è logico pensare che il culto sia stato introdotto dal vicino Gargano, dove già era giunto dall’Oriente attraverso l’attivo porto di Siponto» (Gli scavi nel Santuario cit., p. 378).

 

Difatti un passo del Liber de Apparitione Sancti Michaelisi in Monte Gargano sembra confermare il dato storico, che cioè i pellegrinaggi al Monte erano assai più frequenti nel dies festus (8 maggio), poiché si credeva che la virtus taumaturgica dell’Arcangelo fosse in quell’occasione più potente:

 

Maxima (scil. miracula) tamen eiusdem die natalis, cum et de provinciis circumpositis plus solito conflua turba recurrat et angelicæ virtutis maior quodammodo credatur adesse frequentia.[8]

 

Peraltro della consuetudine al pellegrinaggio garganico, da parte della popolazione larinese, sappiamo dalla cosiddetta Carrese di San Pardo che, benché successiva, lo descrive in modo piuttosto puntuale[9], rievocando l’antico tracciato della Via Litoranea che da Larino portava a Siponto rasentando il massiccio garganico.

 

 
 

 

A questo punto, occorre soffermarsi a lungo sulle varie ipotesi di ubicazione del luogo di culto dedicato all’Arcangelo Michele oggetto dell’epistola gelasiana:

 

dell’esistenza di una basilica dedicata al Principe delle Milizie celesti nella città di Larino sappiamo dal Vescovo Tria:

 

La Chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo si ritrova quasi tutta atterrata dall’aggrossamento del terreno sotto l’antico Palazzo della Città vecchia, per cui tiene il nome di S. Angelo a Palazzo […]. Fu questo beneficio, e possiede molti beni, e territorj in tutta quella sua adjacenza, uniti al S. Seminario, come ampiamente negli Atti della Visita di Monsignor Balduino, e si descrivono nella Platea generale, fatta dal zelante, e dotto Prelato, che fu Monsignor Persio Caracci.[10]

 

Il Magliano ci dice poi che essa fu eretta

 

 … forse nel V secolo, quando, avvenuta a tempo di Gelasio I la mirabile apparizione di S. Michele Principe degli Angioli, se ne aumentò la devozione presso i popoli d’Italia.[11]

 

Tuttavia aggiunge che probabilmente la sue erezione è da collocare all’epoca della conversione dei Longobardi al Cattolicesimo, avvenuta al tempo dell’episcopato beneventano di San Barbato (664/?-682).

 

 
Larino, Pianta basilica S. Angelo a Palazzo
Planimetria dell'isolato occupato dalla basilica di S. Angelo a Palazzo, prima dei restauri (giallo): C = cisterne; CP = cisterne con pozzo; T = tufo a livello stradale; R = riporto di terreno [da Stelluti, Larino Piano San Leonardo..., Campobasso 1992]
 

 

Ad aver ipotizzato che la Basilica micaelica edificata tra le mura della città di Larino possa essere stata effettivamente quella oggetto dell’epistola gelasiana è stato Giuseppe Mammarella, il quale prende in considerazione soprattutto la presenza in quell’antico sito di piscine limarie e cisterne, che facevano parte dellantico castellum aquæ della città romana, adattabili alla funzione di battistero, associando questa intuizione al fatto che il culto micaelico nasceva spesso e volentieri in siti ricchi di acque sorgive (G. Mammarella, Da vicino e da lontano cit., pp. 117-121; Id., Larino Sacra. La diocesi cit., pp. 50-57).

 

La basilica larinese è ubicata ai piedi dell’altura oggi denominata Montarone, la cui etimologia è facilmente riconducibile al toponimo antico Mons Aureus. Ebbene, si tratta di un toponimo assai diffuso in Italia meridionale e sempre riferito a località in cui si è insediato il culto micaelico (A. Campione, Culto e santuari cit., p. 291, n. 67).

 

Bisogna anche considerare dove il sito proposto per la localizzazione dell’antica basilica si trovasse, vale a dire al centro dell’antico abitato romano, che era in quello scorcio di V secolo in buona parte spopolato dei suoi abitanti – sicché potremmo riconoscervi caratteri di ruralità –, visto che proprio in quell’epoca si venne determinando in tutta la provincia, e non solo, un ribaltamento del rapporto tra città e campagna, a tutto vantaggio di quest’ultima, dato che possessores e curiales, stanchi delle prepotenze degli alti funzionari (iudices e saiones), vi avevano preferito ritirarsi, fuggendo la civilitas; fenomeno, questo, da intendersi quasi come reazione all’esasperazione delle realtà amministrative nei secoli precedenti (A. Di Niro, Larinum e Larino…, pp. 127-128; Ead., Larinum, in Samnium, p. 267; E. De Felice, op. cit., p. 46 e n. 206).

 

Restava, ad espletare le funzioni un tempo detenute dall’antico potere statale, la sola figura del Vescovo, che sin dall’epoca di Costantino aveva visto sempre più accresciuti i propri poteri, anche in ambiti che non gli competevano, tanto da rivestire un ruolo riconducibile a quello dei magistrati statali, ai quali si andrà effettivamente via via sostituendo [vd. ad es. Epist. del 459, inviata dal papa Leone I Magno (440-461) ad universos episcopos per Campaniam, Samnium et Picenum constitutos, da cui traspare la solidità dell’organizzazione ecclesiastica (Epist. 168 : PL LIV, coll. 1209-1211)].

 

Il vescovo è il

 

protector civitatis, che, pur non essendo integrato nelle cariche municipali, è comunque il primo personaggio della città, sacerdos, defensor, tutore e patronus civitatis, della quale dirige la chiesa, impegnato nella sfera politico-istituzionale in sostituzione dell’autorità statale; delegato pontificio in importanti ambascerie, che favorisce il superamento di situazioni contingenti molto delicate in campo religioso, politico, istituzionale, amministrativo.[12]

 

 

Consideriamo, poi, quale fosse la centralità della figura del vescovo in una fase connotata da rapidi cambiamenti, in cui

 

i personaggi più attivi e intraprendenti, spesso provenienti dai ceti medi, potevano … trovare nella carriera ecclesiastica lo spazio forse più dinamico della società tardoantica e altomedievale, ideale non solo per realizzare le aspirazioni di mobilità sociale ma anche per esprimere al meglio le proprie capacità ‘manageriali’.[13]

 

 

 
 

 

La localizzazione proposta trova un ulteriore elemento a favore se si consideri che probabilmente già dopo la metà del VII secolo il sito sarebbe stato occupato dal palazzo dei nuovi dominatori longobardi, i quali possiamo ritenere abbiano voluto prendere possesso di un isolato in cui, da quasi due secoli, era venerato l’Arcangelo Michele, ritenuto protettore di quel popolo, a discapito della insula episcopalis, il cui utilizzo era contestualmente venuto meno, vista la soggezione, proprio in quell’epoca, della diocesi larinese alla sede beneventana, motivata proprio dall’invasione longobarda [Il Magliano (Larino, p. 162; Brevi Cenni storici…, p. 28) propende per l’anno 668; vd. anche G. Mammarella, Larino sacra. Cronotassi cit., pp. 14-17; sull’invasione longobarda A.R. Staffa, Alcune considerazioni sulla presenza longobarda…, p. 123].

 

Verrebbe da pensare che la basilica micaelica preesistesse perciò all’occupazione longobarda, rendendo pertanto plausibile una sua identificazione con l’edificio di culto indicato nella lettera gelasiana.

 

L’argomento potrebbe essere rovesciato, qualora si ritenesse che i Longobardi avessero mirato a quel sito semplicemente perché un tempo occupato dall’ormai svuotato potere religioso, e pertanto la basilica micaelica sarebbe stata fondata nei piani bassi della loro dimora, accanto a quella che era pur sempre l’antica Cattedrale cittadina, benché mancante del suo Vescovo, come atto propizio al loro dominio su quelle terre. La basilica micaelica avrebbe in pratica rivestito il ruolo di “cappella palatina”.

 

Tutto ciò nell’ipotesi, qui data per assai probabile, che la primitiva Cattedrale cittadina fosse allocata proprio nel sito qui preso in esame. Diversamente, apparirebbe assai più ragionevole la prima ricostruzione proposta, vale a dire l’identificazione della basilica gelasiana proprio all’interno del nostro isolato.

 

 
 

 

Difatti, assumendo l’ubicazione della Cattedrale nel nostro sito, si aprirebbe un problema circa la possibilità che un edificio di culto donato da privati potesse coesistere con l’ecclesia episcopalis della città. Dobbiamo congetturare che la gerarchia ecclesiastica dell’epoca – forse proprio il vescovo Justus – vedesse di mal’occhio la presenza nella sua diocesi di un luogo di culto dedicato all’Arcangelo Michele, probabilmente sulla scia di antiche dispute sul culto degli angeli, generate da alcuni passi della Scrittura (Col 2,18-19; Eb 1,4 ss.; Ap 19,10; 22,9), che avevano tenuto a lungo occupati diversi Padri della Chiesa (M. Simonetti, Angeli pagani giudei cristiani, pp. 305-322) e di cui si era discusso anche in assisi conciliari (Concilio di Laodicea [363], can. 35, che dispone il divieto di tributare il culto agli angeli).

 

San Giovanni Crisostomo ammoniva difatti a «non introdurre intermediari tra Dio e l’uomo»μ τος ἄγγελους  ε̉πεισάγετε»] e riteneva il culto angelico istigato dal demonio, per svilire l’onore tributato a Dio (Hom. IX in Col 3 : PG LXII, col. 364; Hom. III in Col. 3 : ibid., col. 321); Sant’Agostino sosteneva che non si dovessero costruire chiese per gli angeli né si dovesse adorarli, giacché l’adorazione era riservata solo a Dio  (De ver. relig. 55,110 : CCL XXXII, p. 258; Coll. Maxim. Arian. episc. 14: NBA XII/2, pp. 124-126); ancora nel V secolo Teodoreto di Ciro considerava il culto degli angeli «una frode e una delirante malattia»το τύφου τ πάθο»]  (Interpr. in Col. 2,18 : PG LXXXII, col. 613).

 

A complicare la naturale evoluzione di questo culto stava anche il fatto che esso aveva avuto scarsissima eco nella parte occidentale dell’Impero. Ma potrebbe anche essere che il Vescovo ritenesse poco credibili le Apparizioni dell’Arcangelo sul Monte Gargano, in un luogo cioè ancora contaminato dall’antico culto pagano, ove un tempo svettavano i templi dedicati a Calcante e a Podalirio (D. Lassandro, Culti precristiani nella regione garganica, pp. 199-209).

 

 
 

 

 Dobbiamo pertanto ritenere che, pur accettando l’ordine imposto dall’alto, il Vescovo o chi per lui, e probabilmente anche i suoi successori, abbiano ostacolato in ogni modo la diffusione del culto micaelico all’interno della diocesi, impedendo anche che questo «avamposto micaelico» assumesse il suo naturale ruolo propulsivo nell’area centro-meridionale (M. Falla Castelfranchi-R. Mancini, loc. cit., pp. 507, 513-515); e ciò nonostante che il popolo si recasse sempre più spesso in pellegrinaggio ad omaggiare San Michele – così come fa fede la cosiddetta Carrese di San Pardo –, e non disdegnasse affatto di continuare a donare alla chiesa arcangelica i propri beni (vd. supra).

Di certo si può dire che la consacrazione del luogo di culto non riflette «una imposizione della “gerarchia” ecclesiastica» (A. Campione, Culto e santuari cit., p. 285).

 

    Da approfondire, in ogni caso, la sorte toccata al sacro edificio nel corso delle successive, travagliate vicende storiche che interessarono la città di Larino, anche e soprattutto in riferimento alle controverse donazioni della fine del XIII secolo, che interessarono anche i beni pertinenti al monastero benedettino di San Primiano, della cui mutata proprietà il Tria stesso in qualche modo dubitava: «non ci è riuscito porlo in chiaro» (G.A. Tria, op. cit., p. 362).

 

 

 

 

Quel che possiamo dire è che, al tempo dell’incursione saracena (841-842), data per certa la presenza in questo isolato di una basilica dedicata all’Arcangelo Michele quantomeno di epoca longobarda, di cui è ipotizzabile il ricco arredo e il tesoro di devoti e pellegrini; concesso che l’antica Cattedrale, anch’essa probabilmente ubicatavi, aveva perso questo suo ruolo a seguito della soggezione alla sede beneventana e probabilmente era cessata o quantomeno assai limitata anche la funzione di edificio di culto, visti i quasi due secoli intercorsi (668 ca.); assodato che, sempre in questo edificio, vi era la dimora del signore longobardo – probabilmente proprio quel Totone, zetarius, cioè tesoriere del principe Radelchi, che gli aveva donato il wualdum cioè terreno boschivo e non pertinente all’actus Larinensis nell’ottobre dell’840 (F. Ughelli, Italia sacra…, X, col. 470) , appare assai probabile il saccheggio anche di questo isolato, assai prossimo al monastero benedettino di San Primiano; e forse proprio in quest’epoca l’antica basilica micaelica cessò di esistere in quanto tale.

 

 

Nel nostro sito di Sant’Angelo a Palazzo ritroviamo comunque, secoli dopo, cospicui possessi annessi all’antica basilica, così come ci dice espressamente il Tria parlando di «beneficio» che «possiede molti beni, e territorj in tutta quella sua adjacenza…», che la «platea» realizzata al tempo del vescovo Caracci (1631-1656) descrive.

 

Non avendo avuto modo di visionare questa platea, se ancora è disponibile negli Archivi Diocesani, sorge un dubbio circa una denominazione che torna quasi identica nell’opera del nostro Vescovo storiografo – “Sant’Angelo in Palazzo” –, riferita a un monastero ubicato ad Acquaviva Collecroce, i cui beni erano annessi a quelli del monastero di San Primiano di Larino (G.A. Tria, op. cit., pp. 362-363).

 

 

 

 

A sostegno dell’ubicazione dell’antica Basilica all’interno dell’isolato larinese sopra descritto vi è anche il fatto che non è sempre accaduto che il culto micaelico fosse insediato in siti naturali, come spesso si sente affermare, soprattutto in questo specifico caso così precoce; si vedano difatti i casi emblematici di Castel Sant’Angelo a Roma (edificato intorno al 610) e Mont- Saint-Michel in Normandia (risalente al 708), nei quali si cercò piuttosto di ricreare artificialmente qualcosa che assomigliasse quanto più possibile a una grotta.

Nel primo caso, per di più, il termine criptatim, usato da Adone nel suo Martirologio, [Mart., III kal. Oct. (Le Martyrologe d’Adon, p. 336)], riferito alla cappella arcangelica romana, è termine equivoco, probabilmente introdotto ad indicare la sua posizione di vertice distaccato dal resto del Mausoleo di Adriano (F. Gandolfo, Luoghi dei santi e luoghi dei demoni…, p. 907).

 Peraltro la costruzione di santuari ad instar Gargani appare ormai prassi consolidata solamente a partire dall’VIII secolo (M. Sensi, loc. cit., p. 249).

 

 

Tutto ciò considerato, quello che risulta essere storicamente documentato è che, almeno a partire dall’epoca di monsignor Balduino (1555-1591), si era a conoscenza del fatto che, al di sotto dell’isolato posto tra gli attuali Largo Pretorio e Piazza dei Frentani, nei piani bassi dellattuale chiesa parrocchiale intitolata alla Beata Maria Vergine delle Grazie, vi fosse ubicato un antico edificio di culto dedicato all’Arcangelo Michele, a pianta basilicale, la cui particolare denominazione – Sant’Angelo a Palazzo – lo fa risalire quantomeno all’epoca altomedievale: il wualdum sacri palatii, proprietà demaniale dei principi di Benevento fino a Radelchi (839-851), attestato intorno all’840 relativamente all’actus larinese (vd. supra).

 

 
Larino, "Piano della fiera" e "Palazzo"
La "Fiera di Ottobre" del 1925; in alto a destra il lato nord-ovest del Palazzo Prisco, già Seminario estivo e "Palazzo" dei Conti longobardi [foto Archivio Pilone]
 

 

   Sappiamo difatti che i piani superiori dell’edificio in questione furono adattati a residenza ufficiale dei Conti longobardi di Larino, assumendo per l’appunto il nome di “Palazzo”, così come menzionato in vari documenti (G. e A. Magliano, op. cit., pp. 75, 184-185; A. Magliano, op. cit., pp. 19-20, 44).

 

 
Larino, Chiesa parrocchiale Beata Maria Vergine delle Grazie
Il lato est del complesso (Palazzo Prisco), con la chiesa parrocchiale della B.M.V. delle Grazie (1907), prima dell'ampliamento (1987-1993); a destra gli appartamenti adibiti a Seminario estivo (1830-1833) [da De Felice, Larinum, Firenze 1994]
 

 

Registriamo, inoltre, nel territorio della città frentana, il toponimo “Monte Arcangelo” (ora Monte Arcano), riferito a un casale ormai diruto posto a settentrione dell’abitato antico, nei cui pressi esiste tuttora una sorgente d’acqua, che alimenta la Fonte Focolare (G.A. Tria, op. cit., pp. 254-255; G. e A. Magliano, op. cit., p. 228; P. Ricci, Fogli abbandonati…, p. 74; A. Magliano, op. cit., p. 99). Esso apparteneva alla Mensa Vescovile, come attesato dalle Bolle di Lucio III e Innocenzo IV – «Casale etiam S. Arcangeli cum suis tenimentis»  –, che lo lasciano intendere abitato fino a quell’epoca (G.A. Tria, op. cit., pp. 291, 297). Dovette il suo nome probabilmente a una chiesa dedicata all’Arcangelo ivi esistente  (G. e A. Magliano, op. cit., p. 228), anche perché lo stesso Tria ci riporta che esso «propriamente deve dire Casale di S. Arcangelo» (op. cit., p. 254).

 

   Si può affermare che, se effettivamente la chiesa del “Monte Arcangelo” sia esistita, possa anch’essa essere seriamente candidata ad esser identificata con quella oggetto dell’epistola gelasiana. Di dimensioni certamente assai modeste, si deve supporre che possa aver svolto la funzione che solitamente tali edifici micaelici extraurbani espletavano, quella cioè di custodire il simulacro dell’Arcangelo Michele in uno dei due periodi festivi – 8 maggio e 29 settembre – legati al Santo. Si potrebbe anzi ipotizzare che, così come accadeva in altre località dell’Italia meridionale, nella festa di primavera il simulacro venisse portato in processione nel luogo di culto posto al di fuori del centro abitato, per ritornarvi solo il 29 settembre, accompagnata da un corteo di fedeli (F. Accrocca-M. Curto, La Grotta di San Michele…, p. 78).

 


 

 Vi era poi anche un “Casale di S. Angelo”, eretto verosimilmente sui ruderi dell’antica città romana, in cui i Francescani erano tenuti a celebrare una Messa nella festività di San Michele [8 maggio o 29 settembre?] (A. Magliano, op. cit., p. 97).

 

Venendo ad un’epoca successiva, ancora a Larino la famiglia Borzillo volle erigere all’Arcangelo una Cappella, posta accanto a una propria residenza di campagna, edificata sulle preesistenze di una casupola appartenuta alla famiglia Pauluzzi. E se la modesta abitazione va fatta risalire alla terribile epidemia di peste del 1656, ed anzi la sua costruzione serviva proprio a cercare scampo dal contagio, l’innalzamento della Cappella va collocato nel 1769, per volontà del canonico don Gaspare Borzillo (1721-1782), nipote del più famoso pittore Francesco Antonio (1661/1663-1721) [N. Stelluti, Villa Borzillo e chiesa di San Michele Arcangelo, pp. 11-22; G. Mammarella, Da vicino e da lontano, II, p. 146; il Magliano (op. cit., p. 78) fissa erroneamente al 1656 l’edificazione della Cappella]. Ce lo rammenta un’iscrizione apposta sulla facciata:

 

DOM | et | DivoMikhaeliArcha(ngelo) | SacramHancÆdem

GasparCan(onicus)Bvrzillvs| ErexitOrnavitDicavit |

AnnoChristiano | Mdcclxix

 

Estinti i Borzillo, la Cappella passò in seguito alla famiglia Ricci, che ancora la detiene. Al medico “don Ciccio” (1872-1965), di idee anticlericali, si deve la sua sconsacrazione, segnata anche da due busti di Mazzini e Garibaldi sistemati all’interno di due nicchie appositamente ricavate nella facciata. Il noto professionista ne avrebbe probabilmente voluto fare «una casa di cultura per la diffusione dei suoi stessi ideali risorgimentali»Da quell’epoca la Cappella rimane nel suo stato di luogo non più adibito al culto, il cui ingresso è sbarrato da un cancello, mentre dello stato di manutenzione dell’interno poco o nulla è dato sapere (N. Stelluti, art. cit., pp. 18-19).

 

 

Nel territorio diocesano, inoltre, anche il sito “Colli di San Michele” (m 595), situato in territorio di Montorio nei Frentani, ricco di acque sorgive, dove peraltro sono riscontrati riti assai antichi, di chiara impronta pagana, legati in qualche modo al culto micaelico e dove pure esisteva un’antica chiesa dedicata all’Arcangelo, la cui Apparizione dell’8 maggio veniva festeggiata (G.A. Tria, op. cit., pp. 633, 637-638; V. Cianfarani-L. Franchi Dell’Orto-A. La Regina, Culture adriatiche antiche di Abruzzo e di Molise, p. 110; U. Pietrantonio, I Benedettini nella diocesi di Larino, p. 152; Id., Il Monachesimo Benedettino…, pp. 72, 434-435); tanto che una recente ricerca ipotizza proprio in questo sito l’ubicazione della chiesa micaelica gelasiana:

 

Postulando in questa contrada l’esistenza di una villa d’età tardo antica, si potrebbe proporre, con la dovuta cautela, di identificarvi la res propria que Mariana vocatur sulla quale Priscilliano e Felicissimo edificarono, allo scadere del V secolo, una basilica, forse un oratorio, in honorem sancti arcangeli Michaelis, consacrata da Giusto, vescovo di Larino, su incarico di papa Gelasio.[14]

 

 
 

 

Di parere del tutto differente circa lidentificazione dell’antico edificio di culto micaelico è un recente studio, che avvalora l’ipotesi Civitacampomarano per la collocazione della più antica Basilica Micaelica (M. Falla Castelfranchi-R. Mancini, loc. cit., pp. 507-515, 524, 549-550).

 

In questo saggio si ipotizza che essa si trovava in località Morgia Sant’Angelo (m 833), in territorio di Civitacampomarano, dato per facente parte della diocesi larinese. Si arriva a questa conclusione partendo esclusivamente dallubicazione sul tratturo Celano-Foggia – ma Larino era un luogo di transito e di sosta delle greggi ben più importante – e dal toponimo, messo in relazione con la res Mariana, di cui i due dedicatari erano proprietari.

 

Aggiungiamo che nel saggio, in via subordinata, s’ipotizza, partendo sempre dal toponimo, anche il sito di Campomarino (ibid., p. 514, n. 28) – ma il suo territorio è pressoché tutto in pianura – che pure sarebbe su una strada di grande traffico. In questo caso si lascerebbe intendere che il nome della località costiera derivi non già dal fatto di trovarsi sul mare, come appare fin troppo ovvio, bensì dalla denominazione di una proprietà privata ivi situata in epoca tardoantica. Ricordiamo, al contrario, che la località costiera molisana era conosciuta nei secoli passati anche come «Campo a mare» (M. Fraccacreta, Teatro Topografico Storico-Poetico della Capitanata…, III, p. 250), etimologia chiaramente riconducibile alla fascia litoranea, un tempo sgombera di costruzioni, che si stende ai piedi dell’abitato di origine albanese.

 

La scappatoia proposta nello studio in oggetto, mi pare lo releghi per buona parte al campo delle mere ipotesi, neanche tanto fondate. Annotiamo difatti, che l’identificazione «soprattutto su base toponomastica» è evidenziata – appalesando un certo dubbio – da Giuliano Volpe (Contadini, pastori cit., p. 237, n. 2).

 

Le due studiose hanno comunque escluso – non si sa per quale ragione – che la res propria abbia potuto prendere il nome dalla Vergine Maria ovvero da un edificio di culto a Lei intitolato, situato nella città sede episcopale, come potrebbe facilmente essere. Si liquida, per l’appunto, come «intitolazione che suscita curiosità» – locuzione non propriamente di gran livello storiografico – la denominazione di Sant’Angelo a Palazzo riferita al sito intra urbem.

 

 

 

 

Tuttavia di parere diverso sono altri studiosi, i quali identificano la chiesa micaelica di Civitacampomarano con quella indicata con la denominazione «Ecclesiam S. Angeli in altissimo super fluvium Bivernum in fluviis atque finibus campi Morani» [diploma dell’imperatore Ottone III all’abbazia di Santa Sofia di Benevento, del 9 novembre del 999 (F. Ughelli, op. cit., X, col. 485)].

 

La chiesa venne donata all’abbazia beneventana da Arechi II, già duca di Benevento e da quell’anno (774) divenutone principe (Chron.S. Sophiæ, I,1,7; cfr. J.-M. Martin, loc. cit., p. 381). Per altri autori essa sarebbe stata edificata proprio da lui (S. Moffa, La devozione di S. Michele nell’area Sannita, p. 189).

Era situata con ogni probabilità dov’era anche un insediamento monastico benedettino, presso il bosco di Trivento, già in territorio di Civitacampomarano, ora Lucito (U. Pietrantonio, Il Monachesimo Benedettino cit., p. 409).

 

   Problematica, a parer mio, anche la ricostruzione dell’antico toponimo, così come ci viene proposto nello studio delle due autrici: un campus Marianus (V secolo) che sarebbe divenuto in seguito (X secolo) campus Moranus credo necessiti di ulteriori giustificazioni.

 


 

 

Si riportano di seguito alcune precise valutazioni – seppur datate – di uno degli studiosi che più hanno avuto modo di interessarsi degli aspetti storici legati al culto micaelico:

 

È praticamente impossibile, allo stato attuale delle ricerche, individuare il luogo sul quale dovette sorgere la basilica; nelle fonti non c’è traccia di essa né del toponimo Mariana. Una cosa ci pare certa: doveva trattarsi di un luogo non molto distante da Larino perché doveva far parte della diocesi di Larino, sulla quale era territorialmente competente Giusto.[15]

 

 

Comunque si vogliano valutare le quattro presunte ubicazioni di cui si è detto, ha destato perplessità e sorpresa il fatto che questo primitivo luogo di culto dedicato al Principe delle milizie celesti – un vero e proprio «avamposto micaelico» nel territorio – non abbia svolto in epoca tardoantica il ruolo che gli spettava, ed anzi che non ne sia rimasta pressoché alcuna traccia (M. Falla Castelfranchi-R. Mancini, loc. cit., pp. 507, 513-515.).

 

L’osservazione è fondata, e certamente qualche fatto da noi non conosciuto deve aver ostacolato la diffusione del culto micaelico nella diocesi di Larino. È da ritenere che i contrasti siano riferibili, in qualche modo, al ricco patrimonio che la chiesa dedicata all’Arcangelo possedeva, praticamente sin dalla sua stessa fondazione, essendo stata oggetto di donazione privata in favore della Chiesa larinese.

 

Tutto lascia presagire che simili contrasti, generati dal desiderio di possesso, siano continuati nel tempo, fino ai nostri giorni.

 

 

Quel che appare assodato e incontrovertibile è che il primo luogo di culto della Cristianità, dedicato all’Arcangelo Michele dopo la sua Apparizione terrena sul Monte Gargano, il primo in assoluto voluto da un Pontefice Romano, si trovava nella Diocesi di Larino. L’importanza della Basilica di Larino è inoltre tanto più rilevante se si pensi che quella del Gargano venne consacrata dallo stesso Arcangelo, unico luogo di culto cristiano non consacrato da mano umana: «Non est vobis opus hanc quam ego edificavi dedicare basylicam. Ipse enim qui condidi etiam dedicavi» (Apparitio 4, p. 542). Ne risulta un legame assai rafforzato tra il Santuario del Gargano e la Basilica di Larino, tra Dio e gli uomini.

 

   San Michele protegge dunque la Chiesa di Larino dal tempo di Gelasio I. Una protezione accordata dallo stesso Arcangelo alla Chiesa di Cristo fecondata dal sangue dei Martiri, e non una sua elezione, da parte degli uomini, quale celeste patrono di comunità cittadine, così come si riscontra in molti paesi e città: Jena, Andernach, Colmar, Caserta, Cuneo, Alghero, Albenga, Vasto; in Molise San Michele è patrono dei paesi di Acquaviva Collecroce, Baranello, Campolieto, Monteroduni, Pesche, Ripalimosani, Sant’Angelo del Pesco, Sant’Elena Sannita [M. Gioielli (ed.), Madonne, santi e pastori…, p. 28, n. 52].

 

 
 

 

Tornando alla nostra chiesa di Sant’Angelo a Palazzo, ci è noto che la sua parte rimasta in qualche modo ancora agibile, probabilmente in origine adoperata dai vescovi per amministrare il Battesimo ai catecumeni durante la Veglia di Pasqua, era formata, come descrive il vescovo La Rocca (1829-1845), da «sei sepolture, e con altre tante potenti bocche d’opera di tre cisterne secche»,  che furono «dirute dal fu Vescovo Catalano ad interrare l’ossame, e marciume di 9700 cadaveri disumati da tutte le Chiese interne dopo il noto contagio del 1656» (ASDL, fondo Curia, b. 13, f. 190, citato in G. Mammarella, Larino sacra. La diocesi cit., p. 50).

 


 

 

Si tratta della paurosa epidemia di peste che infierì in quasi tutte le contrade d’Italia e che a Larino ebbe inizio il 29 agosto di quell’anno, dopo che la popolazione, rimasta indenne fino ad allora dal flagello, si era recata in pellegrinaggio alla Porta Santa di Guardialfiera, proprio per ringraziare Iddio dello scampato pericolo, riportandone invece il terribile contagio. In centoventi giorni, fino cioè al 26 dicembre, i morti si contarono a migliaia e solo trecentosettantatré furono i superstiti, su una popolazione che raggiungeva all’incirca le diecimila unità (G.A. Tria, op. cit., pp. 251, 718; G. e A. Magliano, op. cit., pp. 222, 274 ss.; A. Magliano, op. cit., pp. 65-66.).

 


 

 

Dal morbo rimase immune la diocesi sipontina, grazie alla distribuzione di pietre votive prese dalla Grotta del Santuario di San Michele, così come comandato dallo stesso Arcangelo nel corso della sua IV e ultima Apparizione al vescovo di allora Giovanni Alfonso Puccinelli, che aveva impetrato il suo aiuto con prolungati digiuni e incessanti preghiere (M. Azzarone, Le pietre di San Michele contro la peste del 1656, pp. 103-104). Michele gli apparve all’interno del palazzo vescovile di Monte Sant’Angelo, nelle prime ore del mattino del 22 settembre, in uno splendore abbagliante:

 

Sappiate, o pastore di queste pecorelle, che io Michele Arcangelo ho impetrato dalla Santissima Trinità, che chiunque con divozione adopererà sassi della mia Basilica nelle case, città e luoghi, si partirà dileguata la peste. Predicate, narrate a tutti la grazia Divina: Ubi saxa devote reponuntur, ibi pestes de hominibus dispellentur. Da qui si crede che aggiungesse: Tu autem narra virtutem, sed tene mysterium, benedicens saxa, esclupe in eis signaculum Sanctæ Crucis cum nomine meo. Prædica denique placandum esse Deum ad ira ventura concussionis terræ.[16]

 

 
 
 

 

Le pietre di San Michele, con la Croce e le lettere M.A., furono inviate in molte località del Gargano e oltre.

 

Tutta dunque la diocesi con ciascun luogo del Gargano poté rimirare con occhi asciutti le miserie che l’attorniavano.[17]

 

Per grazia ricevuta e a perpetuo ricordo del prodigio, l’Arcivescovo volle erigere un monumento all’Arcangelo, nella piazza cittadina davanti alla quale aveva avuto l’Apparizione, dove ancora oggi si trova:

 

PRINCIPI

ARCHANGELORVM

DEPVLSOR

PESTILITATIS

PATRONO

ET

TVTELARI

ÆTERNÆ

GRATITVDINIS

MONUMENTVM

 

e, su un lato della stele:

 

ALPHONSUS PUCCINELLVS

ARCHIEPISCOPUS[18]

 
 
 

 

Tra le città che scamparono al flagello vi fu la vicina Vasto, rimasta immune anche dalle conseguenze delle forti scosse di terremoto, che avevano avuto come epicentro il Tavoliere delle Puglie, le quali proprio in quel periodo si susseguirono seminando il panico.

 

Almeno due pietre, tratte dal santuario garganico, vennero murate sulle porte della cinta urbana.

 

Portacastello ... ebbe, sino a giorni nostri, innanzi a se un ponte a fabbrica fiancheggiato da spallette. Su l di lei arcale fu collocata nel 1656 una delle pietre tolte dalla Basilica del Gargano, qual segno delle fede vastese verso l’Arcangelo S. Michele, da cui la città sperava guarentigia contra la peste e i terremoti allora dominanti […]. Porta S. Maria, nominata nel 1503, fu pur fornita di pietra del Gargano.

[...]

La pietra del Gargano, circolare, larga un pollice e mezzo, segnata dalle sigle S.M.A. e , protetta da vetro, sta, come io stesso ò veduto, sull’arcale della porticina, la quale dal piano superiore del Chiostro introduce al Coro delle Monache.[19]

 

Per riconoscenza, una piccola chiesa venne eretta in onore dell’Arcangelo, posta in posizione panoramica sull’insenatura, ad imitazione del Santuario più famoso e in direzione di esso[20].

 
 
 

 

Niente di tutto questo a Larino: da secoli la Basilica micaelica era chiusa al culto. E la pestilenza della carne dilagò. Qualche secolo dopo, anche quella delle anime.

 

Ora, in quel tempo, sorgerà Michele …

 

 

 

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   [1] Gelasius I, Papa, Epist. 2, in Epistolæ Pontificum Romanorum ineditæ, ed. S. Loewenfeld, Lipsiæ 1885, rist. anast. Graz 1952, p. 1; vd. anche F. Lanzoni, Le Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), I, Faenza 19272, rist. anast. Modena 1980, p. 277; G. Otranto, Le comunità cristiane dell’Apulia negli atti conciliari e nelle epistole pontificie dei secoli IV-VI (314-590), Bari 1977, pp. 97-101; M.S. Calò Mariani, Due cattedrali del Molise Termoli e Larino, Roma 1979, p. 58; G. Otranto, Il «Liber de apparitione», il Santuario di San Michele sul Gargano e i Longobardi del Ducato di Benevento, in Aa.Vv., Santuari e politica nel mondo antico, ed. M. Sordi, Milano 1983, pp. 237-240; C. D’Angela, Gli scavi nel Santuario, in C. Carletti-G. Otranto (edd.), Il Santuario di San Michele sul Gargano dal VI al IX secolo, Bari 1980, p. 378 e n. 90; Id., Dall’era costantiniana ai Longobardi, in La Daunia antica. Dalla preistoria all’altomedioevo, ed. M. Mazzei, Milano 1984, p. 324; A. Ciuffreda, Uomini e fatti della Montagna dell’Angelo, Foggia 1989, p. 30; G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane, Bari 1991, pp. 70, 192, 209; S. Moffa, Le origini delle diocesi del Molise, in «Almanacco del Molise» 1990, I, p. 111; G. Otranto-C. Carletti, Il Santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano dalle origini al X secolo, Bari 1990, rist. Bari-Monte Sant’Angelo 1995, pp. 32-33, 36; E. De Felice, Larinum, Firenze 1994, pp. 33-34; F. Grelle-G. Volpe, La geografia amministrativa ed economica della Puglia tardoantica, in C. Carletti-G. Otranto (edd.), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e Medioevo. Atti del Convegno Internazionale, Bari 1994, pp. 65-66, n. 117; J.-M. Martin, Le culte de Saint Michel en Italie méridionale d’après les actes de la pratique (VIe-XIIe siècles), in ibid., p. 377; M. Falla Castelfranchi-R. Mancini, Il culto di San Michele in Abruzzo e Molise dalle origini all’Altomedioevo (secoli V-XI), in ibid., pp. 507, 513-515, 549; G. Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, Bari 1996, pp. 237-238; G. Mascia, Aspetti del culto popolare di San Michele Arcangelo nel Molise. Atti della giornata di studio su San Michele Arcangelo, Riccia 2000, p. 39; G. Piemontese, I Longobardi: arte e religione lungo le vie del pellegrinaggio micaelico, Monte Sant’Angelo 2000, pp. 62, 74; G. Barker et alii, La Valle del Biferno. Archeologia del territorio e Storia annalistica, ed. G. De Benedittis, Campobasso 2001, p. 277; L. Pietri, Evergétisme chrétien et fondations privées dans l’Italie de l’antiquité tradive, in «Humana sapit». Études d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, edd. J.-M. Carrié-R. Lizzi Testa, Turnhout 2002, pp. 253-263, in part. p. 255; G. Nigro, Il Molise paleocristiano dalle origini a Gregorio Magno, VetChr 40 (2003), p. 98; M. Sensi, Santuari e culto di S. Michele nell’Italia centrale, in P. Bouet-G. Otranto-A. Vauchez (edd.), Culto e santuari di san Michele nell’Europa medievale/Culte et sanctuaires de saint Michel dans l’Europe médiévale. Atti del Congresso internazionale di studi, Bari 2007, p. 247; A. Campione, Culto e santuari micaelici nell’Italia meridionale e insulare, in ibid., pp. 284-286; J. Bogacki (ed.), Guida al Santuario di San Michele sul Gargano, Genova 20075, p. 5; G. Cantino Wataghin-E. Destefanis, Culto di S. Michele e vie di pellegrinaggio nell’Italia nordoccidentale in età medievale: fonti scritte e strutture materiali, in G. Casiraghi-G. Sergi (edd.), Pellegrinaggi e santuari di San Michele nell’Occidente medievale/Pèlerinages et sanctuaires de Saint-Michel dans l’Occident médiéval. Atti del Secondo Convegno Internazionale dedicato all’Arcangelo Michele. Atti del XVI Convegno Sacrense, Bari 2009, p. 352; R. Infante, I cammini dell’angelo nella Daunia tardoantica e medievale, Bari 2009, p. 23; A. Di Niro-M. Santone-W. Santoro (edd.), Carta del rischio archeologico nell’area del Cratere. Prima dati di survey nei comuni colpiti dal sisma del 2002, Campobasso 2010, p. 141.

   [2] G. Mammarella, Larino Sacra. La diocesi, la genesi della cattedrale, i SS. Martiri Larinesi, II, San Severo 2000, p. 50.

  [3] Gelasii I Papæ epist. 25 : Epistolæ Romanorum Pontificum genuinæ, ed A. Thiel, Hildesheim-New York 1974, pp. 391-392.

   [4] C. Violante, Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale (secoli V-X), in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’Alto Medioevo: espansione e resistenze. Atti delle XXVIII Settimane di studio del CISAM, Spoleto 1982, II, p. 992.

   [5] Ibid.

   [6] Gelasii I Papæ Fragm. 19, in Epistolæ Romanorum Pontificum genuinæ, ed cit., pp. 493-494.

   [7] Id., Fragm. 20, in ibid., pp. 494-495.

   [8] Apparitio 6, p. 543 (cfr. A. Campione, Culto e santuari cit., p. 285).

   [9] I versi più eloquenti sono i seguenti: «Mi voglio fa na vesta pellegrina, | Mi voglio ire addò spunta lu sole | A là ce nà bella conca marina | Dove si battezzava nostro Signore» (vv. I,32-35 della seconda lezione).

  [10] G.A. Tria, op. cit., p. 369. Ne parlano anche altri autori: G. e A. Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003, pp. 184-185; A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986, p. 94, G. Mammarella, Da vicino e da lontano, Larino 1986, pp. 117-121; Id., Larino sacra. Cronotassi cit., pp. 9-10; Id., Larino Sacra. La diocesi cit., pp. 50-57.

    [11] G. e A. Magliano, op. cit., pp. 184-185.

  [12] G. Sansone, La Daunia e l’Oriente nei primi secoli cristiani, in «Studia Antiqua et Archæologica», XII, Iaşi (2006), p. 102.

  [13] G. Volpe, Paesaggi e insediamenti urbani dell’Italia meridionale tra Tardoantico e Altomedioevo: materiali e problemi per un confronto, in Paesaggi e insediamenti urbani in Italia meridionale fra tardoantico e altomedioevo. Atti del II STAIM, edd. G. Volpe-R. Giuliani, Bari 2010, pp. 9-20, qui p. 12.

   [14] A. Di Niro-M. Santone-W. Santoro (edd.), op. cit., p. 141.

   [15] G. Otranto, Le comunità cristiane dell’Apulia cit., p. 100.

   [16] M. Cavaglieri, Il pellegrino al Gargano, I, Macerata 1680, p. 643.

   [17] Ibid., I, pp. 620-621.

   [18] M. Azzarone, loc. cit., p. 117.

   [19] L. Marchesani, Storia di Vasto, città in Apruzzo citeriore, Napoli 1838, rist. anast. Pescara 1982, pp. 201, 363.

   [20] Il 19 marzo 1657 vennero benedette le fondamenta. La prima pietra venne posta dal Vicario Foraneo Carlo Ignazio De Vecchis; recava una Croce e le lettere S.M.A. (San Michele Arcangelo). Nel 1827 S. Michele venne solennemente proclamato Patrono della Città del Vasto (ibid., p. 283). La protezione dell’Arcangelo si rinnovò anche durante l’epidemia di colera del 1837.

 

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Commenti: 1
  • #1

    pinomiscione (mercoledì, 22 luglio 2015 19:45)


    Ringrazio il dr Napoleone Stelluti per avermi messo a disposizione il suo articolo sulla Villa Borzillo e la Cappella settecentesca di San Michele.

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