Mikhā’ḗl – Quis ut Deus?

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Il divenire del Cristianesimo a Larino, città di martiri e sede del più antico luogo di culto micaelico della Cristianità dopo lApparizione terrena dell’Arcangelo, che permette di rivelare il significato recondito della “Visione di Fátima”.
 

 

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uis ut Deus?  Chi come Dio?

 

Da questa domanda fondamentale saranno state certamente attratte e interpellate le generazioni passate. Anche quelle che hanno abitato, nel corso dei secoli, la città di Larino.

 
 

Erano trascorsi oramai quasi duecento anni dal martirio di Primiano, Firmiano e Casto, tre evangelizzatori rimasti nel ricordo di tutti, forse perché diaconi o presbiteri, benché fossero state decine le vittime di quell’ultima e più violenta persecuzione, i cui nomi solo Dio conosce. Il culto delle loro Reliquie era diffusissimo in città, come pure in quelle più prossime della provincia Samnii, di cui Larino era entrata a far parte da oltre un secolo, e in quelle daune della vicina Apulia, sua antica regione d’appartenenza, da dove più tardi sarebbero arrivati i trafugatori.

 

Ai tre Santi era dedicata una piccola basilica, posta in un luogo ameno poco al di fuori delle mura, a oriente dell’abitato, da dove lo sguardo degradava verso la vallata sottostante, nella quale scorrevano il Tifernus e il suo torrente destro e incrociava la strada che portava a meridione, scavalcando le basse colline del contado. Sulla scena tutto livellava la linea d’orizzonte del mare che, staccandosi da Istonio, si allungava verso oriente, spezzata solo dalla più prossima delle Diomedee, che subito rendeva all’acqua marina il suo corso rettilineo, per infrangersi di lì a poco contro il massiccio del Gargano che dominava le fertili pianure stese alle sue chine e segnava a levante il confine tra cielo e terra.

 

Era un sito piuttosto disagevole, con scomodi pendii scoscesi, poco adatto a costruirvi alcunché; ma la gente del posto, che aveva tramandato oralmente la memoria del luogo della loro sepoltura, dapprima vi aveva eretto un piccolo trofeo semi-clandestino e, qualche decennio dopo la pace di Costantino, la locale gerarchia ecclesiastica aveva dato inizio alla costruzione della chiesa vera e propria, sbancando parte della collina.

 

Oramai nessuno era più in grado di indicare con certezza il luogo della loro esecuzione, che si sapeva avverata con un colpo di gladio, anche se più di qualcuno sosteneva che molte sevizie e uccisioni di quei martiri anonimi fossero avvenute dov’era la grande Cattedrale, da mezzo secolo intitolata alla Madre di Dio, che si ergeva all’interno delle mura, a poco più di trecento passi di distanza, nei pressi del luogo in cui s’innalzava l’antico Castellum aquæ dell’acquedotto cittadino, riadattato a carcere, che dicevano imponente e di cui ancora era visibile qualche tratto di muro, all’interno del quale i Martiri avevano patito la prigionia e la tortura, prima del processo che li aveva visti condannati a morte. Proprio a motivo della passione dei tre Fratelli e di diversi altri loro compagni di martirio tutto quel complesso aveva probabilmente assunto quel prestigioso ruolo, che l’unita dimora episcopale rafforzava; ma dopotutto, a Larino come altrove, era più importante, ai fini del culto, sapere con esattezza dov’erano deposti i loro corpi.

 

Similmente – lo si sapeva benissimo nel clero locale – era stato fatto a Roma coi resti dei Santi Pietro e Paolo e con quelli di molti altri martiri. Per il primo si era addirittura provveduto a tagliare il colle Vaticano e a interrare per buona parte una necropoli pagana, per costruirvi sopra la Basilica a lui intitolata; per il secondo si era corso il rischio di edificarne una in un sito soggetto a continue inondazioni del Tevere. Ma era importante, sopra ogni cosa, che il culto nascesse nel luogo preciso in cui le spoglie delle due colonne della Chiesa romana e universale riposavano, giacché un culto astratto senza reliquie non era certamente possibile. Solo Dio sa cosa ne sarebbe stato della Santa Chiesa senza le reliquie di Pietro e Paolo ovvero senza le loro Basiliche!

 

 

    A Larino, il 15 e il 16 maggio di ogni anno, ricorrenza del martirio dei tre Santi, era festa grande: fin dalla sera precedente i devoti della città, raccoltisi in collecta nella Cattedrale, si erano accodati in processione, col Vescovo in testa e tutto quanto il clero, intonando inni, laudi e replicando il Kyrie, al seguito della croce rischiarata dai ceri. Il fiume di fuoco alimentato in questo modo si era propagato lungo la strada che conduceva a oriente, per placarsi dopo una mezz’ora lì dov’era la statio prevista alla piccola basilica fuori porta, già di per sé splendidamente illuminata, così da vegliare tutta la notte i Sacri Corpi.

 

 

 

 

Nell’attesa, i chierici avevano alternato al canto dei Salmi la lettura della passio dei tre Martiri fratelli, per prepararsi degnamente alla grande celebrazione dell’indomani, quando dall’interno dell’abitato e dagli altri siti suburbani dove la popolazione si era insediata, molti altri fedeli ancora sarebbero arrivati al primo far del mattino, qualcuno anche per tenere il refrigerium, benché la gerarchia tendesse a vietarlo, a motivo di qualche beone di troppo che esagerava col vino e poteva disturbare tutto il sacro rito; ancor meno tollerati erano quelli che s’incaponivano a praticare l’incubatio dentro l’area cimiteriale, con grande scandalo di tutti.

 

Assai più bene accetti, specialmente in quel giorno di grazia, erano invece i poveri della città, solitamente appostati ai lati della Porta Sipontina o nei dintorni, lì dove si era soliti allestire fiere e mercati, cui partecipavano mercatores provenienti da tutta la Provincia e oltre, ma in quei giorni di festa tutti stipati ai lati del sacro edificio, o anche all’imbocco delle scale dove scorreva la fiumana, fiduciosi che la carità cristiana sarebbe stata, in occasione di quel grande afflusso annuale, più generosa del solito.

 

 

Non mancavano, purtroppo anche in quei giorni lieti, i borseggiatori in agguato, che si aggiravano lesti nei dintorni del sacro edificio, trasgredendo alla luce del sole l’insegnamento dato da vivi da quei santi Uomini. Intanto, già da quella vigilia, qualche malato vi veniva condotto dai parenti su barelle improvvisate, per chiedere la guarigione a quei campioni della fede, speranzosi nel miracolo; proprio laddove qualche pellegrino era già vinto dal sonno, malgrado il brusio incessante, e giaceva in fondo alla chiesa, buttato su un giaciglio improvvisato.

 


 

 

Ma alle prime luci dell’alba un vero e proprio evento prodigioso si avverava quasi improvviso. Dalla strada che conduceva a Teano Apulo e a Siponto, che iniziava proprio a ridosso della chiesa, e dalle altre che salivano al poggio, sbucava una folla davvero enorme di persone: giovani e vecchi, sani e malati, poveri e ricchi; e un canto di lode ai tre benedicti ac fortissimi fratres si spandeva nell’aria già tiepida di maggio e riecheggiava per tutta la vallata sottostante, che brulicava di molti altri pii viandanti in attesa di salire alle Tombe venerate, alcuni dei quali con corone floreali appese al collo. Spossati dalla fatica, procedevano accompagnandosi coi loro bordoni, facendosi strada tra le greggi transumanti, in quelle prime ore del giorno già in procinto di abbandonare, al seguito dei pastori, i loro stazzi approntati a valle, per tornare ai monti.

 

Quasi tutti quei camminatori forestieri, una volta arrampicatisi fin sopra le ultime pendici del colle verdeggiante, si riposavano sfiniti all’esterno del Santuario, in attesa di potersi mondare dalla polvere impastata col sudore dei loro corpi affaticati, così da mostrarsi degni di prostrasi e di poggiare i loro piedi, spesso denudati per estremo riguardo, sulle pietre che lastricavano l’interno del luogo santo, che ormai già ribolliva di gente; laddove all’aria aperta, tra le cinte arboree, spuntavano sepolture di defunti che accerchiavano il sacro edificio, tra le quali qualche mausoleo più ricco; ed altre tombe ancora, di più fortunati, stavano a corona intorno all’abside, poiché per quei cristiani della Larino tardoantica era fondamentale giacere nella morte terrena accanto a chi già viveva nella gloria eterna. Ad sanctos si doveva riposare in pace; in seguito, più prosaicamente, si sarebbe detto «jirz’n da San Pr’miane».

 


 

 

Dentro intanto il Vescovo, dopo che l’oratore aveva rinunciato a pronunciare il panegiricus per il vocìo della folla, si accingeva a celebrare il rito presso l’altare, rischiarato da lucerne e tutto attorniato da serti di fiori; e i fedeli che accorrevano lo guardavano sorpresi: non era di spalle o, alla maniera del lessico dei chierici, coram Deo, così come accadeva quasi sempre in altre chiese, ma coram populo, vale a dire rivolto verso di loro. Potevano perciò continuare a sgomitare, benché spronati dai servientes a mantenere l’ordine, per raggiungere l’altare e venerare le Reliquie sante, senza essere di ostacolo alla celebrazione del rito. L’abside era a occidente: ci si trovava in una chiesa cimiteriale.

 
    Intanto, dopo il canto del Pater da parte dei fedeli e una breve predica, il Presule s’accingeva ad alzare il pane e il vino verso i primi raggi del sole, verso oriente, così come prescriveva la tradizione liturgica cristiana. In questo modo era sempre possibile rendere il culto alle Reliquie, che in quel tipo di chiesa aveva un’attrattiva e un’importanza più rilevanti della stessa celebrazione eucaristica, poiché era comprensibile a tutti che i martiri rappresentavano l’altare vivente del culto cristiano.

 

Pertanto, anche durante le continue Messe che si susseguivano nell’arco della giornata, la folla dei pellegrini continuava a sciamare all’interno per tutto il tempo, qualcuno anche lasciando, a scioglimento di un atto devozionale, qualche ex voto, seppur di scarso valore. Soprattutto gli infermi, o quanti necessitavano di un particolare favore spirituale, superavano le transenne di marmo per alternarsi sotto l’altare dove, dalla fenestella confessionis, si riuscivano a vedere le Reliquie dei tre Santi.

 

«Santi Martiri, salvateci dalle guerre! Allontanate la gente barbara!»

«Martiri Larinesi, pregate per l’anima del mio sposo!»

«San Firmiano, scaccia da me il maligno!»

«San Casto, fai guarire mio figlio! È ancora giovane!»

«San Primiano, io sto per morire. Portami con te in Paradiso!».

 

   Chi toccava soltanto, chi commosso o lacrimante baciava le pietre che incorniciavano il loculo, altri ancora vi spargevano aromi o sfregavano la parte malata del corpo con l’olio delle lampade; i più arditi riuscivano persino a incidere, su un qualche muro il più vicino possibile, un graffito, magari col signum crucis, seguito dal proprio nome o da un’invocazione:

 

Ioannes biba in Deo[1]

  Salba me Domne Primiane meam luce[2]

  Petite spirita santa ut Verecundus cum suis bene naviget [3] 

Primiane Firmiane Caste petite pro Antonio christiano[4]

 Refrigeri Primianus Firmianus et Castus martyres[5]

 Martyres Sancti in mente havite Maria[6]

 

per poi compiere il rito più importante, accostandosi con animo devoto alle Sacre Spoglie.

 


 

 

QVI ∙ PASSI ∙ SVNT ∙

SVB ∙ DIOCLETIANO

 

si leggeva chiaramente nelle ultime righe incise sulla lapide. Molti erano quelli che appoggiavano un oggetto personale o un panno di stoffa, un pallio, da legare poi in cima al bordone con una cordicella, giusto intorno alla croce che spuntava a mo’ di punta, così da poterlo riportare a casa e conservarlo gelosamente, come visibile testimone dell’avvenuto pellegrinaggio, capace di santificare per contatto anche le loro case, le loro stesse vite, come pegno di salvazione che prefigurasse nella vita mortale una condivisione della gloria celeste, un’anticipazione della trionfante Resurrezione dei corpi, resa certa dal martirio, ma che nel prologo terreno ne cercava i segni.

 

IN PACE ∙ CHRISTI ∙

 

erano invero le prime parole impresse nella pietra: nella pace di Cristo, nell’unione con Dio in cui l’anima si trova come immersa, ma che per un cristiano comincia già nella vita su questa terra.

 

In maniera non molto dissimile avrebbero fatto qualche secolo più tardi, a mano a mano che la Reconquista dei re cattolici avanzava, i pellegrini che s’inoltravano lungo il Cammino di Santiago i quali, una volta raggiunta la tomba dell’Apóstol, avrebbero proseguito fino alle sabbie e alle rías del Capo Finisterræ, da dove avrebbero raccolto qualche conchiglia da tenere indosso nel lungo viaggio di ritorno e, nella tomba, in quello ultraterreno, come trofeo da presentare a Dio nell’attesa della propria salvezza; non diversamente da chi era diretto in Terra Santa, che nella propria casa avrebbe riportato rametti di palme di Gerico.

 

Ma per chi più semplicemente andava a far visita ai Santi Martiri Larinesi, il pallio di stoffa – poi corrottosi in palio – era il segno visibile che attestava l’omaggio reso ai loro Corpi; e per di più esso aveva un significato salvifico ben più evidente, visto che, quasi impregnandosi del sangue dei Martiri per contatto diretto, assumeva il valore di vera e propria reliquia.

 

Quant’è biello vicino e da luntano

lu Salvatore cu lu pallio mmano;

porta la palma ed è laudata insegna

de la vittoria e in cielo vive e regna[7]

 

avrebbero cantato molto più tardi i discendenti di quegli antichi avi. Perché era di capitale importanza rispondere alla domanda:

 

Quis ut Deus? Chi come Dio?

 

Per quelle moltitudini, una prima risposta immediata era quella di considerare i tre Martiri Larinesi – homines come loro, vissuti due secoli prima, di cui tanto ancora era tramandato oralmente a proposito di miracoli e prodigi, che si diceva compiuti anche in vita – i più vicini a Dio.

 

 

 

 

L’8 maggio dell’anno 490 il Principe delle Milizie celesti apparve sul monte Gargano:

 

Ego enim sum Michael archangelus, qui in conspectu Domini semper adsisto. Locumque hunc in terra incolasque servare instituens, hoc volui probare inditio omnium quæ ibi geruntur ipsiusque loci esse inspectorem atque custodem[8] ... Ubi saxa panduntur ibi peccata hominum dimittuntur. Hæc est domus specialis in qua noxialis quæque actio diluitur[9].

 

E allora quelle folle, malgrado le continue guerre, gl’incessanti torbidi e i pericoli lungo le strade, dall’assolato colle larinate iniziarono a muoversi anche verso la sommità del ben più alto poggio posto all’estrema propaggine orientale del Gargano. Molti si accompagnavano coi loro bordoni crociati, ai quali continuavano a tener legati i pallii, così da presentarsi alla celeste creatura più degni, a motivo dell’omaggio reso ai Martiri.

 

Ma incomparabilmente maggiore fu l’afflusso del popolo cristiano fino al Sacro Speco, per pregare, lucrare indulgenze e chiedere guarigioni del corpo e dell’anima, assaporando l’acqua angelica che stillava dalla roccia e con essa aspergersi il corpo; lo fu soprattutto quando i Longobardi s’impossessarono di quelle province d’Italia – essi che dell’Arcangelo avevano fatto un vero e proprio instrumentum regni per stabilizzare i loro territori dopo la cacciata dei Bizantini – e incoraggiarono sempre più a percorrere quel cammino.

 

   Venivano da ogni parte d’Europa, lungo la Via Francigena, per espiare i propri peccati; e dopo aver toccato Roma, per venerare le reliquie di Pietro e Paolo, proseguivano imboccando l’Appia Traiana a Benevento, deviando poi a Æecæ in direzione di Siponto; altri invece transitavano lungo la Via Litoranea che toccava proprio Larino, per proseguire in direzione di Teano Apulo e del mare d’Apulia, poiché in quella spelonca non già di venerare un semplice homo si trattava, seppure santo, ma di rendere devozione a un angelus, di prostrarsi innanzi ad un fedele messaggero di Dio, ad un potente intermediario tra il cielo e la terra.

 


 

 

Qualcuno di quegli homines viatores, più facoltoso o intraprendente, avrebbe magari continuato il viaggio fino a Brindisi e si sarebbe imbarcato per i Luoghi Santi o anche lo avrebbe fatto andando per mare direttamente dal porto di Siponto, cosicché finalmente avrebbe potuto contemplare, una volta giunto all’Anastasis, al Santo Sepolcro di Gerusalemme, il più incommensurabile dei misteri: Deus. Ma questa non era certamente impresa che si addiceva alla maggior parte dei pellegrini provenienti dal Larinate, che pure si trovava all’interno di questa provvidenziale rete della fede, benché in posizione gerarchica inferiore. Essi si accontentavano più semplicemente di inerpicarsi lungo il ripido sentiero all’interno del Promontorio e raggiungere «in cacumine suppremo» il beato Arcangelo, che parimenti aveva il compito di condurre le anime alle porte del Paradiso:

 

LOCVS ∙ ENIM ∙ IN ∙ QVO ∙ STAS ∙

TERRA ∙ SANCTA ∙ EST[10]

 

e una volta discesi fino alla Celeste Basilica, si sarebbero inginocchiati davanti al simulacro dell’Arcangelo, che lo immortalava nella sua imperiosa postura: la spada scintillante nella destra e nella sinistra la catena che teneva Satana eternamente prigioniero.

 

 

 

 

Mikhā’ḗl. Quis ut Deus? Chi come Dio?

 

Questa era la domanda fondamentale cui si era inevitabilmente chiamati a rispondere; una domanda che rappresentava e ancora rappresenta il quesito basilare della fede cristiana: chi vuole farsi pellegrino per trovare Dio? Chi vuole mettersi in cammino alla ricerca della Verità rivelata dalle Sacre Scritture? Chi potrà salire il Monte per vedere il Volto del Signore? Chi ha mani innocenti e cuore puro (cfr Sal 24,3-6) che gli consentano di stare nel suo luogo santo e rimanere abbagliato dal suo Volto luminoso? Chi come Dio? Bisogna dare una risposta; non è consentito di far finta che il quesito non ci riguardi, perché negare che esso c’interpelli altro non vorrebbe dire se non rispondere che Dio, che è sommo Bene, è cosa altra da noi, che non ci tocca; ed anzi meglio sarebbe se lo si estirpasse dalle nostre vite, se questo interrogativo cadesse nell’oblio e sparisse per sempre.

 

Una domanda che attrae o respinge, dunque; e con la spada all’Arcangelo è comandato dall’Altissimo di dividere nettamente il Bene dal Male. Il fatto stesso che la domanda aleggi sulle nostre esistenze gli consente di tenere in catene il maligno, fino alla fine dei tempi. Una domanda, quindi, e non una semplice affermazione; giacché se così fosse, se il nome della celeste creatura esprimesse semplicemente un’identità col Divino, se al Male si potesse impunemente rispondere con superbia e sprezzatura: «il Dio che è amore non mi riguarda; è altro da me», allora il mondo soggiacerebbe inesorabilmente a Satana. Ma così, per divina grazia, non potrà mai essere, perché l’anima del cristiano sarà sempre in lotta contro il Male; e di questa perenne psicomachia diceva per l’appunto il simulacro angelico.

 

 

Di certo la notizia delle apparizioni dell’Arcangelo sul Gargano, nella non lontana Larino dovette destare molto stupore, tanto che dopo poco tempo due possidenti locali, «Priscillianus et Felicissimus viri devoti», forse perché tornati assai impressionati da un pellegrinaggio alla Grotta, misero a disposizione, «pro sua devotione», un edificio a pianta basilicale «in re propria que Mariana vocatur», situato nei piani inferiori di un edificio attiguo al complesso episcopale. Gelasio, vescovo dell’Urbe, raccomandò al vescovo Giusto di farne una basilica cristiana e di consacrarla «in honore sancti archangeli Micahelis et nomine». C’era l’acqua e già ci s’immergeva nelle piscine per ricevere il Battesimo; e dall’acqua si potevano ottenere guarigioni del corpo e dell’anima, grazie proprio alla celeste creatura.

 

A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto] (Gv 5,2-4). [11]

 

Divina fonte di grandi miracoli sei diventato nel tuo santuario in Chone, dove non solo hai annientato con la tua forza il drago grande e terribile che lì dimorava, ma si è formato un corso d’acqua guaritrice di ogni malattia del corpo, perché tutti con fede al Sovrano degli Angeli che ti ha glorificato dicano: «Alleluia!». [12]

 

Di fatto, per deliberazione del Vicario di Cristo, il culto cristiano della Città dei Martiri e dell’intera sua diocesi veniva orientato, anche in senso fisico, verso San Michele. Si disponeva cioè di metterlo sotto l’ala protettrice dell’Arcangelo, sostenitore dei martiri cristiani.

 

La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni  (Ap 12,6).

 

 
 

 

Mikhā’ḗl. Quis ut Deus? Chi come Dio?

 

Giungeva finalmente l’ora di rispondere e partire per il pio viaggio. All’alba del 3 di maggio la strada per Siponto si riempiva di popolo in preghiera. Dalla basilica larinate di San Michele, dopo una breve sosta alla chiesa dei Santi Martiri, una moltitudine di gente si riversava sopra gli antichi basoli consunti. Dalla Città del sangue si andava verso il mare, verso l’acqua: dal sacrificio al lavacro, per beneficiare della infinita misericordia di Dio. Ognuno si aiutava col proprio bastone crociato, sul quale era il sigillo rosso svolazzante. Erano tanti; tutto sommato quella era un’impresa accessibile a molti, anche perché era possibile fare sosta in comode stationes. Bastavano pochi giorni per effettuare il pellegrinaggio salvifico dal sangue all’acqua, percorrendo quelle poco più di sessanta miglia fino al mare e poi salire il Monte, lì dove aveva la dimora terrena colui che è sempre al cospetto di Dio e ne contempla il Volto. In testa, il priore e il vessillifero della «compagnia», che portava l’insegna della croce ravvolta, da scoprire e issare solo nell’ultimo tratto, mentre i fedeli in processione alzavano i loro canti a Dio, recitavano le litanie dei Santi e invocazioni piene di gratitudine rivolte all’Arcangelo, visto che si era arrivati giusto in tempo per la grande celebrazione del giorno 8, anniversario della prima Apparizione.

 

E primavera si complisce il mondo,

Di fiori si riveste la campagna

L’albere nudo tramuta la fronna

L’auciello d’amor gran festa fanno.

Mi voglio fa na vesta pellegrina,

Mi voglio ire addò spunta lu sole

A là ce nà bella conca marina

Dove si battezzava nostro Signore,

E la Madonna a lui vicino stava

E San Giovanni che lu battezzava.

E Santo Pardo vuole lu suie onore

Tocca carriero mio su carro d’amore[13]

 

avrebbero cantato a ricordo del pellegrinaggio, e ancor di più a squarciagola lo avrebbero fatto dopo l’842, quando Dio concesse che la Città protetta dall’Arcangelo, al cui culto era così intimamente legata per via della più antica basilica sorta dopo l’Apparizione, venisse razziata per mano dei Saraceni, anche in questo unita al Santuario del Gargano.

 

   Tra gli edifici furiosamente saccheggiati, anche quelli dell’isolato sacro in cui essa era ubicata; e per massima sventura avvenne che le reliquie dei Martiri, sulle quali spesso in quei tempi di decadenza della legge scritta erano pronunciati i giuramenti, furono irrimediabilmente asportate. Accadde allora che il culto dei Santi Martiri Larinesi, confinato alle cure dei monaci superstiti, del cui nome si appropriarono parassiti e approfittatori, venne rimpiazzato poco alla volta da quello riservato a San Pardo e il rito e il significato del pallio caddero nell’oblio, fino a trasformarsi in un corteo di drappi colorati il cui senso non venne più percepito; sicché il pellegrino dismise il suo abito di penitente e accorciò il bastone, per poterlo relegare agevolmente nelle mani del proprio figlio o nipote; e al mancato accostamento alle sacre Reliquie, non più disponibili, si rimediò effigiando in vario modo, sui tessuti variopinti, il più venerato dei tre Santi.

 

E allora venne l’epoca decadente, quasi pagana, delle corse dei carri dalle campagne al centro cittadino, che gli abitanti superstiti avevano trasferito a valle, abbandonando per sempre l’antico sito monumentale; quindi fu la volta dei fiori di carta e dei merletti, delle infule pendenti dalle corna dei buoi e dei campanacci appesi ai loro giuguli, per cui le dissonanti scampanacciate sommersero il silenzio dell’antico pellegrinaggio orante, che già si era andato dissanguando nel corso dei secoli, fino a rapprendersi in uno svigorito circuito all’interno del tessuto urbano; e la polvere e l’erba ricoprirono per sempre le lastre di pietra delle antiche strade e i rovi invasero con le loro spine le spianate dei tratturi, e alle sole voci strozzate nel giorno di festa fu affidato il ricordo antico, quasi come un compianto.

 

Ma essi lo hanno vinto

grazie al sangue dell’Agnello

e alla parola della loro testimonianza,

e non hanno amato la loro vita

fino a morire.

(Ap 12,11)

 

 
 

 

Dalla sommità di Monte Sant’Angelo, dove spunta il sole e il Gargano si butta nel mare, si abbraccia con lo sguardo il sinus Adriaticus, che le novelle mappe chiamano «golfo di Manfredonia»: la «conca marina», il Giordano di quei semplici pellegrini di un tempo. Nella città nuova c’è ancora un tratto di litorale denominato «Acqua di Cristo», da cui sgorgano sorgenti d’acqua dolce, indispensabile al Battesimo. Con difficoltà si riesce a identificarlo dall’altura, come pure sfugge agli occhi quel che resta dell’antica basilica intitolata alla Vergine Maria, che s’innalzava poco più oltre. Tuttavia la veduta è ugualmente magnifica, anche se deturpata dai moli del porto moderno; e al pellegrino purificato dal lungo viaggio pare come di poter udire il Battista riconoscere l’Agnello crucifero dal Cuore Immacolato, nell’atto d’immergersi per accettare il suo destino, e che per questo è degno di salire il Monte del Signore.

«Non gli sarà spezzato alcun osso!» dice la Madre ricordando il passo[14], mentre lo offre come vittima immolata al Padre, e un’ultima spada Le trafigge il Cuore.

 

Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro (Ap 12,5).

 

 

Ma occorre affrettarsi a visitare i Luoghi Santi.

 

Mikhā’ḗl. Quis ut Deus? Chi come Dio?

 

Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli (Ap 12,7-9).

 

 

 

 

 

La strada per Siponto non la batte più nessuno. Oramai solo qualche raro pullman si mette in viaggio tra quelle terre desolate. I Santi Martiri non possono tornare. Ne è rimasto uno solo dei tre, forse il più giovane, che tuttavia appare come un segno di speranza. Il rudere dell’edificio che custodiva i loro Corpi, un ammasso di pietre morte, giace in completo abbandono, ricoperto di sterpi e oramai pressoché inaccessibile: due muri, una scala di cemento e una fila di loculi gli troncano il respiro. Un tempio scialbo, a loro intitolato, sorge nel centro cittadino, ma i Martiri non ci verranno a riposare. Nella basilica di San Michele, o in quello che ne rimane, l’acqua non è più contenuta nelle piscine; da molto tempo, forse da secoli, è scorsa nel Vallone e la sorgente pare essersi seccata. Dell’Angelo, che si ostina a proteggere la Donna, benché appaia sconfitto, solo un’ala sullo stemma. L’altra, nessuno sa dove sia volata.

 

Mikhā’ḗl. Quis ut Deus? Chi come Dio?

Ma forse questa è una domanda d’altri tempi. Bui? Tuttavia bisogna pur rispondere, perché verrà un giorno l’Arcangelo a dividere con la spada e a vincere di nuovo. Per sempre.

 

Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il proprio rifugio, dove viene nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo, lontana dal serpente (Ap 12,14).

 

 (si canta davanti alla Chiesa della Madonna)      

 

Ecco, Madonna mia, mo me presento,

ti vengo oggi a laudà co suon’ e canto.      

Nui laudamo co tutto laudiamento,

laudamo lu Santissimo Sacramento.

Questa chiesa sta fatta a simetria,

dento ci sta la Vergine Maria,

pe compagnia ci stanno tutti li Santi

            coll’angeli di lu cielo tutti quanti.[15]

 

 


 

 

                                                                        

… e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita (Gn 3,24). 

 
Ora, in quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre (Dn 12,1-3).

 

 

 

 

Depois das duas partes que já expus, vimos ao lado esquerdo de Nossa Senhora um pouco mais alto um Anjo com uma espada de fôgo em a mão esquerda; ao centilar, despedia chamas que parcia iam encendiar o mundo; mas apagavam-se com o contacto do brilho que da mão direita expedia Nossa Senhora ao seu encontro: o Anjo apontando com a mão direita para a terra, com vós forte disse: Penitência, Penitência, Penitência! E vimos n’uma luz emensa que é Deus: “algo semelhante a como se vem as pessoas n’um espelho quando lhe passam por diante” um Bispo vestido de Branco “tivemos o pressentimento de que era o Santo Padre”. Varios outros Bispos, Sacerdotes, relegiosos e relegiosas subir uma escabrosa montanha, no simo da qual estava uma grande Cruz de troncos toscos como se fôra de sobreiro com a casca; o Santo Padre, antes de chegar ai, atravessou uma grande cidade meia em ruinas e meio trémolo com andar vassilante, acabrunhado de dôr e pena, ia orando pelas almas dos cadaveres que encontrava pelo caminho; chegado ao simo do Monte, prostrado de juelhos aos pés da grande Cruz foi morto por um grupo de soldados que lhe dispararam varios tiros e setas, e assim mesmo foram morrendo uns trás outros os Bispos Sacerdotes, relegiosos e relegiosas e varias pessoas seculares, cavalheiros e senhoras de varias classes e posições. Sob os dois braços da Cruz estavam dois Anjos cada um com um regador de cristal em a mão, n’êles recolhiam o sangue dos Martires e com êle regavam as almas que se aproximavam de Deus.[16]

 

Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli (Gv 2,1s).

 



 

[1] G. Otranto-C. Carletti, Il Santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano dalle origini al X secolo, Bari 1990, rist. Bari-Monte Sant’Angelo 1995, p. 100 [Giovanni viva in Dio].

[2] ICUR IX, 24853 [salba me |domne crescentione | meam lvce (!)] Nel cimitero di Priscilla, nell'ipogeo sotto la basilica di S. Silvestro (O. Marucchi, Le catacombe romane, Roma 1933, p. 506) [Salvami, San Crescenzione, mia luce!].

[3] {[petite spirit]a santa vt verecvndvs cvm svis bene naviget}; Presso la “Cripta dei Papi” nelle catacombe romane di S. Callisto (E. Josi, Il cimitero di Callisto, Roma 1933, p. 16) [Intercedete, o Spiriti Santi, affinché Verecondo e i suoi abbiano una buona navigazione nella vita].

[4] ICUR VI,15963 [marcelline |petre petite | [p]ro gallicanv (!)| [c]hristiano] nel cimitero dei SS Marcellino e Pietro (O. Marucchi, Le catacombe romane cit., p. 319) [Marcellino, Pietro intercedete per il cristiano Gallicano].

[5] ILCV 2318 [refrigeri (=refrigerent) ianvarivs agatopvs felicissim(us) martyres] nel cimitero romano di Pretestato, presso le tombe dei martiri Gennaro, Felicissimo e Agapito (P. Testini, Archeologia Cristiana, Roma 19802, p. 408) [I martiri Gennaro, Agapito, Felicissimo celebrano il refrigerio].

[6] Qui non si tratta di un graffito, ma di un’epigrafe vera e propria, da Aquileia (O. Marucchi, Manuale di Archeologia cristiana, Roma 1908, p. 233) [Martiri Santi abbiate in mente Maria].

[7] Carrese di San Pardo I,19-22 (versione prima).

[8] Liber de apparitione Sancti Michaelis in Monte Gargano (=Apparitio) 2 [Io sono infatti l’arcangelo Michele, che sto sempre al cospetto di Dio. Essendomi proposto di dimorare sulla terra in questo luogo e di proteggere chi vi abita, ho voluto dimostrare con questo prodigio – l’episodio del toro – che io sono il guardiano e custode di questo luogo e di tutto ciò che qui si fa].

[9] [In tutto lo spazio che racchiude questa Grotta sono perdonati i peccati degli uomini. Questa è una dimora speciale nella quale ogni colpa viene lavata]. Originario privilegio del perdono per chi accede al Santuario, che la tradizione dice dettato dallo stesso Arcangelo nel corso della terza Apparizione al vescovo Lorenzo Maiorano, del 29 settembre 493, in relazione alla dedicazione e consacrazione della Grotta. Le parole sono incise lungo l’arco di pietra che incornicia il portale romanico che immette al Sacro Speco.

 [10] (Perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa); parte terminale delliscrizione posta sopra la Porta del Toro del Santuario del Gargano,ripresa da Es 3,5 e Gs 5,15.
     [11] Questo versetto non è compreso nei manoscritti migliori e più antichi; molto probabilmente si tratta di una glossa inserita per spiegare le virtù terapeutiche dell’acqua. Quest’angelo, nell’antica tradizione cristiana, è stato sovente identificato con Michele.
     [12] Dall’Inno Akathistos a San Michele Arcangelo (liturgia bizantina), guida 9.
     [13] Carrese di San Pardo I,28-39 (versione seconda).
     [14] Gv 19,36; Es 12,46.
     [15] Carrese di San Pardo III,1-8 (versione prima).

[16] [Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava (inviava) dalla sua mano destra verso di lui (verso di esse): l’Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c’era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava (oppresso dal dolore e dalla pena, avanzava pregando) per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino (lungo il cammino); giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri (morirono lentamente uno dopo l’altro) i Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio] (la testimonianza della Irmã Maria Lúcia de Jesus e do Coração Imaculado è presentata così com’è stata vergata dalla medesima in lingua portoghese, errori di ortografia compresi. La traduzione in Italiano tiene conto della versione riveduta dalla prof.ssa Mariagrazia Russo – qui presentata tra parentesi tonde –, tratta da A. Socci, Il quarto segreto di Fatima, Milano 20062, Appendice, pp. 241-249).

 
 

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Una chiave storica per capire la Visione di Fátima
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