Appunti* sulla statuaria micaelitica a Monte Sant’Angelo e a Larino


A. FERRUCCI

S. Michele Arcangelo

(1507 ca)

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  Image and video hosting by TinyPic ella oscura Grotta del Santuario garganico di San Michele Arcangelo, da cinquecento anni signoreggia, all’interno di un’urna d’argento e di cristallo di Boemia, una statua in marmo di Carrara di grande bellezza, che appare al visitatore nel suo sfavillante contrasto con l’ambiente circostante, poggiata sopra un masso roccioso coperto di lastre di marmo, il cosiddetto «altare delle Impronte».  
 

 Chiariamo che nei secoli precedenti, oltre all’icona di rame dorato, ora conservata nel “Museo Devozionale”, di cui si è detto altrove, almeno altri tre[1] furono i simulacri esposti alla venerazione: uno d’argento, voluto nel 1323 dalla regina di Napoli Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II d’Angiò, la quale lasciò in legato testamentario la somma di 20 once per una statua data in commissione agli scultori «Dynus da Siena» e «Galardus di Somma da Napoli»; un secondo, d’oro, commissionato da Ludovico duca di Durazzo, padre del re di Napoli Carlo III, ottenuto dalla fusione di una conca d’oro utilizzata per battezzare il futuro Sovrano, venuto al mondo proprio nella Città dell’Angelo, che fece bella mostra di sé per quasi un secolo, fino al 1442, ma che fu fuso da Alfonso I d’Aragona per farne monete – le “alfonsine” – spese per pagare il soldo alla truppa; e un terzo, anch’esso d’argento, realizzato su commissione del suddetto sovrano nel 1447, a parziale riparazione del danno arrecato, benedetto dall’arcivescovo dell’epoca Giovanni Bessarione, ma che seguì il precedente nella sorte avversa, visto che fu fuso dal figlio Ferrante per incombenze di guerra, da cui il conio delle cosiddette “Coronate dell’Angelo”[2].

 

 

 

 

Senonché nel 1507, a seguito di un pellegrinaggio al Santuario del re Ferdinando il Cattolico, venne commissionata una nuova statua, di marmo[3], per il tramite del “Gran Capitano” Gonzalo Fernández de Córdoba (Consalvo di Cordova), investito sin dal 1497 dell’Honor Montis Sancti Angeli[4], il quale probabilmente contattò lo scultore scelto proprio a Napoli, prima di unirsi al seguito del Sovrano alla volta della madrepatria.

 

   Suo autore, fino a poco tempo fa, era ritenuto Andrea Contucci, detto il Sansovino (1460-1529), conterraneo del cardinal Antonio Ciocchi del Monte, arcivescovo di Siponto (1506-1513), creduto suo committente. Tuttavia più recenti studi propendono per l’attribuzione[5] a uno scultore fiesolano formatosi col Sansovino, Andrea di Pietro Ferrucci, altrimenti noto come Andrea da Fiesole[6] (1465-1526).

 

 


 

Michele vi è raffigurato in vesti da guerriero, così come vuole la tradizione iconografica occidentale delineatasi a partire almeno dal periodo longobardo. Impugna nella destra il brando da cavaliere e nella sinistra tiene in catene l’eterno nemico dell’umanità. Benché non realizzata di nobile metallo, la statua fu subito apprezzata sia dalla committenza sia dal popolo devoto.

 

Consiste essa in un blocco non di alabastro, come parecchi scrittori erroneamente ripetettero, ma di puro marmo bianco di quello di Carrara. Come suole avvenire, questo marmo ha acquistato attraverso i secoli la spiccata intonazione dell’avorio antico. L’altezza del blocco è di poco più di un metro e un quarto e presenta un piedestallo finemente decorato di cornice e fregio, sul quale si eleva la leggiadra e snella figura del divino aligero che tien fermo sotto i piedi un piccolo mostro dal triplice aspetto di scimmia nella faccia e nel petto, di capra villosa nell’addome e nelle zampe, e di serpe nella lunga e sottile coda strisciante sul piano. L’immagine del Santo ha l’apparenza di un adolescente  dal volto atteggiato a sorriso,agile nella  persona  e  nelle  vesti  anche  nella  corta e aderente armatura di legionario romano e perfino nell’ampio mantello militare che gli cade dietro le spalle. Visibile è appena l’estremità della tunica che lascia  completamente nude le regioni rotulee tornite e felicemente modellate come le parti alte delle gambe fino al polpaccio: sulla tunica è la maglia a pieghe con delicata orlatura, e sulla maglia la magnifica lorica su cui si snoda una fioritura di tralci con uno spiccato mascherone centrale e in basso una palmetta: il tutto terminante in una serie di volutine a cane corrente e una doppia fila di pendagli in forma di piastre rotonde.

Uno stretto nastro cinge la vita del piccolo guerriero a sostegno del manto fermato nel mezzo da un nodo con doppio occhiello e con lunghi capi abbandonati liberamente sul davanti: di quel manto che si avvolge in vari rimbocchi sull’alto del torace, tra cui superiormente risalta un sottile motivo ornamentale che si aggira a mo’ di monile intorno al collo. Assai graziosa appare la calzatura delle estremità rappresentata da gambaletti sino all’altezza della sura ornati in alto ciascuno da una maschera a metà volto e con allacciatura a zig zag di aghetti a cappio centrale sulle tibie e sino a tutto il dorso del piede e con terminazioni a sandali.

Degli arti superiori il braccio sinistro è steso in basso e quasi tutto inviluppato nelle pieghe della clamide scendente dall’omero: mentre il destro è tenuto assai sollevato e in posizione così contratta da apparire corto e tozzo nello sforzo di reggere nel pugno una spada disposta trasversalmente in atto di minaccia.

Le due ali sul dorso sono allo stato di oggi splendenti di oro, ma le originarie, a nostro parere, dovettero essere semplicemente di marmo: né il capo fu, in principio, protetto da elmo o da casco militare, e tanto meno, come si vede attualmente, da aurea corona sebbene dovette essere lasciato liberamente scoperto come si può argomentare da dettagli dei capelli così diligentemente scolpiti sul vertice e sulla fronte[7].

Ma ciò che più conta in questa statua è la parte superiore e maggiormente espressiva rappresentata dal viso e dalla testa ché, ove nel rimanente della persona, è possibile riscontrare qualche neo, è ben difficile trovarne nel volto e nella capigliatura. Spira davvero da tale volto gentile, pacato, disposto a sorriso il senso misterioso di un giovinetto, che, pur conscio delle sue membra delicate e immature, è altresì consapevole delle sue intime forze latenti – spirito di titano entro virgine forme – e la leggiadra beltà del suo sembiante conclusa dalla originale cornice di una chioma inanellata, a serpentino, a riccioli, a buccole, a ciocche, di cui forse non esiste esemplare in tutta la storia della scultura.

Non per nulla una leggenda popolare attribuisce questa testa ad opera superna e non ad artificio umano.[8]

 


 

Statua di S. Michele del Gargano particolare
 

 

Aggiungiamo che «la parte inferiore del tronco e le gambe hanno uno sviluppo in altezza sproporzionato rispetto al busto, ma evidentemente previsto in funzione della visione dal basso» (R. Mavelli, San Michele Arcangelo, p. 172), ed inoltre «I calzari, di strisce di pelle fermate al sottoginocchio e al collo del piede, con la suola spessa sono i calcei, che coprivano la pianta del piede pur mantenendolo nudo. Al di là della funzionalità, i calzari dell’Arcangelo rispondono ad un sottile simbolismo: esaltarne la purezza e proteggerlo dal contatto immondo con Satana» (A.M. Tripputi, Gli statuari dell’Arcangelo, p. 276). Risalta poi, a mio modo di vedere, il facile gesto della mano sinistra che regge la catena, che avvince il demonio praticamente al solo dito medio, coadiuvato dal mignolo piegato a gancio, significando l’impari lotta tra Bene e Male e la sconfitta ineluttabile del maligno, mentre anulare e pollice sembrano quasi toccarsi, seppur coperti dal dorso della mano e dal panneggio, replicando in pratica il gesto benedicente del Cristo[9] che nelle due dita poste a contatto esprime la sua duplice natura, divina e umana, nell’unità della Persona; benché qui l’Arcangelo sembra accennare al movimento – che difatti tiene celato – soltanto per rendere manifesto il proprio ruolo di difensore della regalità del Figlio di Dio.

 

 

 

 

Precisiamo che nel 1610 le due ali di marmo furono sostituite con due d’argento, fatte cesellare a spese dei Canonici del Santuario (G. Piemontese, San Michele e il suo santuario, p. 79; R. Mavelli, San Michele Arcangelo cit., p. 172; Ead., Il Tesoro della Basilica, pp. 184-186). Stessa sorte toccò pure alla spada, che venne forgiata con lama a fiamma e impugnatura tempestata di pietre preziose (R. Mavelli, Il Tesoro della Basilica cit., p. 186). In occasione delle feste di San Michele, alla statua vengono posti una corona[10] – anch’essa dono dei Canonici, che in verità gli cinge il capo quasi sempre – e un bracciale, ornato da una figura d’aquila, sul braccio sinistro. Il bracciale ricorda le aquile che, secondo la tradizione, ripararono i Vescovi pugliesi dai raggi del sole durante la processione, nell’episodio della terza Apparizione.

 

 
 

L'arcivescovo di Manfredonia-Vieste-S. Giovanni Rotondo, mons. Michele Castoro, preleva la spada dalla teca di cristallo per portarla in processione (29 settembre 2013)

 

 

 

 

Secondo la tradizione la statua non dev’essere mai rimossa dalla sua teca[11]; nel corso dei secoli, per devozione popolare, essa venne portata in processione[12], ma dopo ciò sembrò ai fedeli che sopraggiungesse sempre una qualche sciagura; ragion per cui si pensò di evitare di incorrere in tali disavventure. Fu così che si determinò di non rimuovere più la statua dal suo sito, all’interno della Grotta. Ai giorni nostri infatti, nella festa annuale del 29 settembre, si porta in processione per le strade di Monte Sant’Angelo soltanto l’«Aurea Spada Miracolosa», prelevata essa sola dall’antica statua, cui segue una sua copia.

 

 

 



Nel Museo Diocesano di Larino, attiguo alla Cattedrale di San Pardo, è conservata un’antica statua dell’Arcangelo Michele, proveniente dalla vicina Chiesa di San Francesco, non più esposta alla venerazione dei fedeli in quanto assai danneggiata (G. Mammarella, Larino Sacra, II, p. 56). Oramai acefala e mutila di diverse altre parti, è di calcare gessoso, ricoperto in seguito da uno strato policromo. Negli anni Trenta del Novecento venne sottoposta a restauro, ma i risultati non sono sembrati dei migliori. Tuttavia se ne proporrà ugualmente una lettura, che non divagherà, a mio parere, troppo dal vero:

 


 

Statua di S. Michele Larino
ANONIMO, S. Michele Arcangelo (XVII sec.?), calcare di gesso coperto da policromia. Larino, Museo Diocesano "G.A. Tria" [da Mammarella, Larino sacra, II, San Severo 2000]
 

 

benché manchi della spada e dell’ala sinistra, risalta subito agli occhi la straordinaria somiglianza[13] col ben più noto e studiato simulacro della Grotta garganica, sia nella postura sia nei particolari più minimi, quali ad esempio la mano sinistra che, benché nel simulacro larinese manchi di quasi tutte le dita, lascia intuire chiaramente quale doveva essere all’origine la sua conformazione, tanto da far immaginare in che modo scendesse la catena che teneva prigioniero il demonio posto in basso. Pure saltano agli occhi le analogie tra le due armature, nelle placche e strisce che formano la lorica segmentata, benché qui più decorate, come a voler compensare un minor movimento delle stesse e smorzare una più evidente rigidità della postura delle gambe; e come si replichino su quest’altra lorica la palmetta e il mascherone, anche se assai meno eleganti e più abbozzati; e ancora il doppio ordine di pelte semicircolari, che si adagiano sul basso ventre a terminare la corazza. Anche la clamide scende nel simulacro larinese allo stesso modo sull’omero sinistro e ripropone la piega che lascia scoperto l’avambraccio, mentre intorno al collo è ripreso l’ampio giro. L’ala superstite ricorda anch’essa, benché qui manchi la doratura, il simulacro garganico, nella disposizione del piumaggio, anche se qualche differenza è ben evidente; valutazioni, queste, valide anche per la descrizione delle calzature, che lasciano scoperte le dita e invero assai più abbozzate e dall’incerta anatomia.

 

 

 

     

Le due statue a confronto


 

Venendo ai lineamenti del volto, appare chiaro lo sforzo di rendere al meglio quello che nell’opera del Ferrucci è il contrassegno più notevole: nel nostro malmesso simulacro non c’è quella felicità di espressione e quella naturalezza dell’opera marmorea e i tratti del viso appaiono assai più schematici e meno vivificati, tanto da rendere lo sguardo dell’Arcangelo quasi pietrificato nella sua intenzione di sterminatore del maligno, ma al tempo stesso ieratico; come pure appaiono artificiosi gli anelli e i riccioli “a chiocciola” della capigliatura, resi al contrario dal trapano e dallo scalpello del Maestro fiesolano nel modo più naturale e nel contempo originale.

 


 


 

Discorso un po’ diverso merita la raffigurazione del demonio, nella nostra immagine sacra restituita con un volto antropomorfo, che contrasta notevolmente con quello scimmiesco dell’opera del Ferrucci; e la bocca spalancata di Satana, effetto del piede angelico che gli schiaccia il torace, qui lascia intendere dove andava a conficcarsi la catena andata perduta, vale a dire proprio tra le fauci spalancate, mentre la lingua esposta nel più volgare dei contegni ci lascia quasi udire quale fu il grido bestiale che il nemico del genere umano dovette lanciare nell’attimo in cui il Principe delle celesti milizie sopravvenne dalle sfere superiori per abbatterlo.

 


 

Il demonio scimmiesco e quello con fattezze umane

 

 

Ma chi fu l’autore della malridotta statua di Larino?

 

Appare chiaro, a una prima analisi, che essa dovette essere eseguita da qualcuno che aveva ben presente il simulacro marmoreo del Ferrucci; sarebbe impensabile, difatti, pretendere che uno scultore, per quanto abile, riuscisse a replicare, anche nei più minuti dettagli, un’altra statua di altro suo collega, ben più esperto, per puro caso o per averne inteso una descrizione a voce o anche per averla vista qualche volta, anche se solo abbozzata in qualche disegno. Parimenti assurdo che quella nostrana sia servita da modello alla garganica. Risulta evidente, quindi, come essa sia stata realizzata avendo la statua di Andrea di Pietro come originale da replicare. E se ciò appare ben chiaro e difficilmente smentibile – a meno che non si voglia pensare, cosa assai ardua da sostenere, che le due prime preziose statue andate fuse, di cui non si ha alcuna memoria figurativa certa[14], fossero identiche a quella di marmo – risulta determinato che la statua di Larino le è posteriore.

 

La datazione proposta dai curatori del Museo larinese, collocata nei «sec. XV-XVI», va pertanto certamente corretta fissando come terminus post quem il 1507.

 

Sappiamo che nella città di Monte Sant’Angelo – in particolare all’interno del piazzale antistante la Basilica, ma non solo in quello – operavano valenti artigiani specializzati nella riproduzione di statue raffiguranti l’Arcangelo Michele, che per questo motivo erano denominati sanmichelai[15] [li sammecalére in dialetto locale]. Adoperavano, nel loro lavoro, un alabastro di Carrara bianco perlaceo che pareva agli occhi dei compratori quasi allume, talvolta anche pietra serena e, nei tempi più remoti, addirittura piombo (C. Angelillis, Il Santuario del Gargano, I, p. 22). Gli statuari estraevano la préta gentîle – come veniva detta – da due cave, una, la Tufèra Ròsse, lungo la strada che conduceva a Manfredonia; l’altra su quella che menava a Mattinata, nei pressi di Sellino Cavola. Tra i due tipi, i sammecalére avevano una certa predilezione per il massello della prima cava, perché ritenevano che avesse una compattezza maggiore e una fibra più resistente agli agenti atmosferici. Una pietra assai pregiata, molto apprezzata, ma difficile da recuperare in grossi blocchi, era inoltre la préta turchenédde, che si trovava solo in località Narciso, assai malagevole da raggiungere, posta lungo la valle Carbonara, nei pressi della strada proveniente da San Giovanni Rotondo. Essa aveva una colorazione che col passare del tempo virava al turchese, tanto da dare alle statue dell’Arcangelo una bellezza del tutto particolare, che ne facevano esemplari richiestissimi e di valore, anche pecuniario, assai elevato.

 

Questi valenti artigiani solevano dividersi i compiti, pur sempre nell’ambito di un identico nucleo familiare: c’era chi sbozzava dal blocco la forma fissata nel tipo garganico, chi s’incaricava di riprodurre i lineamenti del volto, chi le fattezze del demonio e così via.

 
 

 

Per Real Privilegio[16] dei Sovrani aragonesi, principiato da re Ferrante (Ferdinando I) con ordinanza del 13 settembre 1475, rinnovato proprio nel periodo successivo alla peste[17] e cessato soltanto coi sovrani di casa Borbone, l’esclusiva di riprodurre in statue e dipinti l’effigie arcangelica in tutto il Reame[18] – pena una multa di cento once – era riservata ai soli scultori di Monte Sant’Angelo, tra i quali prevalsero col tempo i membri di due famiglie, i Di Iasio e i Perla[19], i quali trasmisero di padre in figlio la perizia tecnica e artistica nello scolpire statue dell’Arcangelo, tanto da farne gran commercio, diffondendo i loro manufatti, più o meno raffinati, in buona parte dei paesi e della città del Mezzogiorno d’Italia e non solo, visto che possedere un simulacro dell’Arcangelo Michele proveniente dal Gargano era un onore di cui menar vanto.

 

 

 

 

 

Ma nel nostro caso, pur rimanendo aperta ed anzi del tutto plausibile l’ipotesi che la nostra statua provenga direttamente da una di queste botteghe di Monte Sant’Angelo – visti i diritti di esclusiva in tutto il Regno napoletano –, pure va detto che la nostra sembra uscire dal novero delle semplici, ripetitive riproduzioni[20], eseguite quasi in batteria, senza alcun valore artistico, ed anzi si può ben sostenere che essa raggiunge certamente dei livelli che travalicano l’artigianato minuto. Specialmente la raffigurazione del demonio incatenato – reso con tratti antropomorfi, come non di rado accadeva – fa pensare a uno scultore che, pur rimanendo pienamente all’interno dei canoni della puntuale riproduzione micaelitica, abbia voluto mettere qualcosa di suo proprio nella interpretazione del diavolo; e il volto umano aperto nel grido feroce è il segno distintivo che questo bel manufatto lascia all’osservatore attento.

 

 


 

Quanto all’epoca in cui la nostra statua fu realizzata, non avendo sott’occhi materiale cartaceo documentale relativo ad essa, si prospetta una doppia datazione possibile: la metà del XVII o il terzo quarto del XVIII secolo, vale a dire la pestilenza del 1656, che infierì in quasi tutto il Vicereame di Napoli e «penetrò a porte chiuse nelle viscere del Gargano» (M. Cavaglieri, Il pellegrino al Gargano, I, pp. 588-589), ovvero un periodo successivo, coincidente con il ministero episcopale nella città di Larino, seppur breve, del calasanziano Giovanni Francesco de Nobili (1772-1774), nativo proprio di Monte Sant’Angelo (G. Mammarella, Larino sacra. Cronotassi, pp. 46-47). Propenderei tuttavia per la prima data.

 


 

 

 

A sostegno di essa va indicata la gran richiesta di pietre[21] provenienti dalla Grotta nonché di statue dell’Arcangelo «realizzate in pietra locale e somiglianti – come appunto è la nostra – a quella che si venera nella grotta»[22] che inondò la curia garganica al momento del diffondersi del terribile morbo. Esse dovevano soddisfare una devozione a carattere privatistico ovvero svolgere una funzione più propriamente pubblica, inserendosi in contesti che ricordassero al massimo le peculiari caratteristiche, anche fisiche, della Grotta garganica[23], senza che però venisse sostituita la valenza taumaturgica dell’originale simulacro, poiché le diverse e più o meno rassomiglianti copie ne dovevano tutt’al più divulgare l’influenza e incoraggiare il pellegrinaggio al Monte (M. Azzarone, loc. cit., p. 124).

 

L’intero territorio garganico venne letteralmente invaso da questi simulacri, portando a compimento una vera e propria sacralizzazione dello spazio. Statue dell’Arcangelo vennero collocate sugli architravi delle case, sui comignoli, nei pozzi e nelle cisterne, nelle nicchie dei muri, nelle edicole e nei luoghi più sperduti della variegata campagna del Promontorio.

 

 

 

 

  

   Era noto a tutti che l’Arcangelo fosse apparso all’arcivescovo di Manfredonia Giovanni Alfonso Puccinelli e gli aveva ordinato di benedire i sassi della sua Grotta, scolpendo su di essi il segno della croce e le lettere M.A., Michele Arcangelo. Quantitativi di pietrame furono richiesti da molte città e paesi d’Abruzzo, della Campania, della Calabria e, naturalmente, di Puglia (C. Angelillis, op. cit., I, pp. 204-206). Lo stesso papa Alessandro VII, insieme alle notizie in codice segreto sugli avvenimenti, si fece spedire un certo quantitativo di «sagre pietre»[24]. Statue dell’Arcangelo furono inviate in diverse chiese d’Italia ed esibite al pubblico in segno di venerazione, per ottenere la protezione angelica contro il flagello mortale ovvero per ringraziarlo dell’avvenuta liberazione dal terribile morbo[25]. Ne vennero mandate a Vico, Peschici, Vieste, San Severo, Lucera[26], Napoli e Messina, nonché, più lontano ancora, a Lucca[27] – città d’origine del Puccinelli, che ne inviò una su sua sollecitazione – e a Lucerna (1658), città quest’ultima che fu presto liberata dal terribile flagello[28].

 

 

 

  

Com’è noto la peste imperversò a Larino dal 29 agosto al 26 dicembre di quell’anno, mietendo un numero impressionante di vittime, tanto che dei circa diecimila abitanti ne rimasero in vita poche centinaia (G.A. Tria, Memorie Storiche, pp. 251, 718; G. e A. Magliano, Larino, pp. 222, 274 ss.; A. Magliano, Brevi Cenni storici, pp. 65-66). Non è da escludersi che il vescovo Apicella (1656-1682), giunto in diocesi proprio il giorno prima dell’inizio del contagio, abbia voluto porre un rimedio spirituale alla grande strage che si stava consumando chiedendo, come altri suoi confratelli vescovi, che dal Santuario garganico fosse mandata una statua dell’Arcangelo Michele nella città frentana, da cui ogni anno partivano pellegrinaggi cui partecipava una gran massa di popolo[29] e nel cui territorio si trovava un antichissimo luogo di culto dedicato all’Arcangelo, benché sconsacrato da lungo tempo e di cui probabilmente si era persa quasi memoria[30].

 

 

 

 

Se questa ipotesi fosse confermata da ricerche d’archivio, possiamo solo immaginare quale fu l’accoglienza che venne data alla preziosa effigie; tuttavia essa non sarebbe servita a porre freno al terribile morbo.

 

Diversamente, possiamo anche ritenere che la statua venne commissionata agli statuari di Monte Sant’Angelo proprio per esaudire un voto[31]; quello cioè di aver visto finalmente la cessazione dell’epidemia che nella città frentana aveva avuto una virulenza quasi unica, sterminandone quasi per intero la popolazione.

 

 

La seconda ipotesi, più debole, legata all’episcopato di mons. de Nobili, è basata proprio sul fatto che il presule era nativo di Monte Sant’Angelo, ragion per cui non è del tutto erroneo congetturare che egli abbia voluto far dono alla città in cui svolgeva il ministero episcopale di una statua di pregio proveniente dal luogo natio.

 

Resta inteso che quelle testé elencate sono solo ipotesi di lavoro, che andrebbero suffragate da documenti d’archivio che altri più di me sono in grado di consultare e produrre.

 

 

Tutto ciò detto, risulta essere un gran peccato il fatto che non si possa esporre il nostro bel simulacro in un degno luogo di culto, tanto più se si pensi che proprio nella diocesi frentana era ubicata la prima basilica micaelica della Cristianità sorta dopo l’Apparizione dell’Arcangelo sul monte Gargano, la prima in assoluto consacrata da mano umana dopo che l’Arcangelo si degnò di dimorare sulla terra, visto che la sua Grotta si mostra come l’unico luogo al mondo, dedicato al culto cristiano, non consacrato da mani d’uomini [J.-M. Martin, Le culte de Saint Michel en Italie méridionale d’après les actes de la pratique (VIe-XIIe siècles), p. 388]. Sarebbe assai pertinente il volerla esporre, benché manchi della spada – che è sempre immagine della Parola di Dio –, magari proprio nel luogo sotterraneo ad essa più consono, giusto per indicare che in questo bell’esemplare, benché assai malridotto e senza l’ala che consenta all’Arcangelo di spiccare il volo, il demonio, sciolto dalla catena ormai perduta, presenta, assai significativamente e a differenza del gemello garganico, fattezze umane.

 

 
 

 

Tornando invece al mirabile prototipo che sfolgoreggia da mezzo millennio nel Sacro Speco del Gargano, riscontro che purtroppo ai giorni nostri – ahimè anche in quel singolarissimo Santuario – si assiste a scene un po’ penose e ci si deve umiliare a tal punto da vedere la bella statua di marmo del Principe delle schiere angeliche con una infiorata fin troppo rigogliosa ai suoi piedi, la quale non permette di vedere il demonio in catene, tanto che, a un visitatore sprovvisto di conoscenze bibliche o iconografiche, quel giovinetto dalle ali d’oro sembrerà effigiato nell’atto di falciare il prato, così da parere piuttosto un angelo giardiniere, seppure in servizio presso altro più elevato Giardino.

 

Sarà forse una beffarda vendetta di colui il quale giace schiacciato ai suoi piedi, così ridotto nel suo solitario ghigno mostruoso, ma pur sempre tra fiori di campo.

 

 

 

Bibliografia:

 

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P. Sarnelli, Cronologia de’ Vescovi et Arcivescovi Sipontini colle notizie istoriche di molte notabili cose ne’ loro tempi avvenute tanto nella vecchia e nuova Siponto, quanto in altri luoghi della Puglia, Manfredonia 1680

M. Spedicato, Ricerca storica e storiografia religiosa sulla Capitanata moderna, Bari 2002

N. Stelluti, Larino. Carri & Carrieri di San Pardo 1990/91, Campobasso 1992

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G.A. Summonte, Historia della Città e Regno di Napoli, Napoli 16752

G.A. Tria, Memorie Storiche, Civili ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino Metropoli degli Antichi Frentani..., Roma 1744, rist. Isernia 1989

A.M. Tripputi, Gli statuari dell’Arcangelo, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano. Archeologia Arte Culto Devozione dalle origini ai nostri giorni (Catalogo della Mostra), ed. P. Belli D’Elia, Foggia 1999, rist. Foggia 2003, pp. 274-293  

 



* Appunti, perché soltanto un’accurata ricerca darchivio potrebbe confermare le ipotesi avanzate in questo spazio (assai interessante, e di sicura utilità per le mie annotazioni, la notizia riportata in G. Mammarella, San Pardo. Patrono principale di Larino e diocesi, Campobasso 2011, p. 48: «Nell’Archivio Storico Diocesano di Larino è custodita una documentazione legata ad un’antica statua di San Michele Arcangelo di calcare gessoso, oggi conservata nei locali interni della cattedrale frentana, mandata a L’Aquila intorno agli anni Trenta del Novecento perché bisognosa di riparazioni e poi restituita per l’interessamento diretto di coloro che ne avevano curato l’invio»). Tuttavia anche questo scritto mira a dare valore allo stretto legame tra il Santuario del Gargano e la Basilica micaelica di Larino.

 

[1] Si prendono queste notizie da C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, I, Foggia 1955, rist. anast. Monte Sant’Angelo 1995, pp. 239-244; R. Mavelli, Tra testimonianze letterarie e frammenti di arredo. Le statue d’oro e d’argento dell’Arcangelo, in  L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano (Catalogo della Mostra), Foggia 1999, rist. Foggia 2003, p. 170; vd. anche M. Sansone, Iconografia di San Michele nell’occidente e gli statuari di Monte Sant’Angelo, in La montagna sacra. San Michele Monte Sant’Angelo il Gargano, Galatina 1992, pp. 137-154. Secondo due brevi accenni di fra Marcello Cavaglieri (Il pellegrino al Gargano, I, Macerata 1680, pp. 226, 235), una statua di pietra avrebbe sostituito l’icona metallica dei primissimi tempi di vita del Santuario.

[2] Le monete vennero coniate a partire dal 1488 «le qual divennero chiamate Coronati dell’Angelo, perciò che si ben da una parte si scorgeva la testa del Re con l’iscrizione – Ferdinandus Dei Gratia, etc. – dal riverso statua impressa l’effigie di S. Michel’Arcangelo, con queste parole – Iusta tenda – significando ciò esser stato fatto per difender il giusto…» (Historia della Città e Regno di Napoli di Gio. Antonio Summonte napolitano, Napoli 16752, p. 338). Se ne produssero esemplari ancora sotto il regno di Alfonso II (1494-1495). L’Arcangelo è riprodotto nell’atto di trafiggere il drago con una lunga lancia posta in obliquo, impugnata con la mano destra, mentre la sinistra imbraccia uno scudo di foggia variabile nei diversi coni. Trattasi di un tipo iconografico più tradizionale rispetto a quello del Ferrucci (riproduzione di 4 coni – recto / verso – in R. Mavelli, loc. cit., p. 170).

[3] Dimensioni: cm 125 x 50 x 24. Per questo simulacro marmoreo vd. C. Angelillis, op. cit., I, pp. 245-255, anche se alcune notizie inerenti l’attribuzione e i committenti sono state superate e riviste dai più recenti studi, sintetizzati in R. Mavelli, San Michele Arcangelo (scheda n. 39), in L’Angelo la Montagna cit., pp. 172-173.

   [4] Il feudo di Monte Sant’Angelo, comprendente buona parte delle terre garganiche, venne istituito nel 1117 da Guglielmo II di Sicilia e concesso in dote alla sposa Giovanna, figlia di Enrico II d’Inghilterra. Appannaggio delle regine fino a Federico II, con gli Angiò toccò ai principi di sangue reale. Gli Aragonesi ne fecero territorio demaniale, concesso per un ventennio al principe albanese Giorgio Castriota Skanderbeg per i servigi ricevuti dal re Ferrante d’Aragona (1464). Tolto al duca Carlo di Sangro per tradimento alla corona, passò nel 1497 al “Gran Capitano”, poi viceré di Napoli, e ai suoi discendenti, quindi venduto ai Grimaldi. Ai primi dell’Ottocento venne riscattato dall’Università cittadina [per un excursus storico vd. G. Piemontese, Il Gargano. I luoghi e i segni dell’immaginario. Itinerari di fede, storia, arte e cultura, Foggia 1997, pp. 151-165; vd. anche O. Giuffreda, Il diploma di Ludovico II: rinascita del Santuario e preludio dell’Honor, in «Michael» 129 (2008), pp. 21-23].

 [5] Altre attribuzioni vanno da uno scultore meridionale affine a Girolamo Santacroce al lombardo Giovan Jacopo de Brixia (ibid.).

 [6] L’attribuzione è stata ritenuta attendibile dal confronto col S. Giovanni Battista del sepolcro Cicara nella chiesa napoletana dei SS Severino e Sossio, molto simile al simulacro micaelico del Gargano nella capigliatura, nella resa dei tratti somatici e nel trattamento del vello del Battista, che riprende la tecnica usata nella decorazione della lorica arcangelica. Anche il panneggio rimanda al Gesù Bambino posto al culmine del suddetto sepolcro nonché ad altra opera napoletana del Ferrucci, il Battesimo di Cristo per la cappella Brancaccio nella chiesa della SS.ma Annunziata. In altre opere del Maestro fiesolano troviamo influssi di Andrea Sansovino e di Benedetto da Maiano, come nel tabernacolo del Duomo di Fiesole e nel fonte battesimale della Cattedrale di Pistoia, mentre risalta quello di Michelangelo nel Sant’Andrea in S. Maria del Fiore e nel Cupido della Casa Buonarroti a Firenze (F. Abbate, La scultura napoletana del Cinquecento, Roma 1992, pp. 95-97).

[7] Nella tradizione artistica abbiamo l’esempio tipico del celebre S. Giorgio di Donatello, che, pur rivestito di armatura dal collo ai piedi, si presenta però col capo liberamente scoperto. Dicasi lo stesso del S. Giorgio del Correggio nel dipinto La Madonna di S. Giorgio (nota del testo originale).

[8] C. Angelillis, op. cit., I, pp. 247-249.

[9] Annotiamo che questo tipico gesto, riprodotto innumerevoli volte nelle icone del Cristo benedicente, secondo alcuni autori – tra i quali mi piace ricordare l’iconologo tedesco p. Heinrich Pfeiffer, S.J. – starebbe in realtà a rappresentare l’ “ottavo giorno” – giorno della Resurrezione –, come se venisse computato con un’unica mano, col pollice che fa da contatore, sicché esso, al numero otto, viene a toccare proprio l’anulare (si tratterebbe, in realtà di un modo di contare ancora in uso in alcune località del Meridione d’Italia, specie pugliesi).

[10] La primitiva corona dorata fu cesellata dal «gioielliere Giacinto Pertio Napolitano», che l’aveva realizzata «d’oro massiccio gioiellata di smiraldi, rubbini, topazi et pierre torchine et smaltata nell’estremi fabricata in Napoli… nell’anno 1614, acquistata con oro e gioielli forniti dalla chiesa» (Inventario e Platea seu Stallone di tutti i beni della Sagra Reale Basilica del Glorioso Principe S. Michele 1678, stilato dal notar Marrera). A provvedere all’incoronazione fu, nel giugno 1674, l’arcivescovo Benedetto I Cappelletti, patrizio reatino – successore del Puccinelli –, che sedette sulla cattedra sipontina dal 1659 al 1675. Così il Sarnelli (Cronologia de’ Vescovi et Arcivescovi Sipontini, Manfredonia 1680, p. 412): «Divoto di San Michele Arcangelo donò buona somma di scudi, acciocché alla statua del Santo Principe si formasse pretiosa corona, anche per opera, e diligenza dello stesso Arcivescovo, e ascende per le gioie che vi sono incastrate, alla somma di cinquemila ducati». Essa venne trafugata dai Francesi nel 1799.

[11] La teca, commissionata dal Capitolo della Basilica in sostituzione del baldacchino seicentesco, in cristallo di Boemia e argento cesellato, è opera dell’argentiere napoletano Michele Pane. Venne realizzata, dietro compenso di 25.000 ducati, tra il 1852 e il 1854. Le parti in argento e i cristalli vennero trasportati nel Santuario e montati sull’altare il 1° maggio 1854. Trattasi di «una struttura architettonica di gusto eclettico, che armonizza elementi desunti da lessici decorativi e strutturali anche assai lontani fra loro. Di impianto quadrangolare la teca è sorretta da colonne con fusto decorato da scanalature e fasciato da girali vegetali, collocate su un basso basamento. Quattro capitelli di gusto neo-egizio sostengono la trabeazione, su cui poggia un coronamento definito da protomi di cherubini, simili agli acroteri di un tempio classico. Al centro lo scudo con il motto (sic !) di san Michele (Quis ut deus) è inquadrato da grandi tralci fioriti» [R. Mavelli, La teca (scheda n. 40), in L'Angelo la Montagna cit., p. 188].

[12] Sin dall’episcopato del Puccinelli (1652-1658) si tentò di portare in processione la statua, ma in quel frangente non si riuscì a spostarla dal suo piedistallo, ragion per cui ci si limitò a portare la sola spada, come a voler significare che sarebbe stata sufficiente la fede che si riponeva in lui per l’esaudimento di una qualche grazia (M. Cavaglieri, op. cit., I, p. 508).

 [13] Annoto che, fra tutte le statue marmoree e di altro materiale da me prese in considerazione nel corso di questa ricerca, sia in riproduzione fotografica sia dall’osservazione diretta, non sono riuscito a trovare un’altra tanto simile all’originale ferrucciano quanto questa bella statua larinese.

[14] Secondo Sansone (loc. cit., p. 144), una statua dell’Arcangelo in pietra di Monte sarebbe da identificarsi con quella commissionata dalla regina Maria d’Ungheria nel 1323: «Veste una corta tunica, ha grandi ali (quella destra è mutila), impugna con la sinistra un grande scudo crociato, con la destra la lancia. La gamba sinistra è protesa in avanti, il piede calca il collo di un orrido dragone dalle fattezze umane che cerca di avvinghiarsi con la sua lunga coda allo scudo dell’Arcangelo» (ibid.). Tuttavia – come si è detto – le fonti ci dicono che la statua in oggetto doveva essere d’argento; e in ogni caso quella proposta da Sansone è del tutto dissimile dal simulacro ferrucciano [vd. anche S. Mola, San Michele Arcangelo (scheda n. 37), in L’Angelo la Montagna cit., p. 158].

[15] C. Angelillis, op. cit., I, pp. 21-25; II, p. 354; M. Azzarone, Le pietre di San Michele contro la peste del 1656, in La montagna sacra cit., pp. 124 ss.; F. Nasuti, L’Arcangelo e il pellegrino. Il culto micaelico nella fototeca Tancredi, in Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e Medioevo. Atti del Convegno Internazionale, edd. C. Carletti-G. Otranto, Bari 1994, pp. 300-301; G. Piemontese, Il Gargano. I luogi e i segni dell’immaginario, Foggia 1997, p. 140; Id., San Michele cit., pp. 146-148; A.M. Tripputi, loc. cit., pp. 274-293.  Nei secoli a venire si produssero statue dell’Arcangelo di ogni dimensione e per tutte le tasche, fino ad arrivare ad esemplari smontabili per i viaggiatori, da riporre in apposite cassettine atte al trasporto senza rischi. Così difatti descrive l’attività di questi valenti artigiani il Gregorovius nel suo resoconto di viaggio effettuato nel 1874 (In Puglia, Lecce 2002, pp. 61-62): «Lungo le pareti, sopra tavole ed assi, codeste statuette eran disposte a centinaia e delle più svariate grandezze. Sono di marmo friabile del Gargano e fatte a pezzi: ali, capo, corona, scudo, spada, anche il piedistallo di legno giallo, si possono staccare pezzo a pezzo, e riporli in una cassetta. Questo modo tenni io per portarmi felicemente a casa il mio San Michele, che mi sta ora dinanzi sano e salvo».

[16] Anonimo, Memoria sulla Celeste Basilica di S. Michele Arcangelo nella città di Montesantangelo sul Monte Gargano, 1864, pp. 13-19 (viene riportata la trascrizione di questi privilegi); vd. anche P. Sarnelli, op. cit., p. 322; C. Angelillis, op. cit., I, pp. 23-24.

[17] Decreto del 14 novembre 1690, deliberato dal Consiglio Collaterale al tempo del Viceré di Napoli Francesco de Benavides, conte di Santo Stefano (C. Angelillis, op. cit., I, pp. 24-25).

[18] A. Ciuffreda, Uomini e fatti della Montagna dell’Angelo, Foggia 1989, p. 218; a quanto è dato sapere, il privilegio reale venne sollecitato dal Clero capitolare della Basilica garganica, che temeva il calo delle proprie entrate nel caso in cui anche altre città del Regno avessero iniziato la produzione e il commercio delle effigi arcangeliche (C. Angelillis, op. cit., I, p. 24; M. Azzarone, loc. cit., p. 124; F. Nasuti, loc. cit., pp. 300-301).

[19] Si distinsero in modo particolare un Giovanni Perla, scultore e incisore attivo nella prima metà del Novecento, che prestò la sua opera in Sicilia e morì a Messina; ed un Michele Perla, che fu l’artefice della statua dell’Arcangelo (1865) posta nell’edicola dell’attuale facciata del Santuario garganico (C. Angelillis, op. cit., I, p. 23). Ricordiamo anche la famiglia Bisceglia, da cui proviene lo scultore Gaspare che, trasferitosi a Napoli col fratello Nicola, fu l’autore di un ritratto di Pio XI sul letto di morte (M. Sansone, loc. cit., p. 152). La plurisecolare tradizione dei sammecalére di Monte Sant’Angelo si è interrotta con la morte dell’ultimo di essi, un altro Michele Perla, avvenuta negli anni Ottanta dello scorso secolo. La parabola discendente era del resto iniziata già al principio del XX sec., col diminuito appeal del culto micaelico, cui si era associata la possibilità di fare ricorso a materiali più economici, quali plastica e resina, utilizzate per produrre esemplari in serie ad esclusivo uso dei turisti. Attualmente sopravvive una minima produzione, destinata a collezionisti ed amatori. Nel “Museo Devozionale” della Basilica Santuario e nel “Museo delle arti e tradizioni popolari del Gargano ‘G. Tancredi’ ” di Monte Sant’Angelo sono conservati alcuni notevoli esemplari di statue dell’Arcangelo, in pietra, terracotta, cartapesta e legno dipinto.

[20] Così Azzarone (loc. cit., pp. 124-125): «Le varianti che i sammecalère introducevano nelle loro statuine sono poche e ben individuabili. Queste, in un certo senso, possono costituire una indicazione per una collocazione cronologica della loro fattura e per l’identificazione della bottega artigianale o della famiglia che aveva prodotto il manufatto. Esempi di tali varianti o innovazioni rispetto allo schema fisso possono essere: definizione della corazza e della tunica (si passa da un panneggio statico ad uno più svolazzante), presenza dello scudo, conformazione del diavolo, tipo corona ed altro».

[21] «Da che furono questi ruvidi sassi consegrati dal Santo Arcangelo ed animati col motto Ubi saxa panduntur ibi peccata hominum dimittuntur furono tenute in pregio quasi di sagre reliquie» (M. Cavaglieri, op. cit., I, p. 190). Passato il pericolo della peste, le pietre e le statue di S. Michele divennero oggetto di culto privato. Ripetendo arcaici rituali, piccole pietre venivano inserite nelle murature delle case in costruzione, una piccola pietra veniva appesa al collo dei neonati o anche adattata a pendaglio per collanine da destinare ai bambini più grandi (A.M. Tripputi, loc. cit., p. 276).

[22] M. Azzarone, loc. cit., p. 113: «... da tutte le parti non solo del Regno, ma d’Italia, sono richieste queste Sante pietre, e di vantaggio ha procurato, la devozione dei popoli d’haver statue intere della pietra di questa Montagna che se bene non sono di dentro la Grotta di dove si cavano le pietre benedette (non potendosi haver pezzi così grossi), però si formano le statue di sassi contigui alla Sacra Grotta, che la montagna istessa tutta è tenuta in gran venerazione onde di questa materia si desiderano le statue, e non fatte altrove, et ogni giorno vengono commissioni da diversi luoghi» [D. Corsi, Giovanni Alfonso Puccinelli, patrizio lucchese, arcivescovo di Manfredonia (1652-1658), Lucca 1980, p. 92 (lettera del 24 giugno 1658)].

[23] È questo il caso delle statue volute per le grotte di S. Michele a Cagnano Varano [prov. Foggia], Gravina [prov. Bari], Pertosa [prov. Salerno], Pescocostanzo e Monticchio [prov. L’Aquila] (M. Azzarone, loc. cit., p. 124). Notevole il caso salernitano di «Mastro Giovanni, ferraro della terra di Rivello casato e abitante in terra di Polla» che, «per special sua devozione, si risolse far in detto altare una statua del glorioso S. Michele», sicché «andò questuando l’elemosinando, di modo che unitasi qualche somma competente… si riportò sul Monte Gargano, dove fu fabbricata detta Statua del glorioso S. Michele» (G. Lamattina, Grotte di Pertosa, Salerno 1988, p. 40; riportata dalla Cronaca Conzana, II, 14).

[24] L’arcivescovo aveva inviato una missiva al papa Chigi, per aggiornarlo sulla vicenda (Epistola data Sanctissimo Alexandro Papæ VII ab Archiepiscopo Ioannæ Alphonso Puccinello Lucensi de miracolo Sacrorum Lapidum, riportata in M. Cavaglieriop. cit., I, pp. 628-636; sulle “sagre pietre”: ibid., pp. 588-589). Tuttavia va detto che le descrizioni fornite dall’Arcivescovo sipontino non furono sufficienti a convincere la curia romana – forse per malafede –, che difatti non accreditò i miracoli della Grotta garganica [G.B. Bronzini (ed.), Ex voto e santuari in Puglia. Il Gargano, Firenze 1993, pp. 137 ss.].

[25] Si integrò allora l’antica espressione «Ubi saxa panduntur ibi peccata hominum dimittuntur» con un’altra, anch’essa di tradizione angelica: «Ubi saxa devote reponuntur, ibi pestes ab hominibus dispelluntur».

[26] Fu il vescovo di Lucera, mons. Silvestro d’Afflitto, a richiedere direttamente al suo confratello di Manfredonia Giovanni Alfonso Puccinelli il prezioso dono, per ringraziarlo della cessazione dell’epidemia: «Illustrissimo et Reverendissimo Signor mio Osservandissimo, Vengono alcuni Gentil’Huomini di questa città con alquanti Sacerdoti per ricevere da vostra Signoria illustrissima il favore della statua del glorioso Prencipe S. Michele, mi farà gratia con la sua solita cortesia darmela insieme con la Santa Beneditione, acciò qui si possa corrispondere con i devoti e dovuti atti di gratitudine ai benefici ricevuti, et alle gratie maggior che ne speriamo, tenendo questa città e tutta la Diocesi questo gran Prencipe del Paradiso, insieme col glorioso San Rocco, per loro principali Protettori. Scuserà poi V.S. Illustrissima la tardanza di questa venuta causta dal mancamento della prattica che qui non è stata conceduta prima della fine della settimana passata, e per la festa della Pentecoste, e della translatione della statua del glorioso San Rocco dalla sua nova cappella che si fece lunedì prossimo con gran pompa, e con la Comunione Generale nel giorno precedente, si sono trattenuti questi tre altri giorni. Riceverà dunque adesso insieme con tutta questa città gl’effetti della sua gentilezza et recordandomi a V.S. Illustrissima quel servidore che sempre, le basso per mille volte le mani. Di V.S. Illustrissima e Reverendissima Devotissimo et obbl.mo Servidore Silvestro d’Afflitto, Vescovo di Lucera. Lucera 12 Giugno 1658». La statua fu probabilmente collocata sulla cuspide del portale della Cattedrale lucerina, dove ancora si trova (M. Azzarone, loc. cit., p. 114).

[27] La statua, opera di uno scultore barese, era «alla misura e forma di questa, la quale ha le ale e corona d’argento, tutte ornate di ricchissime gioie» [D. Corsi, op. cit., p. 90 (lettera del 24 giugno 1658)]. Caricata agli inizi di ottobre di quell’anno, arrivò nella città toscana nella seconda metà di novembre, quando l’arcivescovo Puccinelli era già morto da un mese (17 ottobre 1658), e venne esposta sulla facciata esterna della basilica di S. Michele in Foro (C. Angelillis, op. cit., I, pp. 22-23; M. Azzarone, loc. cit., p. 119; G. Piemontese, San Michele e il suo santuario cit., p. 148).

[28] M. Azzarone,loc. cit., pp. 110-115; cfr. anche C. Angelillis, op. cit., I, pp. 22-23; G.B. Bronzini, op. cit., p. 137; G. Piemontese, San Michele e il suo santuario cit., p. 148; M.S. Calò Mariani, La scultura lapidea, in G.B. Bronzini (ed.), Capitanata medievale, Foggia 1998, pp. 160, 173, n. 7; M. Spedicato, Ricerca storica e storiografia religiosa sulla Capitanata moderna, Bari 2002, pp. 186 ss.; M. Azzarone, I pellegrini al Gargano. L’arcivescovo Puccinelli, in «Michael» 124 (2006), pp. 15-18.

[29] C. Angelillis, op. cit., II, p. 173 (citata la «compagnia» di Larino tra le 16 «principalissime» della «provincia del Sannio o Molise»). Dell’esistenza di un antichissimo pellegrinaggio verso il santuario garganico fa fede, tra l’altro, la c.d. “Carrese di San Pardo”, specialmente nella sua versione rinvenuta in una carta del 1608 (N. Stelluti, Larino. Carri & Carrieri di San Pardo 1990/91, Campobasso 1992, p. 34).

[30] Certamente ad esserne a conoscenza era il clero, visto che un secolo prima il vescovo Balduino aveva verificato, nella sua Visita, lo stato di abbandono dell’antico luogo di culto, al momento del passaggio dei suoi beni al Seminario diocesano [cfr. G.A. Tria, op. cit., p. 369; G. Mammarella, Larino Sacra. La diocesi cit., p. 52; vd. anche G. e A. Magliano, op. cit., p. 185].

[31] A devozione dell’Arcangelo, nel 1769 il canonico don Gaspare Borzillo volle erigere una Cappella privata, accanto a una dimora di campagna, la quale a sua volta era stata edificata su una casupola tirata su alla meglio dalla famiglia Pauluzzi, proprio per scampare al contagio del 1656 [N. Stelluti, Villa Borzillo e chiesa di San Michele Arcangelo, in «Il Larinate» 4/5 (2000), pp. 11-22; G. Mammarella, Da vicino e da lontano, II, Campobasso 2009, p. 146; vd. anche A. Magliano, op. cit., p. 58, che però attribuisce erroneamente alla peste del 1656 lerezione della Cappella]. Da verificare l’ipotesi che la nostra statua possa essere stata richiesta proprio dalla famiglia Borzillo per essere collocata in una nicchia posta all’interno della cappella di S. Michele. Passato il terribile momento, si diffuse nelle province meridionali l’abitudine di organizzare processioni all’interno dei paesi e pellegrinaggi alla Grotta garganica, al fine di rendere grazie all’Arcangelo per la cessazione del grave pericolo. Particolarmente degna di nota la dotazione al Santuario garganico di Alfonso d’Avalos, marchese di Vasto e signore di Pescara, giuntovi nel luglio 1658 con un seguito di oltre cento persone, il quale donò una collana d’oro del valore di 1.600 scudi, poi trafugata dai Francesi – assieme a molte altre preziose suppellettili, tra cui il baldacchino d’argento donato nel 1669 da Carlo II di Spagna e la corona d’oro – durante l’occupazione del 1799 (M. Azzarone, Le pietre di San Michele cit., pp. 115 e 136, n. 89).

 

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Commenti: 5
  • #1

    Angelino (domenica, 19 luglio 2015 19:22)


    Bellissima questa statua di San Michele che sta a Larino, che non conoscevo proprio. E' veramente molto simile a quella nostra, che sta giù nella Grotta. Molto contento di questa comparazione. Viva San Michele sempre!

  • #2

    Breynaert Françoise (domenica, 16 aprile 2017 20:48)

    Cari amici,
    Cristo è risorto.
    Sono teologa francese ed ho ricevuto l'imprimatur per un libro sulla preghiera di liberazione, il quale dovrebbe uscire fra poco alle edizioni Parole et Silence (Parigi : Parole et Silence Marc Larivé <mlarive@icloud.com>).
    Autore, vorrei proporre le foto di San Michele del Gargano per la copertina.
    Le foto del votro sito sono belle pero per la copertina ci vuole una qualità migliore. Per favore sarebbe possibile avere foto migliore ?
    Grazie mille e bella festa di Pasqua.
    Françoise Breynaert

  • #3

    pinomiscione (martedì, 18 aprile 2017 23:12)

    Gentilissima Françoise,
    lei non mi ha fornito un indirizzo di posta elettronica suo personale (vedo solo quello della Casa editrice), e quindi non le posso rispondere in privato. Lo faccio qui.

    Le fotografie pubblicate nel saggio presentato qui sopra non sono mie, se non quelle poche indicate in didascalia. Pertanto sono spiacente di comunicarle che non sono in grado di farle avere immagini con una migliore risoluzione grafica.
    Le invio i migliori auguri per il libro in uscita.

    Pino Miscione

  • #4

    rocco chiapperini (domenica, 11 giugno 2017 19:28)

    Da dove proviene l'alabastro utilizzato per le statue di san Michele? Nel testo si dice che "Adoperavano, nel loro lavoro, un alabastro bianco perlaceo che pareva agli occhi dei compratori quasi allume". E' la stessa roccia che "Gli statuari estraevano" detta "la préta gentîle" estratta "da due cave, una, la Tufèra Ròsse, lungo la strada che conduceva a Manfredonia; l’altra su quella che menava a Mattinata, nei pressi di Sellino Cavola"?.

  • #5

    pinomiscione (lunedì, 12 giugno 2017 03:05)


    Gentile Rocco,
    la ringrazio della domanda, che mi permette di chiarire un aspetto tecnico del mestiere dei "sammichelai". L'alabastro adoperato per scolpire le statue di San Michele non era di provenienza locale. Lo chiariscono almeno due autori riportati nella nota n. 15 del mio testo, nei passi che qui, nel dettaglio, riporterò per esteso: «In queste botteghe la pietra gentile locale e l'alabastro di Carrara venivano lavorati secondo stilemi precisi e probabilmente in una sorta di catena di montaggio ante litteram» (F. Nasuti, L’Arcangelo e il pellegrino. Il culto micaelico nella fototeca Tancredi, in Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e Medioevo. Atti del Convegno Internazionale, edd. C. Carletti-G. Otranto, Bari 1994, p. 301); «Le statue erano generalmente di pietra locale o di alabastro di Carrara» (G. Piemontese, San Michele e il suo santuario. Via Sacra Langobardorum, Foggia 1997, p. 147).

    Ho già provveduto ad inserire questa notizia in più nel testo del mio articolo. Grazie della segnalazione.

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